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Mantenere l’equilibrio fra esigenze di sicurezza e rispetto dei diritti non sempre è facile e spesso viene travolto da indicazioni politiche

A margine della presentazione del calendario della Polizia penitenziaria 2025, dove sono ben visibili ed esaltate immagini di agenti in armi, con bella vista di scudi, fucili e manganelli, mi trovo a riflettere su un concetto che deve essere ben presente nella vita di uno Stato autenticamente democratico: le forze dell’ordine non sono né buone né cattive sono semplicemente e solamente necessarie.
Così come purtroppo è necessario l’uso della forza da parte dei militari e della polizia, ogni qual volta occorre fronteggiare persone che infrangono con violenza la legge e mettono in pericolo il convivere civile.
Questo è vero per tutte le Forze dell’Ordine ma è particolarmente vero per la Polizia Penitenziaria che non solo ha il compito di mantenere l’ordine nelle carceri, ricorrendo alla forza quando è estremamente necessario ma, secondo quanto indicato all’articolo 5 della legge 395 del 1990 sulla liforma della Polizia penitenziaria, ha anche il compito di contribuire al trattamento rieducativo dei detenuti e di collaborare a tal fine con la magistratura di sorveglianza.
La storia dello Stato italiano ci insegna che ogni qualvolta dalla maggioranza di governo arrivano alle Forze dell’Ordine segnali incentrarti su una politica fortemente securitaria si sono verificati episodi di inammissibile violenza: così è stato nella repressione delle lotte contadine ed operaie dei primi anni della Repubblica e così è stato fino al G8 di Genova. Gli appartenenti alle Forze dell’Ordine sono spesso, come ci ha insegnato Pier Paolo Pasolini, figli del proletariato e del bisogno, sono uomini e donne che rischiano la vita, sovente vivono situazioni scomode sia fisicamente che psicologicamente, provano paura per sé e per i propri cari, spesso non riscuotono le simpatie della gente, ma sono lì, al loro posto, ogni qualvolta che ce ne sia bisogno. Non sono per indole violenti ma nella maggior parte dei casi sono uomini e donne che rispecchiano gli umori e lo stato d’animo del Paese.
Proprio per questa doverosa attestazione di stima, la collettività esige da loro, prima di altri, il rispetto delle regole sancite dalle leggi ordinarie e dai regolamenti, in conformità ai supremi principi scolpiti nella Costituzione. Ed è quello che, per fortuna nella stragrande maggioranza dei casi, le Forze dell’Ordine quotidianamente compiono spesso tra mille difficoltà.
Lo fanno quando devono garantire il diritto di sciopero e al contempo garantire il normale scorrere della vita civile. Lo fanno all’interno delle carceri dove accanto alla attività di sorveglianza svolgono una altrettanto utile attività di rieducazione e mediazione.
Mantenere questo delicato equilibrio fra esigenze di sicurezza e rispetto dei diritti dei cittadini non sempre è facile e spesso questo delicato equilibrio viene travolto da indicazioni politiche, talvolta più attente all’aspetto securitario che non a quello del rispetto dei diritti, siano essi i diritti di chi pubblicamente manifesta, ovvero i diritti di chi deve scontare una pena con il fine di emendarsi e reinserirsi nella società secondo quanto previsto dall’art. 27 c. III Cost.
Se gli umori della dirigenza del Paese manifestano fastidio verso il diritto di manifestazione e di sciopero, ovvero indicano nella sola attività di repressione la funzione del sistema penitenziario, allora, quasi come in un volano meccanico, non volontariamente attivato, si manifesteranno episodi di violenza ingiustificata come purtroppo le cronache di questi ultimi mesi attestano essere avvenute all’interno delle carceri in diverse sedi da Cuneo fino a Trapani.
Se viceversa la dirigenza del Paese, di chi dirige e addestra le Forze dell’Ordine, è attenta ai diritti dei cittadini, anche di quelli che scontano una pena, ed insegnano che il ricorso alla forza è un rimedio estremo per casi estremi mentre il più delle volte dialogo e comprensione sono la chiave per risolvere preventivamente i conflitti, allora i casi di violenza si registreranno con sempre minore frequenza.
Noi ci auguriamo di rivedere scene come quelle del poliziotto che comandato di ordine pubblico si toglie il casco e dialoga sorridente con i manifestanti o come quella dell’Ispettore di Polizia Penitenziaria che si inoltra fra i detenuti, ne raccoglie le legittime lagnanze evitando sommosse e gesti sconsiderati.
Prendendo a prestito il pensiero dell’arcivescovo di Milano Mons. Mario Enrico Delpini, il patto sociale non si realizza solo facendo rispettare la Legge ma si realizza altresì con una politica sociale attenta ai diritti e ai bisogni della gente.

*L’autore è procuratore generale a Cagliari

Tratto da: Repubblica.it

Foto © Imagoeconomica

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