Ormai non ci sono più dubbi. Questo paese sta davvero lottando contro la propria memoria. Al di là del caso Andreotti, che ha qualcosa di perfidamente mitologico, ve ne sono altri meno eclatanti che ci parlano di un’insorgente tendenza all’oblio. Frutto non di insensibilità specifica, ma di una progressiva frana delle coscienze. Quanto vi si mescolino accidia, spocchia ruspante, ottusità o decadenza morale o altro ancora, è difficile dire. Fatto sta che io stesso ho avuto bisogno del messaggio di un valoroso giudice agrigentino in pensione, Ottavo Sferlazza, per ricordarmi (in ritardo) che tra i tanti anniversari di sangue di questa stagione c’è quello dell’omicidio di Antonino Saetta, ennesimo giudice siciliano vittima di mafia. Presidente della Corte di assise di appello di Palermo, Saetta fu ucciso la sera del 25 settembre del 1988 insieme al figlio Stefano mentre faceva rientro a Palermo da Caltanissetta.
Sferlazza racconta di averne conosciuto la statura morale non in forza di rapporti personali ma attraverso lo studio delle carte processuali, poiché presiedette la corte di assise di Caltanissetta che condannò come mandanti di quell’omicidio Salvatore Riina e Francesco Madonia. E ricorda che con quel delitto Cosa nostra cercò una volta di più di tirare la storia dalla sua parte. Volle certo vendicarsi di un giudice che non aveva voluto piegarsi in più occasioni alle intimidazioni e pretese dei clan, a partire dall’ “aggiustamento” del processo per l’omicidio del capitano Emanuele Basile, ucciso a Monreale nel maggio del 1980 da Giuseppe Madonia (figlio di Francesco e figlioccio d Riina), Armando Bonanno e Vincenzo Puccio. Un processo vergognoso, da manuale degli orrori, e a cui non per caso Giuliano Turone ha dedicato un intero capitolo della sua “Italia occulta”. E a cui sbarrò la strada Saetta. Che quando toccò a lui occuparsene non fece aggiustare niente. Interpellati da esponenti mafiosi, i giudici popolari lo “incolparono” di essersi imposto in camera di consiglio: con quel “quadro probatorio” non sarebbe uscita nessuna sentenza di assoluzione con la sua firma (averne di giudici così rispettosi della propria funzione e del valore della propria firma….). Fu ucciso undici giorni dopo avere depositato le motivazioni della sentenza.
E tuttavia non solo di vendetta si trattò. Bisognava anche (ed ecco la partita storica in cui entrò il delitto) fermare Saetta in vista dell’obiettivo più importante, ossia “aggiustare” la sentenza d’appello del maxiprocesso, assegnato alla prima sezione della Corte di assise di appello di Palermo, da lui presieduta. Saetta ne ebbe incarico ufficioso nei primi giorni di settembre del 1988. Di nuovo lui sulla strada di Cosa Nostra. Di nuovo lui dopo il processo Basile; di nuovo lui dopo il processo Chinnici, quando nel 1985 aveva respinto ogni tentativo di avvicinamento per condizionarne l’esito, con tanto di segnalazione all’Arma dei carabinieri, e condanna finale per Michele e Salvatore Greco. Venne tolto di mezzo per sempre, uccidendogli anche il figlio. E singolarmente, eliminato lui, giunse la sentenza d’appello più incredibile e più attesa dai boss, quella che cercò di disfare con motivazioni grottesche tutto il lavoro di Falcone, Borsellino e di ricacciare indietro il “mondo nuovo” che stava nascendo intorno a loro. Ecco, a questo ho pensato leggendo il messaggio di Ottavo Sferlazza. E mi sono interrogato, anche con un po’ di dolore, sulle ragioni che non resero allora il giusto onore alla grandezza di questo giudice, e su quelle che non consentono di renderglielo nemmeno oggi, con l’oblio che imperversa anche in tanta antimafia. A furia di celebrare misteri e teorie del “guarda caso” ci dimentichiamo della storia che ci si è squadernata sotto gli occhi, nella sua terribile maestosità. Alla quale un giorno reagimmo senza bisogno di rivelazioni.
Tratto da: ilfattoquotidiano.it
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