Nel nuovo libro di Nino Di Matteo e Saverio Lodato le risposte ad una (oscena) sentenza
“Oggi non mi sento sconfitto. Ho cercato solo di fare il mio dovere, mettendo da parte ogni calcolo opportunistico e ogni ambizione di facile carriera. Per questo ancora oggi ho la serenità di chi, con tutti i limiti e i possibili errori, è consapevole di avere contribuito, con altri valorosi colleghi, a far emergere fatti gravi e importanti, a cercare di portare un po’ di luce nei labirinti più oscuri della nostra storia recente”. Parole di un magistrato, Nino Di Matteo. Che assieme a valorosi colleghi come Vittorio Teresi, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia (e prima ancora Antonio Ingroia) ha avuto il coraggio di processare la mafia e una parte dello Stato. Un processo che in primo grado ha visto pesanti condanne, per poi passare a schizofreniche assoluzioni in appello, con tanto di sigillo della Cassazione.
L’osservazione di Di Matteo fa parte delle acute analisi e riflessioni contenute nel libro edito da Fuoriscena-Libri Rcs “Il colpo di spugna - Trattativa Stato-Mafia, il processo che non si doveva fare”. Un saggio lucido, indispensabile, estremamente esaustivo, scritto a quattro mani con il nostro editorialista Saverio Lodato.
E’ quest’ultimo a introdurre il tema spinoso del processo sulla trattativa, in un serrato botta e risposta con Di Matteo. Che restituisce la verità dei fatti. Per le future generazioni in primis, che in questo modo avranno la possibilità di comprendere la gravità di questa sentenza. O più probabilmente la coerente linearità con lo stato in cui versa la giustizia nel nostro Paese.
Ma in Italia la legge è davvero uguale per tutti?
“Tutto cancellato. Tutto inutile. Tutto da rifare – l’incipit di Lodato è tranciante –. Si poteva trattare con la Mafia. Si può trattare con la Mafia. Si potrà trattare con la Mafia. Lo Stato può scendere a patti con il suo avversario ultrasecolare. Non c’è niente di male se lo fa a fin di bene. Cosa Nostra resta l’unica organizzazione criminale con licenza di condizionare, intimidire, terrorizzare il suo nemico, alla quale non verrà mai meno la speranza di trovare interlocutori sugli spalti dell’altra sponda”. Per l’autore del bestseller “Quarant’anni di mafia” non ci sono dubbi: “È altrettanto pacifico che il processo sulla trattativa che avvenne fra lo Stato e la Mafia – fra il 1992 e il 1994 – non si doveva fare. Parola di Cassazione. Parola tombale di Cassazione, verrebbe da dire.
Parola espressa in 91 pagine, partorite lentamente, al ritmo di tre alla settimana; ché «l’affaire» era complicato, scivoloso, e destinato forse all’eternità, più che al futuro. Sì. Perché dentro questo gigantesco contenitore, polverizzato ormai in punta di diritto, sta un’infinita scia di sangue e di stragi, ultime quelle di Capaci, via D’Amelio, Roma, Milano e Firenze. In altre parole: la legge, in Italia, resta uguale per tutti? Dottor Di Matteo, sto esagerando?”.
La prima domanda è tutt’altro che retorica. Di Matteo lo sa bene: “I suoi timori sono fondati – replica laconico –. Questa sentenza segna uno spartiacque tra due epoche, tra concezioni diverse di approccio investigativo e processuale alle complesse dinamiche dei rapporti tra Cosa Nostra e il potere”.
In un crescendo di puntualizzazioni, smentite, e poi ancora ricostruzioni oggettive con prove alla mano, il libro attraversa i punti salienti di un processo che “a fronte delle continue mistificazioni e omissioni del sistema dell’informazione” doveva essere boicottato, censurato, mistificato dalla stragrande maggioranza dei media. Per Lodato si è trattato di vere e proprie “randellate” ad opera di “quell’apparato informativo che «zelantemente» non aspettava altro. Randellate contro i pm. Randellate contro i giudici di merito. Randellate contro quei familiari delle vittime che hanno continuato – e continuano – a pretendere una verità che sia credibile e convincente”.
Ma al posto della verità è giunta invece una sentenza che “pretende di riscrivere i fatti, anziché limitarsi al controllo di legittimità della sentenza impugnata”, e soprattutto che “rischia di costituire per il futuro un pesante e pericoloso monito per quei magistrati che di volta in volta saranno chiamati a indagare e giudicare fatti e delitti che non possono essere compiutamente accertati, se non debitamente collegati e valutati in un contesto storico e sociale più ampio”.
Dal canto suo Di Matteo ci tiene a ricordare “la grande passione civile” di Giovanna Maggiani Chelli, la presidente dell’associazione delle vittime della strage di via dei Georgofili che “fino agli ultimi giorni della sua vita ha combattuto una battaglia di verità e giustizia che ancora oggi merita una risposta istituzionale adeguata”.
Un assist dalla sentenza di Appello
“Sono altrettanto nette e lapidarie le conclusioni alle quali perviene la Corte di Assise di appello – spiega Di Matteo – in merito alla incidenza della trattativa con la prosecuzione della strategia stragista attraverso gli attentati del 1993: «La spinta e le motivazioni in forza delle quali i vertici dell’organizzazione mafiosa si determinarono a riprendere concretamente la strategia dopo l’arresto di Riina, affondano le loro radici e si saldano al convincimento, indotto da quella improvvida iniziativa, che le bombe servivano a indurre lo Stato a trattare». Non direi che siamo in presenza di un riconoscimento della «buona condotta» da parte degli imputati”.
Nella sua accurata ricostruzione il magistrato cita un passaggio determinante del ricorso della Procura Generale di Palermo contro la sentenza di Appello al processo trattativa. Nero su bianco veniva rimarcato il “concreto interesse” a “veder cassato il principio che si ricava dalla sentenza impugnata” nello specifico “della rilevanza penale di ogni genere d’intesa, accordo, alleanza ibrida tra ufficiali di polizia giudiziaria ed esponenti di frange di organizzazioni criminali, stretti al fine di contrastare una frangia avversa ritenuta in ipotesi più pericolosa, e poi per anni proteggere la frangia risultata vincitrice”. Per Di Matteo quel passaggio rappresenta una “manifestazione esplicita di una grave preoccupazione. Un vero e proprio grido di allarme per scongiurare, anche per il futuro, la possibilità che alleanze di questo genere possano trovare avallo, incentivo, legittimazione in una pronuncia giudiziaria definitiva”.
Ma come è noto, con la sua oscena decisione la Cassazione “ha creato le premesse teoriche per provocare proprio quei disastrosi effetti che il procuratore generale di Palermo aveva paventato”.
Poco altro da aggiungere se non che questa sentenza “ha voluto spazzare via, in un colpo solo, il frutto di anni e anni di dibattimento”. E che “inopinatamente ricostruisce ex novo i fatti storici. Con una prospettazione che appare per molti versi lacunosa e sommaria e, per altri aspetti, in contraddizione anche con altre sentenze definitive”. “Di tutto ciò, la Cassazione se ne è infischiata: non ne ha voluto tenere conto. Si è completamente discostata anche da quanto consacrato in altre sentenze definitive nei processi per le stragi. Era forse necessario liberare gli imputati istituzionali anche dalla semplice ombra di un’indiretta, involontaria, giuridicamente irrilevante, corresponsabilità morale nelle stragi”.
Certo è che “se tutti i fatti fossero stati valutati con una visione d’insieme, non si sarebbe arrivati a una decisione così liberatoria per gli imputati”.
Ma “c’è un macigno che neppure questa sentenza riesce a rimuovere: «La ricerca del dialogo» da parte di esponenti delle istituzioni con i vertici di Cosa Nostra. C’è poco da fare. Questo dato resta scolpito in maniera indelebile in un provvedimento giudiziario definitivo.
E non poteva essere altrimenti. I giudici della Suprema Corte non potevano cancellare anche le parole del generale Mori quando, a distanza di molti anni, ricostruì per la prima volta in un’aula di giustizia a Firenze il suo approccio con Vito Ciancimino”.
“In un Paese normale – conclude Di Matteo – già un approccio di questo tipo, un vero e proprio riconoscimento dell’autorità mafiosa da parte dello Stato, avrebbe dovuto provocare accesi dibattiti e profonde riflessioni. Anche politiche. Invece nulla. E oggi in tanti hanno tirato un sospiro di sollievo e si scagliano contro chi ha contribuito a far emergere quei rapporti occulti che finiscono per riconoscere e legittimare il potere della Mafia. Sarò forse ingenuo. Continuo però a pensare che il «muro contro muro» sia l’unico strumento che lo Stato possa utilizzare per debellare il cancro mafioso. Continuo a credere che, per nessun motivo e in nessuna condizione, le istituzioni possano cercare mediazioni e compromessi con il nemico”.
Rielaborazione grafica by Paolo Bassani
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