Prossima udienza per l’agguato mafioso del 5 agosto ‘89 attesa per il 30 gennaio
Il boss Antonino Madonia, le dinamiche del duplice omicidio e la macchina del depistaggio. Sono questi i punti cardine attorno ai quali si è sviluppata l’udienza di ieri durante la requisitoria del procedimento sulla morte del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, i due coniugi uccisi in un agguato mafioso il 5 agosto del 1989 a Villagrazia di Carini. Ieri la procura generale di Palermo, dopo aver ricostruito nelle udienze precedenti la figura dell’agente Agostino e del boss Gaetano Scotto davanti alla Corte d’Assise presieduta da Sergio Gulotta (giudice a latere Monica Sammartino), ha ripreso la requisitoria concentrandosi innanzitutto su Madonia, il cui mandamento di Resuttana è stato definito dal sostituto procuratore nazionale antimafia Domenico Gozzo come “il quarto protagonista di questa vicenda”. Sul banco degli imputati siedono Francesco Paolo Rizzuto, sedicente amico d’infanzia dell’agente di polizia assassinato, accusato di favoreggiamento, e il boss dell’Acquasanta Gaetano Scotto, accusato di duplice omicidio aggravato in concorso.
Parallelo a questo troncone processuale c’è quello in corso con rito abbreviato a carico di Nino Madonia, che in primo e secondo grado è stato condannato all’ergastolo come mandante del duplice omicidio. “Esistono elementi probatori che comprovano il ruolo e il grado di Madonia Antonino dentro Cosa nostra e soprattutto dentro il mandamento di Resuttana – ha detto Gozzo -. Una storia, quella dei Madonia, strettamente connessa a vicende particolari rispetto all’ordinarietà e alla normalità di Cosa nostra”.
E da qui l’excursus investigativo e processuale con cui Gozzo ha riavvolto il nastro della storia di Palermo per ricostruire l’ascesa dei Madonia.
Entrati a far parte del “gotha” di Cosa nostra all’inizio degli anni ’70, “i Madonia si affermano nella zona di Resuttana quando viene meno la generazione mafiosa precedente in conseguenza della prima guerra di mafia, durante la quale furono interessate le zone di San Lorenzo e Acquasanta, in particolare – ha detto Gozzo alla Corte -. Una guerra finita con l’epurazione di una serie di soggetti ritenuti pericolosi per i corleonesi e l’avanzare da parte di quest’ultimi verso Palermo”. “Una pulizia etnica, più che una guerra”, ha continuato Gozzo. Nel tempo i Madonia sono entrati nella cerchia ristretta dei fedelissimi di Totò Riina. Il “Capo dei capi” “parlava diffusamente di loro, e in particolare la sua attenzione era spesso rivolta a Nino Madonia”, ha aggiunto il Pg. Definito da Riina come "potentoso", perché ritenuto il più pericoloso tra i fratelli, Nino Madonia godeva della piena fiducia di Riina al punto da essere “autonomo” anche se “fedelissimo di Riina”. La storia dei Madonia, e in particolare quella di Antonino, rientra in questo processo perché, proprio in virtù della fiducia e dell’autonomia che contraddistingueva il boss di Resuttana, quest’ultimo “ha commesso reati anche al di fuori del mandamento” e “aveva rapporti proficui con i servizi segreti per conto di Cosa nostra”. Un “calderone” in cui, come è emerso, è entrato anche Nino Agostino - seppure con fini diametralmente opposti -, pagandone un prezzo altissimo.
Un delitto di mafia, ideato e pianificato nei minimi dettagli
È stata poi la volta del sostituto procuratore generale Umberto De Giglio il quale, dopo aver ricordato per sommi capi le prove e gli elementi concernenti la reale identità dell’Agostino e il contesto in cui operava, si è concentrato sulla fase preparatoria del duplice omicidio e la sua natura mafiosa: evidenti sia dalle modalità di esecuzione, sia per i depistaggi che ne sono conseguiti. La matrice mafiosa “conferma quanto si è detto sull’attività di ricerca di latitanti mafiosi svolta da Agostino, mentre i depistaggi confermano l’inserimento di Agostino in un contesto caratterizzato dalla presenza di esponenti dei servizi segreti”, ha detto De Giglio alla Corte.
Un’esecuzione preparata da tempo come indicano, tra gli altri, tre importanti episodi precedenti al delitto. “Il primo riguarda il pedinamento dell’Agostino durante la partenza per il viaggio di nozze”. Il secondo, ha continuato De Giglio, “è il sopralluogo effettuato una settimana prima dell’omicidio alla casa al mare degli Agostino a Villagrazia di Carini da due uomini in moto. Due soggetti che si sono presentati come colleghi di Nino, uno dei quali riconosciuto da Vincenzo Agostino (padre dell’agente ucciso, ndr) in Giovanni Aiello”, alias “faccia da mostro”. Infine, la moto usata dai due killer. Una Honda Africa Twin di grossa cilindrata, rubata mesi prima del delitto (il 22 maggio ’89) dai locali di un autosalone di proprietà di Salvatore Riccobono. Rinvenuta dopo l’esecuzione in fiamme in un luogo poco distante da quello dell’omicidio.
L’omicidio di Nino Agostino e Ida Castelluccio è stata “un’esecuzione in piena regola; fredda e spietata”. Quella di Villagrazia di Carini non era la casa dove abitavano i giovani coniugi. I due vivevano ad Altofonte. “Il fatto che loro erano lì quella sera non era scontato. Agostino chiese di cambiare il suo turno in Polizia perché quella sera era prevista la festa del diciottesimo compleanno di sua sorella Flora. La loro presenza, dunque, non poteva essere un dato certo”. Da qui l’esigenza del commando di “studiarne le abitudini”, ma anche di avere una “base logistica” nei pressi del luogo del delitto.
“Si deve verosimilmente ritenere che gli esecutori dell'omicidio abbiano atteso l'arrivo delle vittime in un luogo sicuro e poco distante da quello scelto per commettere il delitto, in modo da attivarsi appena avuta la notizia dell'arrivo delle vittime – ha spiegato De Giglio -. Questo dato impone di ricordare che nel dicembre del 1991, Madonia Salvino, fratello di Antonino, venne tratto in arresto in un immobile ubicato proprio a Villagrazia di Carini”. Secondo quanto accertato nell'ambito del procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali nei confronti dello stesso Madonia Salvatore (alias Salvino), “questo immobile, costituito da tre lotti su cui erano state edificate delle ville di un certo livello, era nella disponibilità dalla famiglia Madonia già dalla metà degli anni ’80. Sicuramente nel 1989”. Come da specifico accertamento effettuato dagli investigatori della DIA, inoltre, l'immobile dei Madonia si trovava a meno di quattro chilometri dall’abitazione degli Agostino. “Una distanza - ha detto De Giglio - che con un ciclomotore si percorre in cinque minuti e con una moto ancora meno”.
I killer, dunque, “arrivano quando sono sicuri di trovare le vittime designate. E per avere certezza devono essere informati”. “Risulta in tal senso del tutto plausibile, alla luce degli elementi emersi, che tale notizia sia stata fornita da quel ragazzino che conosceva bene Agostino e che per tutto il giorno aveva chiesto ‘ma quando arriva Nino’. Cioè Rizzuto Francesco Paolo”, ha continuato il Pg.
La macchina del depistaggio: dal delitto passionale al “pupo vestito” di La Barbera
Il secondo segmento dell’intervento di Umberto De Giglio ha riguardato il capitolo dei depistaggi. Un passaggio doveroso da un lato per spiegare i trentacinque anni trascorsi da quel terribile 5 agosto ’89. Dall’altro, perché “l’esistenza accertata di azioni depistanti in questo procedimento finisce indirettamente per costituire la ‘prova del nove’ di quanto abbiamo fin qui ricostruito a proposito del coinvolgimento di Nino Agostino in un contesto di relazioni e attività tipico dei servizi segreti”.
Due le fasi temporali in cui si sono verificati i depistaggi: subito dopo omicidio, “per evitare collegamenti tra Agostino e servizi”; e qualche anno dopo il delitto con Vincenzo Scarantino, passato alle cronache in tempi più recenti come il “pupo vestito”, emblema dei falsi collaboratori di giustizia per il depistaggio messo in campo nelle indagini sulla strage di via d’Amelio, nonché pupillo orchestrato da Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo legato ai servizi segreti e al centro delle vicende che hanno riguardato il depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio.
Per la prima fase, De Giglio ha ricordato le significative omissioni del dottor Elio Antinoro, il funzionario della Polizia che, prima come dirigente del commissariato Duomo e poi come dirigente del commissariato San Lorenzo (dal febbraio 1987 al marzo 1989), aveva avuto alle sue dipendenze l’agente Agostino per diversi anni. Nei giorni immediatamente successivi al duplice omicidio, Antinoro fornì informazioni su Agostino definendolo un “semplice piantone” arrivando a dichiarare che “se volevano colpire il Commissariato San Lorenzo, certamente non hanno colpito una persona particolarmente significativa”. Dichiarazioni che hanno connotato l’immagine dell’Agostino come una figura anonima e, per certi versi, sbiadita. Un’idea che caratterizzerà a lungo la ricostruzione degli investigatori, condizionando, in termini rilevanti, la ricerca dei motivi dell’omicidio.
Un’altra manovra depistante riguarda la distruzione dei documenti di Agostino da parte dell’ex poliziotto Guido Paolilli, “senza dubbio un uomo di Contrada”, come lo ha definito il Pg in aula. “Documenti in grado di rivelare dettagli importanti per comprendere le ragioni di questo duplice omicidio – ha aggiunto -. È logico ritenere che nei fogli stracciati da Paolilli, Agostino avesse annotato le sue preoccupazioni per i lavori che stava facendo nell’ultimo periodo di vita. Ma grazie a Paolilli questo non lo sapremo mai con certezza”.
Il tutto affinché le indagini confluissero verso la pista Aversa, secondo cui l’omicidio è da considerarsi un delitto passionale. Già nelle prime ore successive all’agguato, infatti, gli investigatori della Squadra Mobile della Questura di Palermo privilegiarono l’ipotesi secondo cui il duplice omicidio trovava causa non nell’attività lavorativa svolta dall’agente Agostino ma in una sua relazione sentimentale avuta in passato con tale Rosalia Aversa. Una pista seguita con insistenza, anche nei confronti dei genitori dell’agente, Vincenzo Agostino e Augusta Schiera, i quali come ha ricordato Umberto De Giglio, sono stati sottoposti a interrogatori tendenziosi e viziati volti a convincere i due che la spiegazione del duplice omicidio fosse “una questione di donne”.
Infine, il ruolo giocato da “Rutilius” come era conosciuto La Barbera dentro il Sisde, e dal falso collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino. Un “duo” pericoloso, in azione ben prima della strage di via d’Amelio. Già il 9 agosto 1990, infatti, alcuni funzionari della Squadra Mobile nel corso di una individuazione fotografica finalizzata a identificare soggetti coinvolti nel duplice omicidio, avevano mostrato a Vincenzo Agostino una foto che ritraeva proprio Vincenzo Scarantino.
Una complessa macchina depistatrice, dunque, che però non ha scoraggiato i genitori di Nino. Vincenzo Agostino e Schiera Augusta (deceduta il 28 febbraio 2019), come ha ricordato De Giglio alla Corte, “hanno visto Nino e Ida assassinati davanti ai loro occhi. Un dolore che in un attimo ha cambiato la loro esistenza. Da quel momento la necessità di capire perché e chi fosse stato ad eseguire e impartire i due omicidi è stato per loro un compito di vita. Per questo motivo chiedo alla Corte di non omettere, nel vostro giudizio futuro, la sincera veridicità delle parole di Vincenzo Agostino e Schiera Augusta!”
Nei loro confronti l’Italia ha un debito da pagare.
Foto © ACFB
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