Gli «omicidi mirati» accompagnano tutta la storia dello Stato ebraico: per necessità, occhio per occhio, tra guerra ibrida e lotta la terrore. Da Arafat ad Haniyeh, i nemici sono sempre nel mirino. Ma i risultati sono spesso deludenti
Come sempre è, in fondo, un problema di parole. Come vogliamo definirli questi atti? Esecuzioni extra-giudiziarie ovvero sentenze eseguite su aguzzini e beccai indemoniati senza una procedura processuale che esamini le imputazioni a carico? Oppure «preventive killing» che si può tradurre come eliminazioni di un potenziale pericolo, di bombe umane a tempo che stanno per commettere attentati, un atto di autodifesa preventiva verso notori impiegati della violenza terroristica? Ingegnoso bricche bracche, ma legalmente debole perché il presentimento non ha posto nei codici. Perché non dire allora più semplicemente con lingua secca e non smemorata dal lungo uso: si tratta di assassini, atti obbiettivamente delittuosi? Che trovano tra l’altro spazio perfetto nella mentalità del Vicino Oriente impastata tuttora di vendette e di occhio per occhio.
Per spiegare e giustificare, immagino soprattutto con sé stesso più che con infeconde e spesso ipocrite strida di alleati e Nazioni Unite, Israele nel 2005 creò un apposito gruppo di studio in cui comparivano un generale e perfino un filosofo: che negarono la definizione di delitto archiviando la possibile presenza di effetti collaterali, ovvero la morte di innocenti, come non «moralmente condannabile» vista la importanza vitale del fine. Anche l’Alta corte di giustizia si è occupata della fattispecie. Un dossier imbarazzante e complesso che alla fine almanaccò in «raccomandazioni»: gli assassini mirati sono contrari al diritto internazionale, certo, ma la loro legalità deve essere esaminata caso per caso e tutte le precauzioni adottate per esser sicuri della colpa del reo e per non coinvolgere estranei nella sbrigativa «sentenza».
Quel che è certo è che complicate e sanguinose operazioni analoghe a quella condotta a Beirut contro Hamas si sgranano per tutta la travagliata storia di Israele, ne fanno parte. La prima volta risale al 1947, si chiamava operazione Zarziz, un gentile nome di uccello per occultare l’ordine impartito alla unità d’élite Palmach di eliminare 23 personalità politiche e militari arabe che preparavano l’annientamento preventivo dello Stato ebraico. All’epoca si usavano ancora precauzioni: per evitare accuse e depistare verso le consuete faide interne al mondo musulmano, ma anche non colpire vicino a luoghi sacri dell’Islam e ospedali.
Pacchi bomba e telefonini al tritolo
I mezzi da impiegare: molteplici. Nel 1956 Mustafa Hafez, capo dei Servizi egiziani a gaza, tipo molesto perché aveva organizzato incursioni sanguinose di fedayn nei kibbuz di frontiera, fu fatto esplodere con un pacco bomba consegnato da un agente doppio. Lo stesso metodo, ma aggiornato ai tempi, nel 1996 costò la vita all’«ingegnere», Yahya Ayache, micidiale creatore di bombe fai da te con materiali chimici che si potevano comprare in farmacia. Lo Shabak lo giustiziò con un telefonino al tritolo. Poi ci fu la stagione dei commandos abili a operare nei tenebrosi canyon di cemento delle città arabe. Nell’88 fu eliminato così a Tunisi nel quartier generale dell’Olp il numero due di Arafat, Abu Jihad. Durante la prima Intifada fu creata una unità di specialisti della polizia di frontiera, i «mista’arvim’»: entravano nelle città palestinesi in subbuglio travestiti da civili uomini e donne, per arrestare i registi della rivolta più attivi. In realtà la maggior parte delle operazioni si concludevano con la morte sul posto del ricercato «mentre cercava di darsi alla fuga».
Anche Hezbollah ha i suoi martiri di questo tipo. Nel 1992 addirittura il segretario generale della organizzazione, lo sceicco Abbas Mussawi, ucciso insieme alla moglie e al figlio a Beirut. Israele non conosce frontiere in questa radicale “legittima difesa’”: Fatih Shikaki, capo della Jihad islamica pensava di esser al sicuro a Malta. Grave errore. Gli esecutori lo eliminarono nel 1995. Un esempio, abbastanza raro, di operazione con effetti concreti: Shikaki era davvero il cervello della organizzazione terroristica che impiegò tempo per riassestarsi.
Durante la seconda Intifada le eliminazioni preventive sono diventate sistematiche e così le vittime collaterali. Perché i mezzi erano via via più agevoli e sofisticati: missili, droni, cecchini, cariche esplosive. E si allargavano anche i bersagli: non più solo terroristi che operavano sul campo, ma anche i capi politici che potevano diventare possibili interlocutori.
Errori di mira e vittime collaterali
E poi «gli errori’». Luglio 2002, il bersaglio si chiamava salah Shehada, un boss di Hamas a Gaza, atto di accusa stracolmo con 52 operazioni firmate che avevano ucciso una cinquantina di civili e una dozzina di soldati. Difficile sfuggisse alla punizione visto che la bomba lanciata da un aereo e destinata alla sua casa nella Striscia pesava una tonnellata. Ma a crollare per un errore riconosciuto dallo Shabak fu anche la casa vicina dove furono sepolti quattordici innocenti tra cui otto bambini. Un gruppo di piloti inviarono una lettera allo Stato maggiore dove annunciarono che non avrebbero più partecipato a operazioni su centri abitati. Il quotidiano Haaretz interrogò il destinatario, il capo dell’aviazione Dan Halutz, su cosa provava come pilota: «Dormo benissimo, nessun incubo... quando sgancio la bomba sento una leggera scossa nell’ aereo che sparisce un secondo dopo».
Le esecuzioni mirate hanno alimentato la leggenda molto appassita del Mossad. Una delle operazioni che hanno contribuito alla sua fama di infallibilità è la caccia ai responsabili dell’attacco alle olimpiadi di Monaco condotto da un commando di Settembre nero. Golda Meir ordinò di uccidere tutti al Comitato X. Operazione compiuta, dodici nomi cancellati dall’elenco tra sparatorie e esecuzioni dinamitarde. Ma nel luglio del 1973 a Lillehammer, località sciistica norvegese qualcosa andò male. La squadra di killer del Mossad era sicura di aver chiuso il conto con Ali Hassan Salameh, il capo di settembre nero in Europa, detto «il principe rosso». Lo avevano sorvegliato a lungo tra gli ignari abitanti della cittadina turistica. Lo freddarono in strada mentre passeggiava con una donna norvegese, incinta. Avevano sbagliato bersaglio, l’uomo ucciso era un cameriere marocchino, Ahmed Bushiki. La donna era la moglie. I sei agenti del Mossad furono arrestati, mentre restituivano le auto noleggiate con i veri nomi. Confessarono tutto. Il capo del commando riuscì a fuggire con la collega e fidanzata, fu punito diventando capo del Mossad in Messico. E il principe rosso? Polverizzato in Libano sei anni dopo da un’altra squadra. La Cia si infuriò, Salameh era il suo contatto con la guerriglia palestinese.
La discussione sul problema morale è dunque superata dai fatti. Resta la domanda politica: queste esecuzioni servono nella lotta antiterrorismo? La risposta è incerta. Le eliminazioni scatenano sempre reazioni feroci moltiplicando l’effetto offesa-vendetta che è il motore della insolubile guerra tra Israele e i palestinesi. Un prova. Durante la prima intifada nel gennaio del 2002 la calma sembrava tornata nei Territori. Sharon autorizzò la eliminazione di Raad Carmi, personaggio popolare della rivolta a Tulkarem. Fu ucciso da una bomba nella casa dell’amante. Al Fatah si unì alla campagna di kamikaze di Hamas e Jihad islamica, nei due mesi successivi duecento israeliani vennero uccisi.
Tratto da: La Stampa
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