Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

La recente pubblicazione da parte della Suprema Corte di Cassazione delle motivazioni in merito al processo della c.d. trattativa, come tutte le sentenze di questa Corte, avrebbe dovuto chiudere in maniera definitiva, e non solo sotto il profilo processuale, questa questione.
Se si fosse trattato di una sentenza relativa a un processo per omicidio stradale, rapina o altre fattispecie di reato sicuramente sarebbe stato così.
In realtà, pubblicate le motivazioni, la sentenza è destinata a sollevare perplessità e lasciare ben altri strascichi, che già si stanno palesando, tra questioni di diritto e fatti di cui sembra che i giudici della suprema corte non abbiano voluto tenere conto, allontanando la verità processuale dalla verità dei fatti.
Il caso in specie, sicuramente, è ben diverso da qualsiasi altro fatto “singolo” di cronaca nera, e la c.d. trattativa è ormai diventata la “striscia di Gaza” della lotta alla mafia, oggetto di contese e confronti, esercizi e equilibrismi dialettici di vario genere, sia politico che squisitamente intellettuale, oltre che processuale.
I toni censori utilizzati in alcuni passaggi delle motivazioni, soprattutto nei confronti dei giudici di primo grado, più che essere il contenuto di un documento stilato dai giudici della Suprema Corte di Cassazione, sembrano estratti da un editoriale di uno dei tanti giornalisti che nel corso di questi anni si sono arrampicati per smontare il “teorema trattativa”, e fanno emergere chiaramente la voglia di chiudere questo spinoso e imbarazzante tema, ponendovi sopra una pietra tombale.
Capitolo chiuso, punto e a capo.
Ma, il capitolo, non può considerarsi assolutamente chiuso se non nell’esaurimento dei gradi di giudizio, e, i temi trattati in questo processo, i patti intercorsi tra certi apparati statali e la Mafia, le connivenze, i depistaggi e le collusioni, continuano a affiorare, oggetto di attenzione in altri casi giudiziari ancora aperti e i cui attori protagonisti risultano essere più o meno sempre i soliti, e si ritrovano sovente implicati e chiamati in causa su più vicende giudiziarie.
Caso Ilardo, caso Lombardo, caso Manca, la scomparsa dell’agenda rossa del Giudice Borsellino, solo per ricordarne (ormai oltre la noia) alcuni che tanto avranno ancora da dire anche sul tema trattativa.
Non siamo di fronte a vittime di singoli incidenti casalinghi, anche se, la Commissione antimafia tenta di narcotizzare opinione pubblica e addetti ai lavori con una pericolosa opera di “atomizzazione e parcellizzazione, considerando solo una delle stragi, come se fosse avulsa dalle altre e, allontanando così dalla verità”. Questo ha avuto modo di dire recentemente il dott. Di Matteo, prima ancora che uscissero le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione, aggiungendo che “non è vero che non è stato fatto niente, dai processi sono venute fuori delle situazioni che ci fanno capire come sia assolutamente probabile il coinvolgimento di soggetti esterni a Cosa nostra e non capire cosa accadeva in quel momento, non capire ad esempio il fatto che una parte dello stava dialogando con Riina, Ciancimino e Provenzano significa allontanarsi dalla verità”.
C’è poi da porsi una domanda.
Di fronte a verità processuali che confliggono con le verità storiche, deve essere posta in discussione la verità processuale o la verità storica dei fatti?
Le leggi, che servono a individuare capi di imputazione e redigere sentenze, si prestano a essere interpretate e, spesso, lo stesso legislatore, nel redigerle, crea i presupposti e spazi per sostenere l’innocenza o la colpevolezza degli imputati in base a possibili diversi punti di vista e interpretazioni.
Ma, la Storia è costituita da fatti che, solo la disinformazione, o quella informazione partorita nella malafede e dalla disonestà intellettuale di chi la diffonde, può solo temporaneamente alterare.
Le mistificazioni storiche prima o poi emergono, non vanno in prescrizione né, in un paese libero, potrà esserci chi decida se il caso deve essere chiuso.
Perché, la storia nella maggior parte dei casi, fino a quando lo storico riesce a essere oggettivo e interpreta il suo ruolo in maniera intellettualmente onesta, è costituita da fatti che rimangono sempre quelli inconfutabili, indelebili, non interpretabili.
Peraltro, con tutti i distinguo e correttivi che i due piani di analisi possono richiedere, ci sembra che, in fondo, le fonti di prova che, sotto il profilo processuale,  sono normalmente costituite da cose, documenti, rappresentazioni orali, coincidono con le fonti storiche che sono normalmente le fonti scritte (documenti, giornali, lettere), fonti materiali (oggetti, manufatti), fonti orali (interviste, testimonianze).
E quindi, con tutte le “cautele” del caso, non possono essere i fatti “storici” essi stessi prove processuali?
Perché allora questo atteggiamento censorio nei confronti dei giudici di merito da parte della Corte di Cassazione quando formalizza che “fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria dai giudici di merito, deve tuttavia rilevarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico".
Nel dissentire da tali conclusioni, esse ci appaiono altresì frutto di una analisi lontana dai fatti ma, forse ancor di più, la Corte, questi fatti, sembra proprio averli disattesi, troppo impegnata probabilmente a resettare un meccanismo che stava facendo emergere scomode verità, e ripristinare così, ricompattandolo, lo status “ante”.
Non ci sembra, peraltro, che nel corso di lunghi anni di indagini e udienze i giudici in questione abbiano trasformato  le aule di tribunale in sale di una Biblioteca o, metaforicamente, si siano tolti la toga indossando l’habitus degli storici.
Piuttosto, quello che ora viene loro contestato dagli ermellini di Cassazione, ci sembrerebbe rappresentare invece quel valore aggiunto che agevola il percorso di ricerca di verità processuali che vengano a coincidere con le verità storiche.
E, laddove ciò non avvenga, aumenta il senso di sfiducia, di disillusione, da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni, con il rischio che ciò, quando, malauguratamente, non si trasforma in ribellione, diventi frustrante e altrettanto pericolosa rassegnazione.
Il caso non è dunque chiuso, anzi.
Sembra quasi iniziare il secondo tempo di una commedia (che in questo caso tale non avrebbe dovuto essere) con cambio di scenografie e un processo di trasmutazione dalla c.d. trattativa alla rivalsa.
E, in questa Commedia, sicuramente poco Divina, quei magistrati che negli anni, in maniera certosina e coerente, hanno raccolto e prodotto quelle prove che oggi si ritengono inesistenti, appaiono destinati al ventiseiesimo Canto dell’Inferno di Dante, riveduto in versione 2.0, condannati a subire  l’applicazione della legge del contrappasso, rei di aver sostenuto, ma anche dimostrato, l’esistenza della trattativa Stato-mafia.
Difficile però immaginare questi giudici rappresentati come lingue di fuoco per aver in vita espresso ingannevoli consigli.
Dai fatti, ad altri si addirebbe questa condizione, mentre, contestualmente all’emissione delle motivazioni della sentenza, dopo pochi giorni, incominciano a uscire nelle librerie i primi libri dei “protagonisti”, novelli storici, di questa vicenda giudiziaria.
Causalità, fortuita coincidenza?
Audaces fortuna iuvat!
Sempre la Corte di Cassazione riporta che “nella ricostruzione operata dalla sentenza impugnata, l’iniziativa degli alti ufficiali del Ros era intesa non già a indurre Cosa nostra a rivolgere minacce al Governo bensì al perseguimento dell’obiettivo contrario di far cessare la stagione stragista, cercando di comprendere se, le eventuali condizioni poste da quest’ultima, potessero o meno essere considerate nella prospettiva di prevenzione di ulteriori attacchi criminali”.
In qualsiasi tipo di trattativa e in particolar modo laddove la posta in gioco è di interesse sensibile, il tentativo di ribasso o rialzo del prezzo è inevitabile, nel momento in cui il nostro interlocutore percepisce che siamo disposti a pagare qualsiasi prezzo, o comunque prezzi più alti di quelli proposti, pur di arrivare a conclusione.
Non pensiamo, assolutamente, che quel “si sono fatti sotto, gli ho fatto un papello di richieste così” o “dobbiamo fare la guerra per poi fare la pace, al Governo dobbiamo vendergli i morti” pronunciate da Totò Riina, siano affermazioni suggerite da qualche uomo delle istituzioni.
Ma è altrettanto vero il fatto che, la domanda posta a Vito Ciancimino dal Generale Mori (come da sua deposizione nel 1997 in occasione del processo sulla strage dei Georgofili) “Cosa è questo muro contro muro tra stato e mafia, cosa vogliono questi signori per far cessare le stragi, veda di capire cosa vogliono”, era il chiaro segnale di voler scendere a patti, disposti a valutare le esigenze.
Posizione diversa su questo aspetto quella della Cassazione i cui giudici sostengono che “l’apertura dell’interlocuzione con i vertici di Cosa nostra non possa essere considerata quale forma di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, in quanto ha solo creato l’occasione nella quale ha trovato realizzazione l’autonomo intento ricattatorio dei vertici di Cosa nostra, ulteriore espressione della strategia minatoria già in corso verso gli organi dello Stato.
P.O.V., potremmo apostrofare, utilizzando un acronimo in voga, Punti di Vista.
Ma non è a suon di punti di vista che si scolpisce la verità dei fatti e, considerato che i due protagonisti di questo dialogo non erano i pescivendoli del mercato ittico di Porticello e non erano lì per trattare il prezzo di qualche cassetta di cozze e vongole o qualche trancio di pesce spada, ma ben altri erano i contenuti e l’oggetto del confronto, in quello così come in altri contesti e con diversi attori, sul piatto della bilancia, i commercianti di morte mafiosi con cui lo Stato si era prostituito a trattare, era scontato che non avrebbero esitato a mettere ulteriori possibili morti. Cosa che fecero con le stragi che ne seguirono.
Negare la trattativa significa negare la storia ma soprattutto il grande rischio è quello di legittimare, pro futuro, la Mafia “et similia”, quali interlocutori nella gestione della lotta alla mafia.
Una contraddizione in termini, il grottesco nel paradosso.
Senza volersi addentrare in gineprai di altre annose vicende che hanno attraversato il nostro paese in tempi altrettanto bui, ricordiamo come, negli anni di piombo del terrorismo fu più volte espresso e largamente condiviso il fatto che qualunque cosa avesse potuto apparire cedimento nei confronti del terrorismo avrebbe dilatato l’attacco dei terroristi in tutto il Paese”.
Un chiaro no alla trattativa e, la dilatazione dell’attacco in tutto il Paese, tornando al nostro “casus belli”, non è forse specularmente rappresentata dal progetto di vendere i morti, prospettiva poi concretizzatasi negli attentati che ne seguirono?
Parlare della necessità di “fermezza costituzionale”, ergo non scendere a patti, quale presupposto per non cadere nel rischio di istituzionalizzare, legittimandolo, il ricatto, è forse un concetto “politically uncorrect”?
Non rimane forse attuale questa esigenza, cosa è cambiato nei principi che stanno alla base del nostro Stato?
Ma non vogliamo assolutamente credere che questi aspetti siano sfuggiti agli illustri ermellini della Corte di Cassazione, anche se chiediamo un aiuto da casa per convincercene.
E’ avvilente pensare che ai cittadini, ormai disillusi in merito all’operato delle istituzioni nel vedere, come in questo caso, epiloghi giudiziari quale quello cui ci stiamo riferendo, non è rimasto che credere nei fatti, alla Storia.
Ma, pur di fronte ai fatti inequivocabili della storia della lotta alla mafia, è altrettanto preoccupante verificare, come qualcuno cerchi comunque di costruire, su altri piani, una storia parallela mistificatoria.
La storia che l’attuale commissione antimafia sta cercando di scrivere, o la storia che si vorrebbe non fare scrivere zittendo le fonti e minando la libera informazione, come si sta facendo nei confronti del giornalista Sigfrido Ranucci, convocato a relazionare di fronte alla commissione di vigilanza Rai, reo di voler ricercare e portare a galla quelle verità che interessano ruoli nevralgici del nostro Stato, espressione di un sistema ricompattato, preoccupanti derive sul percorso della democrazia e delle libertà costituzionali .
E intanto la verità dei fatti sta sempre lì, su quella “striscia di Gaza” nostra, in mezzo a fuochi incrociati dai quali rischia di essere annientata vittima di un sistema di potere subdolo e ipocrita che con una mano la sventola, come accattivante slogan, sulle proprie bandiere per poi, con l’altra mano, sotterrarla, nascondendola agli occhi di tutti.

Foto © Imagoeconomica

ARTICOLI CORRELATI

Trattativa Stato-mafia, la Carnevalesca sentenza della Cassazione
Di Giogio Bongiovanni

Caselli replica alla recensione sul libro di Mori e De Donno

Sentenza trattativa: lo Stato può ''trattare'' con i criminali

Attentato a Di Matteo: chi e perché vuole uccidere il pm di Palermo

Trattativa Stato-mafia, la Cassazione ha deciso: nessun colpevole

Trattativa Stato-Mafia: sentenza della Cassazione ci porta indietro di trent'anni
  


Ingroia: ''Sentenza Trattativa è contraddittoria e simbolicamente pericolosa''

Stato-mafia: a chi parla la Cassazione?
di Lorenzo Baldo

Ass. Georgofili: cinque giudizi confermano che la trattativa ci fu e provocò le stragi del '93

Una sentenza che costruisce il Nuovo Mondo
di Saverio Lodato

Stato-mafia: chiesto processo bis per Subranni, Mori, De Donno e assoluzione per Dell'Utri

E alla fine ''trattativa ci fu''. E fu un'azione ''improvvida'' per il ''bene'' dello Stato

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos