Il legale di Salvatore Borsellino udito in commissione antimafia

No, il dossier 'mafia e appalti' non è stato la causale della strage di via d’Amelio e le parole di Agnese Borsellino, moglie del magistrato Paolo Borsellino, non devono essere oggetto di ‘revisionismi’ e interpretazioni.
Lo ha spiegato l’avvocato Fabio Repici udito ieri in commissione antimafia assieme a Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso il 19 luglio 1992 smontando con dovizia le ricostruzioni depistanti riferite nelle scorse udienze dell’avvocato Fabio Trizzino, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino.
Per diradare le numerose zone d’ombra presenti ancora su quelle tragiche pagine della storia italiana si dovrà necessariamente ripartire dalla sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, la parte “degli accertamenti sulla strage più vittima di trascuratezza e omissione da parte degli uffici giudiziari”, ha detto Repici sottolineando come - a differenza di quanto affermato da Trizzino nelle scorse udienze - “è assolutamente un dato fuori dalla realtà, anzi contrario ai dati di realtà, il fatto che nella borsa di Paolo Borsellino ci fosse un fascicolo relativo a Gaspare Mutolo. Questo è un dato assolutamente contrario alla realtà e in realtà erroneamente, non so per quale motivo, riferito oralmente dal dottore Vittorio Aliquò in una qualche occasione”.
Fatta questa precisazione il legale ha ricostruito le attività di ricerca di quella agenda rossa, definita più volte da Salvatore come “la scatola nera della strage di via d’Amelio”: tutto “quello che sappiamo sulla sparizione dell'agenda rossa, per puro paradosso, lo sappiamo a iniziativa di privati cittadini. Il primo fu un giornalista, Lorenzo Baldo della testata ANTIMAFIADuemila, che nel 2005 ricevette una comunicazione anonima con la quale gli veniva segnalata l'esistenza di una o più immagini di un ufficiale dei carabinieri che si allontanava dal teatro della strage avendo in pugno la borsa del dottor Borsellino. Riferì all'autorità giudiziaria che furono rinvenute le fotografie e alcuni video raffiguranti il capitano Giovanni Arcangioli che senza avere mai lasciato alcuna traccia, alcuna relazione di servizio, alcuna notazione, cioè furtivamente, perché è l'unico modo in cui si può descrivere quella azione, mentre c'erano ancora le fiamme in via d'Amelio, mentre ancora c'erano i feriti da soccorrere, ebbe quale sua prima e forse esclusiva pulsione quella di impossessarsi della borsa di Paolo Borsellino e allontanarsi dal teatro della strage, in direzione per l'esattezza di via dell'Autonomia Siciliana. Ora, su quella condotta del capitano Arcangioli è stato impossibile avere un accertamento processuale, nel senso di una verifica dibattimentale, perché egli fu prosciolto in udienza preliminare sull'imputazione di furto dell'agenda rossa e quella sentenza fu confermata dalla Corte di Cassazione a cui aveva fatto ricorso la procura di Caltanissetta. C'è però da dire che nel processo Borsellino quater ci si è nuovamente occupati di quella vicenda e in particolar modo è stato proprio il mio impegno in ossequio al fedele patrocinio della posizione di Salvatore Borsellino di fare luce il più possibile sulla sottrazione dell'agenda rossa. Bene, anche grazie al nostro impegno, la Corte d'Assise di Caltanissetta segnalò alla Procura, trasmettendo interiormente gli atti del processo Borsellino quater, che andavano ulteriormente sviluppati gli accertamenti sulla sottrazione dell'agenda rossa”.
L’allora Capitano Arcangioli “che era stato sottoposto a processo solo a partire dal 2005, poiché il delitto di furto era nel frattempo coperto dalla prescrizione, nella sua sede processuale aveva rinunciato alla prescrizione, cosa che a mio modo di vedere consentiva ulteriori attività che potevano essere fatte anche dopo la sentenza del Borsellino quater”.





Tuttavia “non abbiamo avuto notizia in nessun modo di alcuna attività utile sulla sottrazione dell'agenda rossa”.
Invero gli unici a indagare erano stati, come già anticipato, i privati cittadini: “Il miglior accertamento fatto sulla sparizione dell'agenda rossa o meglio sull'impossessamento da parte del Capitano Arcangioli della borsa del dottor Borsellino, la migliore attività è stata svolta dall'associazione fondata da Salvatore Borsellino, chiamata proprio per questo 'agende rosse' e in particolar modo da un bravissimo operatore informatico che si chiama Angelo Garavaglia. Io ho prodotto alla Corte d'Assise un video realizzato da Angelo Garavaglia nel quale è riuscito a fare tutti gli accertamenti possibili anche con la individuazione del momento esatto e del minuto esatto della presa della borsa grazie alla parziale raccolta di documentazione video da parte degli operatori televisivi che ne avevano il possesso e dai quali riuscì a ottenere alcuni video”.

"Mafia e appalti è come la 'pista palestinese' per strage di Bologna"
“La causale 'mafia e appalti' ipotizzata per la strage di via d'Amelio la possiamo definire come una sorta di 'pista palestinese' su via d'Amelio se vogliamo richiamare il tentativo di depistaggio avvenuto per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto del 1980” ha detto Fabio Repici affrontando il tema principale sul quale si era concertato l’avvocato Fabio Trizzino.
Le indagini iniziarono nel 1989 e sappiamo che ebbero un primo esito con il deposito di un rapporto giudiziario al dottor Giovanni Falcone il 13 febbraio del 1991” ha detto il legale sottolineando che “c’è stata una doppia refertazione sulle risultanze di quelle indagini e alcuni arrivano a sostenere che ciò non sia avvenuto, muovendo guerra ai dati documentali. Noi sappiamo che quel rapporto giudiziario del 13 febbraio del 1991 fu oggetto di procedimento penale trattato dalla procura di Palermo. Sappiamo che, per una parte, quel procedimento arrivò a misura cautelare già nell'estate del 1991, con imputazioni, in quel momento provvisorie, ma che poi portarono a un dibattimento e quindi diventarono formalmente imputazioni, che prevedevano anche la contestazione di associazione mafiosa nei confronti di alcuni imputati, tra gli altri Angelo Siino. Noi sappiamo un altro dato e cioè che il 3 settembre del 1992 fu redatto un ulteriore rapporto da parte del Ros avente lo stesso oggetto identico e due rapporti con lo stesso oggetto aventi uno data il 13 febbraio 1991 e uno data 3 settembre 1992, se non è doppia refertazione questa io non so cosa sia la doppia refertazione”.


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Salvatore Borsellino © Paolo Bassani


Nel documento depositato alla procura di Palermo il 5 settembre del 1992 erano inserite intercettazioni e riferimenti ad attività investigativa riguardanti esponenti politici primari della Sicilia e del Paese, che erano stati raccolti dal Ros nel 1990 e '91, in epoca precedente al rapporto 13 febbraio 1991. Quindi, per precisa scelta di coloro che si occuparono della redazione di quel documento, le risultanze del 1990 furono tenute fuori da quel rapporto e inserite solo nel settembre del 1992”, ha detto.
Ma oltre a questo, come abbiamo più volte scritto, vi è una sentenza definitiva che accerta la doppia refertazione: ossia la sentenza d’Appello del processo Trattativa Stato-Mafia nel quale la Corte “arriva a una conclusione assolutamente tranciante che posso elencarvi andando con l'accetta: 1. Ci fu una doppia refertazione. Furono tenute nascoste risultanze di indagine del 1990 e furono tirate fuori solo nel 1992. Falsi furono gli addebiti a taluni magistrati della Procura di Palermo di avere insabbiato quelle indagini. Anzi, l'intreccio o il parallelismo che si creò per iniziativa dello stesso Ros fra un'attività di indagine della Procura di Palermo e un'attività di indagine della Procura di Catania non era stata motivata dal fatto che alla procura di Palermo non ci fosse volontà di procedere su quella vicenda, a differenza che alla procura di Catania. E questo lo dico perché la Corte d'Assise d'Appello di Palermo tiene in considerazione anche la vicenda della collaborazione con la giustizia di quel geometra, Giuseppe Li Pera, che era un dipendente di una grossa società” coinvolta in quelle indagini.
Per fare ulteriore chiarezza la vicenda 'mafia e appalti', ha detto Repici, ebbe “un ordinario seguito presso l'autorità giudiziaria di Palermo, nel senso che già prima della strage di via d'Amelio fu avviata dalla procura di Palermo attività finalizzata alla confisca dei beni di Antonino Buscemi, furono avviate altre attività nel prosieguo, furono emesse altre ordinanze di custodia cautelare, furono celebrati altri processi, in una prosecuzione che cronologicamente è assolutamente priva di ogni rallentamento o possibilità di sospetto”.


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L'allora capitano dei carabinieri, Giovanni Arcangioli


Le anomalie degli ufficiali del Ros
L’avvocato Repici è andato anche oltre durante la sua audizione partendo da un dato: “Si è potuto apprendere dalle dichiarazioni non processuali, ma soprattutto pubbliche, da parte dei due ufficiali del Ros che principalmente si occuparono uno come coordinatore e l'altro come diretto investigatore di quelle indagini, e cioè Mario Mori e Giuseppe De Donno, del loro convincimento che quell'attività sia stata sostanzialmente la causa principale della strage di via d’Amelio”.
Infatti “Mori e De Donno nelle occasioni in cui si sono trovati imputati nel processo denominato Trattativa - e in altri due processi il generale Mori - e chiamati a rendere esame davanti ai giudici, si sono sempre avvalsi della facoltà di non rispondere”. “Se davvero quei due ufficiali - ha incalzato il legale - il 20 luglio del 1992 pensarono che la strage appena avvenuta in via d'Amelio fosse stata causata dall’interessamento del dottor Paolo Borsellino alle loro attività di indagine, noi siamo davanti a una omissione in atti d'ufficio perpetuata dal 1992 almeno fino al 1997-'98. Perché ci sono due ufficiali di polizia giudiziaria che pur convinti” di questo fatto “avevano tenuto nascosta quella circostanza che solo a loro nella loro versione risultava, rifiutando di mettere a conoscenza l'autorità giudiziaria che procedeva sulla strage di via d'Amelio, cioè la procura di Caltanissetta”. “E allora come si fa a spiegare questa continuata omissione? La si spiega con un solo motivo. che è quello banale, è una menzogna che da quella vicenda fosse derivata la strage di via d'Amelio”.
Inoltre, sempre rimanendo sul punto, quando per la prima volta Mori e De Donno “tirarono fuori il discorso delle indagini mafia - appalti” lo fecero per “interessi difensivi propri” perché “il 13 ottobre del 1997, in un momento in cui ancora mai nessuno aveva riferito nulla all'autorità giudiziaria a proposito di questa questione, vennero convocati come testimoni dalla procura di Palermo il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno. Il colonnello Giuseppe De Donno venne sentito a sommarie informazioni dal procuratore Caselli e dai sostituti procuratori Prestipino e de Lucia; gli vennero poste domande proprio sulla gestione di quei rapporti giudiziari e del contenuto di quelle indagini. Ma gli vennero poste domande non nel senso degli sviluppi che avevano avuto quelle indagini, ma delle possibilità che, anche per iniziativa di personaggi a loro vicini, quelle investigazioni fossero state conosciute da esponenti di Cosa nostra”.


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Mario Mori, ex capo del reparto speciale Ros dei carabinieri © Imagoeconomica


L’incontro alla Caserma Carini e l’ombra del Corvo Bis
“L’incontro del 25 giugno del 1992 avuto dal dottor Paolo Borsellino con Mori e De Donno alla caserma Carini non avvenne per parlare del dossier mafia e appalti” ma di “un documento molto più inquietante”: “l’anonimo che circolò nel giugno del 1992 convenzionalmente ridenominato Corvo Bis, del quale più fonti sostenevano che possibile redattore fosse l'allora capitano De Donno”.Io vi segnalo, peraltro, che Paolo Borsellino, insieme agli altri procedimenti dei quali era assegnatario, fu assegnatario pure del fascicolo relativo al documento anonimo del Corvo Bis”. Era il periodo in cui il Ros aveva nascosto i suoi contatti con Vito Cianciminoe considerate che già il 28 giugno ’92 cioè tre giorni dopo Paolo Borsellino seppe dalla dottoressa Liliana Ferraro all'aeroporto di Fiumicino che ella era stata informata dal capitano De Donno che aveva avviato in accordo con il colonnello Mori contatti con Vito Ciancimino per attività che nelle loro parole poi fu indicata come quella di tentare in qualche modo una mediazione con i vertici di Cosa nostra: ‘Che cos'è questo muro contro muro’,  sono le parole riferite da due ufficiali del Ros”. “Dopodiché c'è da fare, e considerate un'altra cosa, l'anonimo del Corvo Bis cita testualmente l'indagine 'mafia e appalti’, e anche quello fu uno dei motivi per i quali fu sospettato il Capitano De Donno di essere il manuale estensore, ma quell'anonimo faceva riferimento a contatti fra il capo di Cosa nostra e un personaggio politico che in quel momento era ministro, e cioè il ministro Calogero Mannino, e faceva riferimento a vicende di assoluta gravità. Per questo motivo è una riduzione minimalista parlare di ‘mafia e appalti’ in relazione a quell'incontro. Quell'incontro riguardava qualche cosa di molto più grave attraverso l'anonimo del Corvo Bis, che erano gli equilibri che stavano trovando o si stava cercando di trovare fra Cosa nostra e nuove entità che avrebbero preso il posto con delle posizioni predominanti nella Prima Repubblica”.

Il revisionismo delle parole di Agnese Borsellino
Poiché in quel momento - ha continuato il legale - nel 1992, il comandante del Ros era il generale Antonio Subranni, la vulgata Mori - De Donno ha dovuto pure affrontare un problema serio e cioè le parole di Agnese Borsellino sulle quali a nessuno è consentito di fare mistificazioni”. “Agnese Borsellino, nel riferire la confidenza fatale dal marito, circa il fatto che egli aveva appreso da fonte non indicata alla moglie, che il generale Subranni era sostanzialmente un mafioso, disse che Paolo Borsellino su questa circostanza era certo. L'aveva assunta come un dato certo e di tale gravità proprio da indurlo, come riferì la vedova, a conati di vomito. Il punto qual è? Il primo è che le parole di Agnese Borsellino sono quelle e non è possibile interpretarle diversamente” ha ribadito. “Il punto è che non ci si vuole fidare delle parole di Agnese Borsellino, io vi dico fidatevi della interpretazione autentica dal suo punto di vista del generale Antonio Subranni. Perché il 10 marzo del 2012, divenute ufficiali le dichiarazioni di Agnese Borsellino su di lui, il generale Subranni rese un'intervista pubblicata dal Corriere della Sera e ebbe l'ardire, non trovo altra parola, di riferire che bisognava prestare poca credibilità alle dichiarazioni di Agnese Borsellino perché si sa che è malata di Alzheimer, così disse. La reazione fu un lancio dell’Ansa, che vi ho prodotto, reperito in una testata, dello stesso 10 marzo del 2012. Agnese Borsellino disse pubblicamente, con quello spirito di parresia che ebbe, che le parole del generale Subranni non meritavano commento”. E quando Lucia Borsellino venne sentita al Borsellino quater “riferì due cose significative. La prima era lo scoramento, il dissenso morale, se non il disprezzo per quelle dichiarazioni del generale Subranni, e la seconda e ancora più significativa” è che la persona più lucida della famiglia Borsellino “figli compresi in tutti questi anni è ‘sempre stata nostra madre’”.
In seguito l’avvocato Repici ha ripercorso il depistaggio posto in essere dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola, tuttavia a causa della delicatezza delle informazioni si è deciso di proseguire - nel corso della prossima udienza - in seduta secretata.

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