Soddisfatti i familiari. “Ringraziamo l’ex pg Scarpinato e gli altri magistrati”. Gozzo: “Madonia ebbe ruolo di dominus”
Dopo sei ore di camera di consiglio, la 2° sez. della Corte d’Assise d’Appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, ha condannato all’ergastolo il boss del mandamento di Resuttana Nino Madonia per l’omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio avvenuto il 5 agosto 1989. Il processo si è svolto a porte chiuse con la formula del rito abbreviato. Confermata dunque la richiesta pena avanzata dalla procura generale, oggi rappresentata dalla Pg Lia Sava e dai sostituti Domenico Gozzo e Umberto De Giglio. Esclusa, però, l’aggravante di premeditazione nel delitto della consorte.
“Siamo soddisfatti - ha affermato l’avvocato di parte civile Calogero Monastra - riteniamo sia una sentenza dall’importanza notevole e determinante perché delinea la figura dell’agente Agostino e conferma la matrice mafiosa della sua uccisione riabilitando quello che era il contesto con il quale originariamente si erano svolte le indagini, quindi allontanando la matrice passionale”.
Durante la requisitoria, avvenuta lo scorso febbraio, i magistrati, infatti, hanno individuato come movente l’attività segreta di caccia ai boss latitanti intrapresa dall’agente Agostino, ufficialmente al servizio Volanti del commissariato San Lorenzo di Palermo. Nessuna pista passionale, dunque. Movente, questo, sposato al tempo dalla Squadra Mobile (guidata da Arnaldo La Barbera) che permise, condito da una serie di depistaggi, di seppellire il giallo per trent’anni.
Tornando alla requisitoria, la procura generale, scendendo nel dettaglio, aveva evidenziato che il brutale omicidio, avvenuto a Villagrazia di Carini 34 anni fa davanti all’abitazione della famiglia, "si svolge e giunge a tragico epilogo in un contesto peculiare”. Ovvero "il fronte dei rapporti sommersi tra talune articolazioni delle istituzioni e mondo criminale lungo una linea di confine in cui hanno congiuntamente operato, interfacciandosi tra loro in un pericoloso gioco, talora doppio e talora mortale, soggetti che si relazionavano con esponenti mafiosi per finalità istituzionali di contrasto e di acquisizione di informazioni, ed altri che operavano, a fianco dei primi, per lucro personale o al servizio di finalità antistituzionali, con il pericolo costante di un cortocircuito mortale".
Agostino, infatti, come emerso dal secondo processo che si svolge con rito ordinario a carico del boss dell’Arenella Gaetano Scotto e di Francesco Paolo Rizzuto (amico del poliziotto), aveva contatti con ambienti esterni al commissariato e negli anni ’80 aveva ottenuto informazioni di primissimo livello su alcuni soggetti appartenenti al Sisde che frequentavano i capi mafia di Cosa nostra nel covo di Fondo Pipitone, una traversa della zona dell’Acquasanta. Si tratta di un luogo chiave per Cosa nostra da dove “partiva tutto” secondo il pentito Galatolo. Qui, raccontava il collaboratore di giustizia, “commettevamo omicidi, soppressioni di cadaveri nei fusti dell’acido, strangolamenti, riunioni e summit mafiose, incontri con uomini esterni a Cosa nostra”. In questo senso, Galatolo raccontava in aula di aver visto anche “uomini dei servizi segreti come Bruno Contrada e Giovanni Aiello (alias “Faccia da mostro”, ndr), ma anche il Questore di Palermo Arnaldo La Barbera” oltre che gli agenti di Polizia Agostino ed Emanuele Piazza, che però frequentavano Fondo Pipitone per raccogliere informazioni sui latitanti.
In questo senso, il gup di Palermo Alfredo Montalto scriveva nella sentenza di condanna in primo grado del marzo 2021, che Agostino aveva scoperto dei rapporti tra Nino Madonia, l’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada e Giovanni Aiello, anche lui ex poliziotto ma appartenente ai servizi. E sarebbe questa, oltre alla sua attività segreta di ricerca di latitanti, la ragione che portò alla progettazione dell’agguato, avvenuto a bordo di una motocicletta, in pieno stile mafioso. Alla guida, raccontava ai pm il pentito Vito Lo Forte nel 2015 (prima di rimangiarsi tutto in aula l’anno scorso), ci sarebbe stato Gaetano Scotto mentre ad aprire il fuoco fu Nino Madonia, che poi avrebbe freddato anche la moglie del poliziotto nel momento in cui questa, avvicinandosi al corpo esanime del marito, gridò ai sicari: “Io so chi siete”. La procura generale è sempre stata sicura del coinvolgimento diretto dell’imputato. “Basta guardare la figura di Madonia, come figura di ‘dominus’, per capire che solo lui poteva eseguire questo omicidio”, ha spiegato il sostituto pg Domenico Gozzo commentando la sentenza. Un ruolo, quello di “dominus”, ottenuto “in virtù del modo molto particolare in cui era mafioso, noi l’abbiamo descritta in maniera molto specifica”, ha specificato il magistrato. Gozzo, rispondendo alle domande della stampa, ha infatti ricordato che lo stesso Totò Riina, capo dei Capi, aveva timore di Madonia: un personaggio fuori dal proprio controllo che godeva di amicizie e rapporti con soggetti appartenenti ai servizi segreti e ai vertici delle forze dell’ordine.
E a proposito di Madonia, il potente boss di Resuttana questa mattina ha rilasciato dichiarazioni spontanee dal carcere di “Milano Opera” dove è detenuto e si è dichiarato innocente. L’imputato, rivolgendosi direttamente a Vincenzo Agostino, padre del poliziotto ha affermato: “Il padre della vittima stia tranquillo e sereno che non l’ho ucciso io suo figlio”. L’imputato, oltre a dichiararsi estraneo al duplice omicidio, ha attaccato alcuni dei collaboratori di giustizia chiave come Francesco Marino Mannoia, Giovanni Brusca, Giuseppe Marchese, Francesco Onorato ed altri bollando come menzognere le loro dichiarazioni.
La gioia della famiglia Agostino
La famiglia dell’agente Agostino, presente a questa udienza, come a tutte le altre, ha espresso soddisfazione per la sentenza dei giudici d’Appello. “Oggi è una vittoria in più per l’Italia. Sono contento”, ha affermato ai microfoni di ANTIMAFIADuemila Vincenzo Agostino uscendo dall’"Aula Saetta" del tribunale. “Mi hanno tolto la vita, così come l’hanno tolta a mio figlio, a mia nuora e al bambino che portava in grembo. Ma ora sono contento che sia stato condannato questo vigliacco macellaio”. “Dico soltanto una cosa - ha poi aggiunto - che si penta (Madonia, ndr) e porti alla luce tutto. Mi auguro che la giustizia arrivi anche per coloro i quali non l’hanno ancora avuta. Per tutti”.
I familiari delle due vittime hanno voluto poi ringraziare i loro avvocati, i giornalisti che hanno seguito il caso e soprattutto la procura generale di Palermo. Ringraziamento speciale va all’allora procuratore generale Roberto Scarpinato senza il quale, ha tenuto a sottolineare l’avvocato di parte civile Fabio Repici, “il processo non si sarebbe fatto”.
Grande gioia, dunque, per Vincenzo Agostino. L’unica nota malinconica, oltre ai 34 anni di attesa, è l’assenza, in questa giornata storica, della moglie Augusta Schiera, morta nel 2019 dopo aver trascorso un quarto della propria esistenza combattendo accanto al marito. “Desideravo che oggi ci fosse mia moglie qui vicino a me a festeggiare”, ha detto Vincenzo. “Ma il destino ha voluto che non potesse assistere da viva a questo successo”.
Agostino si è poi promesso di rimuovere presto la scritta che si trova sulla lapide di Augusta Schiera
“Qui giace Schiera Augusta, mamma dell’agente Agostino. Una mamma in attesa di verità e giustizia, anche oltre la morte”. “Quella frase la devo togliere”, si è detto. Oltre a questa promessa, il padre di Antonino, colonna d’Ercole in questi trentaquattro anni di sforzi per la ricerca di verità e giustizia, ne conserva un’altra molto più evidente: la sua lunga e folta barba. Vincenzo non la taglia da quel 5 agosto come segno solenne di impegno nel raggiungere la verità sul figlio morto ammazzato. La sua barba lo accompagna da trentaquattro anni ma, ha assicurato, si avvicina il giorno in cui la taglierà.
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