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Le indagini del pm Nino Di Matteo

Le indagini sulla strage in cui venne assassinato il giudice istruttore Rocco Chinnici, mentore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vennero condotte principalmente dal pubblico ministero Nino Di Matteo e dalla collega Annamaria Palma.
Nel 2000 la Corte di Assise di Caltanissetta (presieduta da Ottavio Sferlazza e Giovambattista Tona giudice a latere) emetteva una storica sentenza per tutta la 'Cupola' di Cosa Nostra: il 14 aprile vennero condannati all’ergastolo storici capi come Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Francesco e Antonio Madonia, Vincenzo Galatolo e Stefano Ganci. Condanne poi successivamente confermate in appello il 24 giugno 2002 (con l'eccezione di Matteo Motisi e Giuseppe Farinella, assolti) e poi in Cassazione nel novembre 2003.
Le sentenze in questione rivestono un'importanza storica in quanto non si limitarono solo a condannare i 'soliti' mafiosi, ma per la prima volta nella storia della Repubblica Italiana colpirono anche i 'mandanti esterni'.
“Questa volta, - ha scritto Di Matteo nel libro 'Collusi' - Cosa Nostra aveva agito su input di altri. A dare il via era stato un vero e proprio potentato economico-politico, costituito da soggetti la cui autorevolezza criminale derivava dall’inserimento in un circuito esterno all’organizzazione mafiosa".
Si tratta dei "cugini Nino e Ignazio Salvo" (uomini d'onore della famiglia di Salemi entrambi scomparsi, il primo a causa di una malattia, il secondo ucciso nel 1992, ndr) che fungevano da "tramite importante tra Cosa nostra ed esponenti politici nazionali" disse il magistrato palermitano, allora consigliere togato al Consiglio Superiore della Magistratura.


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La strage di via Federico Pipitone © Franco Zecchin


I Salvo vennero indicati dai magistrati nisseni da Paolo Borsellino il 4 agosto del 1983, sei giorni dopo l’eccidio. Borsellino, al tempo, era giudice istruttore a Palermo e chiese di parlare con i magistrati nisseni e lo fece con l’allora procuratore Sebastiano Patanè che aveva la guida delle indagini sulla strage. Borsellino fece una analisi completa, parlando del lavoro di Chinnici ed indicando proprio nei cugini Salvo di Salemi le persone su cui, in gran segreto, Chinnici stava indagando. Borsellino aggiunse al procuratore Patanè che “Rocco Chinnici era convinto che ai fatti di mafia, almeno ad un livello alto, fossero coinvolti anche i cugini Salvo”, che sino a quel momento erano considerati abili imprenditori per il loro lavoro di esattori.
Nei giorni che precedettero la sua morte Chinnici era impegnato su più fronti di indagini. “Si interessava – disse Borsellino ai pm nisseni – al processo cosiddetto dei 162, di quello dell’uccisione di Piersanti Mattarella e dell’uccisione di Pio La Torre, mentre Giovanni Falcone istruiva il processo per l’uccisione del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. Fu in quei giorni che Chinnici mi chiese notizie sul processo del palazzo dei congressi, ove era imputato l’imprenditore catanese Carmelo Costanzo. Mi disse che questo processo gli interessava in relazione alle sue indagini. Io mi mostrai perplesso perché sapevo che del Costanzo si interessava Falcone nell’ambito del procedimento Dalla Chiesa. Egli mi chiarì che vi era possibilità che tutti questi processi (quello dei 162, quello per l’omicidio dalla Chiesa, quello La Torre e forse qualche altro) venissero riuniti. Chinnici in quel colloquio manifestò il suo convincimento, per altro reiterato, che tutti quei fatti e soprattutto gli omicidi La Torre e Dalla Chiesa, avessero unica matrice mafiosa ed anzi rispondessero ad un unico disegno. E fu in quella occasione che fece presente che sui fatti di mafia e quindi anche degli omicidi, almeno ad un livello alto, fossero coinvolti anche gli esattori Salvo. Ciò – continuò Borsellino – lo desumeva da una telefonata fra i Salvo ed il mafioso Buscetta che risultava in una intercettazione del processo Spatola. Contemporaneamente lamentava, ed era amareggiato, per il fatto che nei confronti di costoro si agisse con i guanti gialli da parte di tutti, ed anzi aggiunse, che se gli stessi elementi li avessero avuto nei confronti di altri certamente si sarebbe proceduto”.
E furono proprio i Salvo, scrive ancora Di Matteo su 'Collusi', a “chiedere e ottenere un omicidio eccellente di quel tipo proprio perché rappresentavano lo snodo più importante di contatto e penetrazione del potere politico nazionale”, in particolare, come emerge dalle Carte, con la corrente andreottiana della Democrazia cristiana. Non è un caso che prima di arrivare a sentenza definitiva i processi sulla strage di via Pipitone Federico (ben sette) si siano conclusi con l’annullamento della Suprema Corte.
La prima sentenza, del 1984, condannò all'ergastolo i boss Michele e Salvatore Greco, come mandanti della strage, ma assolveva i presunti esecutori materiali Vincenzo Rabito e Pietro Scarpisi, ai quali venivano tuttavia inflitti 15 anni per traffico di droga e associazione mafiosa. In appello gli ergastoli ai Greco furono confermati e la pena ai presunti complici (sempre per il vincolo associativo) fu elevata a 22 anni. La Cassazione, tuttavia, annullò il verdetto e rimise gli atti a Catania. I nuovi giudici ricalcarono le precedenti decisioni ma la Cassazione annullò nuovamente il verdetto per ''difetto di motivazione'', trasferendo gli atti a Messina, dove il 21 dicembre 1988 la Corte d'Assise d'Appello assolse tutti per insufficienza di prove.
La Cassazione confermò il verdetto e la strage restò impunita fino al 2000.


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Il sostituto procuratore nazionale antimafia, Nino Di Matteo © Deb Photo


Ma perché venne ucciso il magistrato siciliano?
Sempre dalle carte si legge come “l’uccisione del giudice Chinnici fu voluta dai cugini Ignazio e Nino Salvo e ordinata dalla cupola mafiosa, per le indagini che il magistrato conduceva sui collegamenti tra la mafia e i santuari politico-economici”.
Un omicidio di alto livello quindi che ha visto la partecipazione di boss ‘sui generis’ come i Madonia.
Lo stesso Salvatore Riina, intercettato in carcere assieme alla dama di compagnia Alberto Lorusso, fece riferimento più volte ai collegamenti che la famiglia mafiosa di Resuttana aveva con i servizi segreti. In particolare Riina spiegava quanto Nino Madonia (indicato come il più pericoloso) ed i suoi fratelli fossero eccezionali, come gli avevano dimostrato in varie occasioni di eseguire immediatamente i propri voleri spesso senza comunicargli i particolari delle uccisioni.
Anche collaboratori di giustizia come Francesco Di Carlo ed Oreste Pagano hanno parlato dei “rapporti ad alti livelli” dei Madonia.
Particolarmente importanti furono riconosciute le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, seppur in quel momento la collaborazione risultava molto travagliata. Di Matteo trovò riscontri alle parole dell’ex capo mandamento di San Giuseppe Jato, reo confesso del delitto, ed in grado di fornire numerosi dettagli dell’aspetto organizzativo dell’attentato. Brusca raccontò anche i retroscena della decisione di uccidere Chinnici, parlando di una riunione tra Nino Salvo, il padre Bernardo Brusca e Totò Riina al termine della quale gli fu detto dal Capo dei Capi in persona: “Finalmente è venuto il momento di rompere le corna a Chinnici, mettiti a disposizione di don Nino”.
Ed è sempre Brusca a tirare in ballo “referenti romani”. E quella dichiarazione è riportata anche nella sentenza di primo grado: “Dal governo centrale di Roma arriva una segnalazione - ha detto Brusca - un input da parte dell'onorevole Andreotti, facendo sapere a Lima, Lima ai Salvo, i Salvo me lo dicono a me e io lo porto a Riina. Dice di darci una calmata perché sennò si era costretti a prendere provvedimenti. Riina mi rimanda dai Salvo: fagli sapere che ci lascia fare”.
Con quella sentenza, di fatto, si è creato uno spartiacque a dimostrazione che spesso Cosa nostra non ha agito solo per ordine di Riina o della Cupola, ma anche su richieste di altri poteri dello Stato-mafia e della politica. E’ la dimostrazione che per certe stragi sono esistiti, ed esistono, mandanti esterni.


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I cugini Ignazio e Nino Salvo


Sono dettagli che spesso non vengono ricordati o che vengono poco affrontati da quella regia strategica di “professionisti della congiura e del silenzio” che tendono a concentrarsi in particolare sull’ala militare di Cosa nostra.
In questi giorni, in particolare dopo l'arresto di Matteo Messina Denaro, abbiamo sentito parlare di una mafia sconfitta, quasi azzerata. Tuttavia, seppur non si può che plaudire alle numerose operazioni che sono state condotte dagli organi inquirenti, bisogna realizzare che ancora oggi esiste un livello di mafia che non è affatto morto o decaduto. Rocco Chinnici è stato il primo a intuire che oltre ai boss e ai picciotti, c'era un terzo livello oltre alla Cupola mafiosa. Vi erano personaggi occulti che agivano nell’ombra e che rafforzavano l’organizzazione criminale.
"Chinnici non è stato vittima soltanto della Mafia militare, è stato la vittima di un sistema di potere composto da pezzi importanti della classe dirigente che hanno visto nel suo lavoro un'attività pericolosa e destabilizzante” aveva detto l'allora procuratore generale di Palermo e oggi senatore, Roberto Scarpinato.
"Credo che bisognerebbe rileggere la sentenza della Corte d'Assise di Caltanissetta - aveva detto - che ha condannato gli assassini di Rocco Chinnici perché lì è raccontata, purtroppo, una storia ancora poco conosciuta ed è la storia di un magistrato che non è stato ucciso soltanto dai soliti Riina o Brusca ma è stato ucciso dai colletti bianchi".
Il riconoscimento di tale risultato va indubbiamente alle indagini del magistrato Nino Di Matteo e della collega Annamaria Palma. Grazie a loro è stato possibile raggiungere la piena chiarezza riguardante la strage Chinnici, sia per l’individuazione degli esecutori sia dei mandanti.
Certamente dietro i cugini Salvo è ipotizzabile ci siano stati altri poteri, come le massonerie deviate, ma il processo Chinnici dal punto di vista meramente tecnico è completo e le condanne, ricordiamo, non sono mai state messe in discussione da nessuno. Sono sentenze che ricostruiscono quei drammatici anni di piombo, di tradimenti e di ambiguità, fuori e dentro un palazzo di giustizia ammorbato dai veleni, come tra l'altro emerge dai diari segreti di Chinnici, integralmente pubblicati.


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L'ex presidente del Consiglio, Giulio Andreotti © Imagoeconomica


Tra quelle pagine il giudice parlava di un "essere immondo" e "amico della mafia" che "mi voleva colpire alle spalle". "La più grossa infamia è questa: mesi fa il dottor Mignosi, ispettore regionale, in tutta riservatezza mi disse che il giornalista Panzica gli aveva confidato che la morte di Giuliano era da addebitare a me in quanto io solo ero a conoscenza del rapporto di Giuliano riguardante il traffico di droga. La notizia mi sconvolse per il motivo che il rapporto in questione pervenne nel mio ufficio tre mesi dopo l’uccisione del funzionario".
Tutto questo è stato riportato con dovizia nelle sentenze scaturite dalle indagini di Anna Maria Palma e Nino Di Matteo.
Il lavoro svolto per raggiungere queste importanti verità non può essere dimenticato a quarant'anni di distanza dalla strage Chinnici.
Soprattutto perché oggi, chi ha compiuto quel lavoro, ovvero Nino Di Matteo, è oggetto di un costante stillicidio fatto di delegittimazioni e accuse false e vergognose come quelle di carrierismo o di aver avuto un qualche ruolo nella vicenda Scarantino (il falso pentito che si autoaccusò del furto dell'auto che poi fu usata per uccidere Borsellino). Una vera e propria campagna che vede come protagonisti non solo i soliti giornaloni, servi del potere, e certi uomini politici, ma anche familiari vittime di mafia.
Più volte abbiamo dimostrato come Nino Di Matteo non abbia avuto nulla a che fare con il depistaggio della strage di via d'Amelio.
Il suo valore è dimostrato da decine e decine di inchieste e processi. E il risultato raggiunto con il processo Chinnici è una prova inconfutabile.
Un'azione di persecuzione condotta da "menti raffinatissime" che non vogliono che questo magistrato possa andare avanti nelle inchieste che fin qui ha condotto con perseveranza e sacrificio svelando la verità su stragi, sistemi criminali e trattative Stato-mafia. Per queste inchieste, per questo suo “spingersi oltre” Di Matteo, come rivelato dal collaboratore di giustizia Vito Galatolo, è stato condannato a morte dal capo dei capi Totò Riina - che intercettato dal carcere, nel 2013, chiedeva di fargli fare “la fine del tonno” – e (tramite una lettera) da Matteo Messina Denaro a fine 2012, per conto di "amici romani”, con duecento chili di tritolo.

Foto di copertina © Franco Zecchin

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