Le parole di Di Matteo, Lodato, Borsellino, Scarpinato, Tescaroli, Donadio e Baldo al convegno “Strage Borsellino, l’Agenda Rossa e i Mandanti Esterni”
“Caro Paolo nel mio cuore si è subito scatenato un putiferio di emozioni, di sentimenti, di ricordi. Ho subito avvertito la precisa consapevolezza di non essere in grado di esprimere in poche righe tutto ciò che mi porto dentro fin da quando ero un semplice studente universitario. Un giovane che come tanti altri coetanei siciliani ha visto in te, giudice Borsellino, nell’impegno e nel coraggio tuo e degli altri magistrati del pool antimafia, il simbolo del possibile riscatto. Quel vento di pulizia, di moralità, di legalità, che ai miei occhi avrebbe spazzato via per sempre l’insopportabile immagine di una Sicilia legata inevitabilmente e in eterno alla mafia, alla violenza, al tanfo del compromesso e della rassegnazione. Oggi dopo tanti anni, con tanto imbarazzo, mi sento di confidartelo pubblicamente. Ho iniziato a coltivare il sogno di fare il magistrato, di farlo in Sicilia, di occuparmi di indagini e processi di mafia, spinto essenzialmente dalla forza del tuo esempio”. E’ con queste parole, scritte dal magistrato Nino Di Matteo in occasione del 19° anniversario della strage di via d’Amelio, che lunedì è stata aperta la conferenza di ANTIMAFIADuemila “Strage Borsellino, l’Agenda Rossa e i Mandanti Esterni”. A interpretare la toccante lettera dedicata al magistrato assassinato il 19 luglio 1992, l’attrice Sonia Bongiovanni, direttrice artistica del movimento Our Voice, che ha perfettamente rappresentato le emozioni espresse dall’ex sostituto procuratore di Palermo il 19 luglio 2011, giorno in cui lesse questo tributo nella strada in cui il giudice venne ammazzato insieme alla scorta (gli agenti Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina).
Sonia Bongiovanni legge Nino Di Matteo
Da quell'omaggio sono trascorsi ben 12 anni. Eppure quelle parole colme di gratitudine, ammirazione ma anche di denuncia, risuonano ancora attualissime. “La politica non ha fatto nulla per emendarsi e liberarsi per sempre dalla contaminazione criminale”, diceva Di Matteo. “La corruzione dilagante nel nostro paese sta diventando sistema, viene ormai disinvoltamente accettata come inevitabile corredo all’esercizio del potere. Nessuno, al di là di vaghe parole, sta facendo nulla per porre finalmente un argine ad un fenomeno che grava sempre più sugli onesti e sui più deboli. I valori costituzionali, e primo fra essi quelli della separazione dei poteri e dell’eguaglianza di tutti davanti alla legge, sono messi in pericolo da leggi e da riforme che di epocale hanno solo l’evidente scopo di trasformare la magistratura in un ordine servente rispetto alla politica, al governo di turno, ad un potere che vogliono esercitare senza limiti e contrappesi”. La lettera, letta ieri sera al Teatro Golden di Palermo, conclude con un messaggio di speranza per la ricerca della verità sulle stragi, inclusa quella di via d’Amelio. “In tanti, giudice Borsellino, vorrebbero definitivamente chiudere quel capitolo. Non si illudano”, scrisse Di Matteo. “Fino a quando ci sarà anche un solo spiraglio da approfondire, una sola porta da aprire per ricostruire tutta la verità, i magistrati non lesineranno impegno, coraggio, sacrificio. Costi quel che costi, anche eventualmente l’emergere di verità scomode per le istituzioni che rappresentiamo. E’ questo ciò che possiamo e dobbiamo fare per onorare la tua memoria”.
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Da ormai 23 anni anche il nostro giornale si impegna per onorare la memoria di questi martiri della giustizia, convinti che questo esercizio oneroso non debba essere affidato alla sola magistratura. Ed ecco perché abbiamo deciso di organizzare questo congresso. Un’iniziativa caratterizzata anche da spazi artistici come le letture di Sonia Bongiovanni, appunto, o quella di Lunetta Savino, e dalla proiezione di un nuovo docu-film della testata sulla strage e sui mandanti esterni. Lo scopo dell’appuntamento di ieri sera è stato quello di riavvolgere il nastro su questi 31 anni che ci separano dall’eccidio di via d’Amelio, cercando di riassumere i fatti finora accertati e indagare sugli aspetti ancora ignoti per raggiungere quella verità storica a cui tutti ambiamo. Al fine di ciò ANTIMAFIADuemila ha invitato l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, il fratello del giudice ucciso in via d’Amelio, Salvatore Borsellino, il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli (che ci ha rilasciato un'interista video esclusiva per l'occasione), il procuratore della Repubblica di Lagonegro Gianfranco Donadio e il vice direttore di ANTIMAFIADuemila Lorenzo Baldo (questi ultimi collegati via streaming). Tutti hanno fornito uno spunto interessante sui fatti della prima Repubblica, nonché sulle vicende di attualità che stanno colpendo la legislazione antimafia e quanti, nella società civile, la mafia cercano di combetterla. Il sentimento che caratterizza queso 31°esimo anniversario, infatti, è, per citare le parole di Salvatore Borsellino, quello di amarezza.
Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo © Paolo Bassani
Nell’arco di pochi mesi si sono susseguiti una serie di eventi che rimarranno scolpiti nella memoria collettiva. La sentenza della Corte di Cassazione in merito al processo Trattativa Stato - Mafia con la quale lo Stato ha sancito che trattare con le organizzazioni criminali mafiose più potenti del mondo (Cosa nostra, 'Ndrangheta, la Camorra e così via) è legittimo. Poco importa se ciò ha generato vittime. Le manganellate agli studenti che hanno aderito al Corteo del 23 maggio "Non siete Stato voi, ma siete stati voi" organizzato da Our Voice, CGIL e altre associazioni studentesche in via Notarbartolo. Giovani, studenti e cittadini sono stati picchiati solo per aver esercitato il diritto di onorare la memoria di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, degli agenti di scorta e per protestare contro passerelle e ipocrisie di Stato. Nel mentre il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha aperto la porta a ulteriori e nefaste modifiche a due capisaldi della lotta alla mafia: le intercettazioni e il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, un reato da lui stesso definito come “evanescente”. A questo si aggiungono anche i continui attacchi alla libertà di espressione portati avanti da diversi membri della classe politica: uno di loro, il senatore Maurizio Gasparri, è arrivato addirittura a evocare il processo e la condanna per chiunque contesti la sentenza del processo Trattativa. Ma grazie alla Costituzione il diritto di critica esiste ancora, come esiste anche il dovere di ricercare la verità.
Lo streaming integrale della conferenza
Il vulcano spento di via d’Amelio e le verità pronte a esplodere
A proposito di ricerca della verità, grande attesa c’è stata ieri per l’intervento di Roberto Scarpinato, il magistrato (oggi senatore) che condusse l’inchiesta “Sistemi Criminali” da cui ebbe origine la più recente inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. “Sistemi criminali” riuscì per prima ad individuare quella regia occulta che si celava dietro alcuni dei principali episodi di sangue della prima Repubblica andando a mettere il dito in quella liason che vedeva assieme mafiosi, 007, neofascisti, massoni e colletti bianchi. Un coacervo di realtà che lavorarono per piegare l’Italia a un preciso progetto golpista a suon di stragi ed omicidi eccellenti e che poi si mossero per occultare tutto azionando sibilline macchine di depistaggio. La strage di via d’Amelio, tema cardine del congresso di ieri, si inserisce pienamente in tale scenario. E Scarpinato ha voluto smontare la falsa narrativa per cui quella strage è da attribuire solo a Cosa Nostra. “Oggi abbiamo tutti gli elementi per poter ammettere la tragica verità che la strage di via d’Amelio non fu solo una strage di mafia, ma una strage che chiama in causa componenti interni dello Stato”, ha esordito Scarpinato sul punto. “Componenti che hanno occupato posizioni strategiche, tali da essere in grado di operare ripetutamente e continuativamente nel tempo per depistare le indagini e impedire così che si potesse accertare la responsabilità dei livelli superiori a quelli degli esecutori”. “L’hanno fatto nell’immediatezza facendo sparire con straordinario tempismo l’agenda rossa”, ha continuato il senatore. “Tempismo possibile solo perché erano a conoscenza in anticipo del luogo e del tempo della strage, quindi erano complici.
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Hanno continuato a farlo operando a distanza negli anni mediante la costruzione a tavolino, due anni dopo nel 1994, di falsi collaboratori di giustizia, con la complessa orchestrazione che ha visto interagire di concerto vertici della polizia e vertici dei servizi segreti”. E, ha aggiunto Scarpinato sempre sul tema, “hanno proseguito nel tempo con un’inquietante continuità, quasi sino ai nostri giorni, con un’azione depistante, una presenza inquinante che si è mossa nell’ombra, dietro le quinte e ci fa comprendere, appunto, come la strage di via d’Amelio sia ancora una partita aperta, come la strage sia ancora tra di noi. Come un vulcano che sembra spento ma che in realtà nelle sue viscere conserva un magma infuocato che si teme possa esplodere travolgendo, con le sue verità, non soltanto destini individuali, ma alcune contrafforti della Repubblica”. Ed è per questa ragione che, a detta di Scarpinato, via d’Amelio resta un luogo “interdetto alle retoriche di Stato e alle passerelle dei politici”.
“Lo Stato e i suoi rappresentanti non hanno l’animo di celebrare i loro riti recandosi in quella via. E se ne tengono prudentemente lontani, defilandosi in luoghi più appartati inaccessibili alla gente comune. Si tratta di una tacita convinzione, di una consuetudine oramai consolidata e quasi rimossa nella coscienza collettiva. Rimossa - ha spiegato il già procuratore generale di Palermo - perché questa prolungata, forzata assenza dei rappresentanti dello Stato dal luogo della strage è un fatto perturbante. Sta a significare che lo Stato non può presentarsi in quel luogo con la coscienza a posto. Con la coscienza di poter escludere con certezza la compromissione nell’ideazione e nell’esecuzione di quella strage di apparati interni allo Stato e la coscienza di aver fatto tutto il possibile per accertare l’identità di mandanti e di complici esterni. E quindi i suoi rappresentanti si defilano, si sottraggono al pericolo e al disagio di pubbliche contestazioni”.
Roberto Scarpinato © Paolo Bassani
“Presidente Meloni, Borsellino non le appartiene”
“Quest’anno - ha continuato Scarpinato - ancora di più che in tutti gli altri anni precedenti lo Stato non potrà presentarsi senza imbarazzo in via d’Amelio con una delle sue massime espressioni, il presidente del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni. Il presidente Meloni ha più volte ripetuto la propria ammirazione per Paolo Borsellino dichiarando che proprio la strage di Via d’Amelio era stato l’evento che l’aveva indotta a iniziare la propria attività politica. Ebbene è evidente che la Meloni deve essere caduta in un equivoco oppure fa anch’essa esercizio di vuota retorica sul sangue dei nostri martiri”. “Perché non è possibile affermare di ispirare la propria azione ai valori di legalità di Paolo Borsellino e poi dichiarare lutto nazionale con un atto di impegno politico totalmente discrezionale per la morte di Silvio Berlusconi. Non è possibile dichiararsi ammiratrice di Paolo e allo stesso tempo indicare a tutti gli italiani e al mondo intero come esempio da seguire, come modello di virtù repubblicane un uomo come Silvio Berlusconi che è stato l’antitesi vivente di tutti i valori ai quali Paolo ha dedicato la propria esistenza e ha sacrificato la propria vita. Un uomo come Berlusconi che prima da imprenditore con la mafia ha stretto accordi, ha deciso di convivere e poi da politico ha portato la mafia dentro lo Stato facendo eleggere al Senato Marcello Dell’Utri, facendo nominare segretario agli Interni il senatore Antonio D’Alì, protettore della mafia di Trapani, facendo nominare sottosegretario di Stato Nicola Cosentino, referente della Camorra, portando in Parlamento Amedeo Matacena, colluso con la ‘Ndrangheta. Abbia rispetto per i nostri morti presidente Meloni, noi siamo le nostre scelte, lei ha scelto da che parte stare. Scelte che dimostrano che Paolo Borsellino non le appartiene!”.
© Paolo Bassani
I manganelli non possono fermare l’antimafia popolare
Quindi Scarpinato ha ripreso il discorso sulla frattura tra palazzo e piazza, tra luoghi del potere costituito e popolo. Una frattura che “si è manifestata nel giorno immediatamente successivo all’esecuzione della strage di via d’Amelio, in occasione di un evento drammatico che non ha precedenti nella storia del nostro Paese”. Il riferimento è al funerale del 21 luglio 1992 degli agenti di scorta di Borsellino alla Cattedrale di Palermo. “Quel giorno, una folla di circa 10mila persone che tracimava nel sagrato antistante alla Cattedrale di Palermo, iniziò a gridare ripetutamente nei confronti delle pubbliche autorità che si trovavano all’interno della chiesa la frase: ‘Fuori la mafia dalla chiesa’. E quando il presidente della Repubblica e il capo della Polizia uscirono dalla chiesa la folla ruppe gli argini del cordone di polizia e si avventò contro di loro circondandoli in modo quasi minaccioso mentre si levava il grido “assassini”. Dunque quel giorno accadde che il popolo, invece di stringersi solidale intorno alle figure simbolo dello Stato, e di rispecchiarsi in quei simboli, li accusava di essere l’emblema di uno Stato in cui non ci si poteva riconoscere. Non solo perché non aveva saputo o voluto proteggere Borsellino ma anche perché la mafia stava dentro la chiesa e cioè dentro lo Stato. Espressione cruda, esemplificativa, che tuttavia coglieva un nucleo profondo di verità, e cioè che il male non stava tutto fuori dallo Stato e non albergava solo nei cuori malati di personaggi come Riina e simili ma si annidava nelle pieghe segrete dello Stato corrodendolo dall’interno”. A distanza di 31 anni, ha continuato, “dobbiamo dolorosamente riconoscere che quel grido che accusava una parte dello Stato di essere complice della strage conteneva un seme scandaloso e profondo di verità”. E quel grido di 31 anni fa, ha affermato il senatore, “si placherà solo se e quando sapremo la verità che sino ad ora ci è stata negata”. “Così pure non riusciranno a spegnere l’altro grido della folla quel giorno del 21 luglio 1992: ‘Fuori la mafia dallo Stato’”.
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Un grido che è risuonato anche questo anno, il 23 maggio 2023, ha ricordato l’ex magistrato, rinnovato dai partecipanti al corteo organizzato dal coordinamento 23 maggio costituito da realtà studentesche, sindacali e del terzo settore. “Cittadini ai quali - ha ricordato Scarpinato - è stato vietato, a colpi di manganello, come se fossero dei pericolosi rivoltosi, di poter accedere alla via Notarbartolo e giungere all’Albero Falcone perché si temeva potessero in qualche modo turbare l’esibizione delle pubbliche autorità sul palco dinnanzi all’Albero Falcone sul quale era stato invitato il sindaco di Palermo, eletto con l’assist di Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro”. Secondo Scarpinato “abbiamo così ufficializzato che esistono due antimafie. Da una parte un’antimafia autorizzata che ha il timbro governativo che continua a raccontare al pubblico una mafia dal corriere dei piccoli, una mafia cioè costituita solo dai soliti brutti, sporchi e cattivi personaggi come Riina e Provenzano, indicati come unici responsabili del male di mafia e come unici artefici delle stragi di Capaci e di via d’Amelio. Una mafia che si ripete “è ormai stata sconfitta e appartiene al passato”. “Un’antimafia innocua che mette tutto insieme appassionatamente e che non mette alcun imbarazzo a personaggi politici eletti alla carica di sindaco o di presidente della Regione grazie al placet di personaggi come Dell’Utri e Cuffaro”. “Dall’altro abbiamo un’antimafia popolare, non autorizzata, dei disobbedienti, che quindi deve essere messa a tacere e manganellata perché questa storiella, questa falsificazione della verità e della storia noi non ce la beviamo. E col grido ‘fuori la mafia dallo Stato’, rinnovato il 23 maggio 2023, continuiamo a ricordare una verità che nessun manganello, nessun governo, nessuna carica di Polizia potrà cancellare. Perché scritta e accertata con decine e decine di sentenze scritte grazie al sangue dei nostri martiri”. La verità, ha concluso Scarpinato, “è che la mafia è stata ed è dentro lo Stato ed ha avuto volti di presidenti del Consiglio, deputati, senatori, sottosegretari di Stato, presidenti della Regione, assessori regionali, capi dei servizi segreti, capi della Polizia e tanti altri sepolcri imbiancati che con la mafia e grazie alla mafia hanno costruito carriere politiche e fortune economiche”.
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Il 'fuoco amico' delle stragi di Stato
“Chi è che ha preso l’agenda rossa di Paolo Borsellino? E chi sono quei soggetti esterni a Cosa Nostra che, come ha rivelato Totò Riina a Salvatore Cancemi, “lo hanno portato con la manina a fare la strage di via d’Amelio?” ha domandato il vice - direttore di ANTIMAFIADuemila Lorenzo Baldo all’apertura del suo intervento.
“A queste domande - ha detto - si sono contrapposte due semplici parole: 'fuoco amico'. Come è noto il 'fuoco amico' sta a indicare nel gergo militare: “quella situazione in cui soldati o mezzi vengono a trovarsi sotto il fuoco delle proprie batterie o di quelle alleate.
Io resto sempre più convinto che la storia delle stragi impunite nel nostro Paese sia contrassegnata proprio dal ‘fuoco amico’”. “Un 'fuoco amico' che è stato – e lo è anche oggi – in simbiosi con i nemici “ufficiali”, quelli che sono dichiarati”.
“Si possono forse definire 'fuoco amico' le evidenti contraddizioni dell’ufficiale dei Carabinieri, Giovanni Arcangioli? O magari la sua reticenza? Arcangioli è stato ripreso dalle telecamere il 19 luglio ‘92 mentre si allontanava da via d’Amelio con la valigetta di Paolo Borsellino. E non ha mai chiarito in maniera esaustiva i suoi movimenti in via d’Amelio; né tanto meno il fatto che quella valigetta – che lui ha avuto in mano – sia ricomparsa successivamente nell’auto di Borsellino senza l’agenda rossa”.
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“E’ forse azzardato definire 'fuoco amico' le quattro versioni dell’ex giudice Giuseppe Ayala sul suo ritrovamento della valigetta di Paolo Borsellino? Certo è che con queste sue discordanti dichiarazioni Ayala non ha dato assolutamente un contributo alla ricerca della verità sulla strage. Tutt’altro.
“'Fuoco amico' è quello di Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo, ma anche al soldo dei Servizi segreti qualche anno prima, che aveva coordinato le indagini sulla strage di via d’Amelio, e che nella sentenza del Borsellino Quater viene indicato tra i fautori del depistaggio e “intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa”. A dir poco inquietante è il 'fuoco amico' di quel soggetto esterno a Cosa Nostra che, come racconta il pentito Gaspare Spatuzza, si trovava con lui in quel garage di Palermo mentre veniva imbottita di esplosivo la Fiat 126 destinata alla strage di via d’Amelio. E non è forse 'fuoco amico' quello dell’ex numero due del Sisde Bruno Contrada (condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa nel 2007), che, dopo la strage di via d’Amelio, venne chiamato a indagare dal procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra? E non è forse un 'fuoco amico' quello di alcuni amici e collaboratori di Falcone e Borsellino che, chiamati a testimoniare al processo sulla trattativa, sono stati palesemente reticenti per non dire omertosi? Quel 'fuoco amico' che, dentro e fuori la procura di Palermo, ha delegittimato, isolato e sovraesposto fino alle più estreme conseguenze proprio Falcone, Borsellino, ed altri colleghi prima e dopo di loro.
© Paolo Bassani
Fino ad arrivare agli attacchi striscianti e alle gravi minacce nei confronti di Nino Di Matteo (per altro già condannato a morte da Riina e Messina Denaro), minacce rivolte anche ad alcuni suoi colleghi come Roberto Scarpinato, Luca Tescaroli, Giuseppe Lombardo e Nicola Gratteri. Ed è altrettanto gravissimo che sia stato provato che l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro ha mentito al processo sulla trattativa in merito all’avvicendamento al Dap tra Amato e Capriotti e alla connessione tra il 41 bis e gli episodi stragisti. Un altro 'fuoco amico' ad alti livelli?
Purtroppo il 'fuoco amico' non ha risparmiato neppure alcuni familiari di vittime di mafia che si sono scagliati, a volte anche tramite i loro avvocati, contro quei magistrati e quegli attivisti che cercano la verità sui mandanti esterni delle stragi e sulla trattativa tra Stato e mafia. Un 'fuoco amico' che fa ancora più male, che brucia ancora più forte perché è lo specchio dell’assurdo: un mondo al contrario dove si infierisce contro chi cerca la verità”.
Verso la fine il giornalista ha detto che “Chiudere gli occhi di fronte alle gravi conseguenze di certi modelli per i nostri giovani ci rende complici. Complici di una società dove i giovani bruciano le loro vite seguendo gli esempi di falsi idoli, o si suicidano dopo aver lanciato richieste di aiuto inascoltate. Se non si pone un freno a tutto questo, ebbene questa società ha fallito. Tutti noi abbiamo fallito se non creiamo i presupposti per invertire la rotta”.
Salvatore Borsellino © Paolo Bassani
Borsellino: l’agenda rossa è scatola nera della strage di via d’Amelio
“Non credo di avere vissuto un anniversario peggiore di questo, né un periodo peggiore di questo. Le ultime esternazioni del Ministro della Giustizia Carlo Nordio sono state un colpo gravissimo. Il Guardasigilli, mentre a parole dice di onorare Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, nei fatti vuole distruggere il patrimonio di leggi che Paolo e Giovanni ci hanno lasciato per dare alla magistratura le armi necessarie per poter combattere la mafia” ha detto Salvatore Borsellino durante il suo intervento.
“Questo attacco al reato di concorso esterno in associazione mafiosa è veramente un attacco alla memoria di Falcone e Borsellino. E se la Meloni scenderà a Palermo per la commemorazione di mio fratello gliene chiederò conto. Come può conciliare ciò che a parole dice di essere il suo impegno per cui afferma anche di essere entrata in politica dopo la strage di via d’Amelio, e poi dare spazio e non censurare come dovrebbe un ministro che fa queste affermazioni che sono un vero e proprio attacco sia al patrimonio di leggi che i due magistrati ci hanno lasciato sia all’indipendenza della magistratura”.
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Borsellino ha anche parlato della strage del 19 luglio 1992 e della sua anomala accelerazione: “Ci fu un’accelerazione della strage di via d’Amelio per impedire a Paolo di rivelare all’opinione pubblica di quella trattativa che lui sicuramente aveva scoperto. Immaginate cosa sarebbe successo nel ’92 quando l’opinione pubblica era indignata per la strage di Capaci, se Paolo avesse rivelato all’opinione pubblica che pezzi dello Stato stavano trattando con gli assassini di Giovanni Falcone. Ci sarebbe stata una guerra civile in Italia. Inoltre si volle impedire a Paolo di andare a Caltanissetta per testimoniare, come chiese, davanti ai giudici nisseni per ciò che aveva scoperto, lui che era il miglior amico di Falcone, lui che fu l’unico ad aver letto i suoi diari nella sua interezza. Aveva chiesto espressamente di poter deporre all’autorità giudiziaria. Sono convinto che questa è la seconda causa accelerante della strage via D’Amelio, non quel dossier ‘mafia-appalti’ di cui Paolo sicuramente si era occupato ma che non avrebbe giustificato l’accelerazione. E soprattutto non avrebbe giustificato la sottrazione di quell’agenda rossa che portava sempre con sé in quei 57 giorni. Un’agenda sottratta perché senza di essa uccidere Paolo non sarebbe servito a nulla” ha detto.
© Paolo Bassani
“E il fatto che oggi, a 31 anni di distanza, non ci sia stato un processo specifico per la sparizione di quell’agenda rossa è la dimostrazione che in questo Paese non si vuole né la verità né la giustizia.
L’ultima sentenza della magistratura giudicante dice ‘assolti per non aver commesso il fatto’. Quindi non perché il fatto non costituisce reato, ma perché il fatto non è stato commesso. Una sentenza della Cassazione che ci riporta ai tempi di Corrado Carnevale. Una sentenza tombale. Vengono prescritti anche i reati della controparte mafiosa. Viene sancita in via definitiva la rinuncia dello Stato di accertare giustizia e verità. Il nostro Stato non è, e forse mai stato, uno Stato di diritto. Siamo stati degli illusi a credere che lo Stato potesse processare sé stesso perché il fatto c’è stato. Ci sono state le stragi, il furto dell’agenda rossa, ci sono stati i depistaggi, ma non ci sono i colpevoli. O meglio, i colpevoli ci sono, ma sono dentro alle stesse strutture di questo Stato assassino e depistatore. E quindi sono intoccabili. Non può essere questo lo Stato per cui si è sacrificato mio fratello. E solo per rispetto al suo sacrificio non posso e non devo aggiungere altro. Perché giustizia è fatta, ma è cambiato qualcosa dopo la sentenza della Cassazione sul processo Trattativa Stato-mafia che ha sancito l’autoassoluzione dello Stato-mafia. Dopo questa sentenza si è rafforzata dentro di me quella sensazione che forse mai avrei voluto confessare neanche a me stesso, e che mi ha portato in questi anni a combattere per una giustizia che dentro di me sapevo che non sarebbe mai arrivata”.
Giorgio Bongiovanni © Paolo Bassani
Bongiovanni presenta il docu-film sulla strage Borsellino
Durante la conferenza è stato anche presentato il docu-film del giornale sulla strage di via d’Amelio, l’agenda rossa e i mandanti esterni. A lanciarlo è stato proprio il direttore Giorgio Bongiovanni. “Spero che questo video possa farvi capire che la strage di Capaci, la strage di via d’Amelio e quelle del 1993 sono state eseguite da Cosa Nostra e da parte di servizi segreti dello Stato che non solo le hanno suggerite ma hanno partecipato alle loro fasi esecutive. Noi pensiamo che a preparare le bombe sono stati uomini di Cosa Nostra e parte dei servizi che hanno fornito l’esplosivo di tipo militare. Noi pensiamo che Paolo Borsellino, che aveva detto ai colleghi francesi di ‘Canal +’, di essere a conoscenza del ruolo di Vittorio Mangano, sia stato ucciso perché aveva fatto capire che si sarebbe occupato di Mangano e dei suoi rapporti con Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Noi pensiamo che Paolo Borsellino sia stato ucciso perché in vita avrebbe evitato 20 anni di governo berlusconiano e mafioso. Noi pensiamo che borsellino sia stato ucciso perché gli Stati Uniti non potevano permettere all’Italia, nel momento della caduta della lira, un governo con comunisti. Doveva andare al potere qualcuno come Berlusconi così che potesse permettere all’Italia di essere ancora una colonia americana”. Bongiovanni ha quindi ricordato che una donna appartenente alla Cia rivelò a un criminologo di Palermo che i servizi americani erano presenti nell’attuazione della strage e su quei fatti Bongiovanni ha auspicato che sia ancora in piedi l’indagine e che possa essere approfondita dalla Procura Nazionale Antimafia.
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Tescaroli: "Mafie convivono ancora con lo Stato. Le stragi furono attacco alla democrazia"
La memoria di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta; l'analisi su un fenomeno, quello mafioso, che ancora non si riesce a debellare; il pericolo di nuovi attentati. Sono questi alcuni degli argomenti che il procuratore aggiunto di Firenze, Luca Tescaroli, ha affrontato nell'intervento video registrato in occasione dell'evento. La strage di Via d'Amelio è un delitto "peculiare che ha mutato il modo di porsi di Cosa nostra rispetto al passato. Perché per la prima volta una strage veniva commessa con così breve distanza da un'altra di pari se non di maggiore gravità, quella di Capaci, a distanza di 57 giorni dalla prima. Rappresenta una volontà precisa: quella di aggredire lo Stato".
"Si è trattato di stragi terroristico eversive - ha detto - che attraverso l'uso del tritolo hanno voluto seminare paura e colpire lo Stato e indebolire la sua compagine governativa".
"Quelle stragi misero in pericolo la nostra democrazia" ha ribadito.
"Anche se le azioni criminali eclatanti sono diminuite e c’è stata una rarefazione, la forza delle strutture criminali è idonea a generare iniziative di questo tipo. Questa è una delle ragioni per le quali l'attività repressiva deve andare avanti in modo efficace per cercare di fare terra bruciata intorno alle organizzazioni mafiose".
E poi ancora: "Noi siamo dinanzi a sodalizi di tipo mafioso che sono organizzazioni secolari del potere che convivono e riescono a contendere anche il primato del territorio con lo Stato. Convivono con lo Stato e ciò dimostra che gli sforzi per debellare tale organizzazione non sono ancora sufficienti, seppur ragguardevoli" ha detto il magistrato. "Le realtà mafiose nel nostro Paese non sono mere congreghe criminali, ma gruppi agguerriti con rapporti che vanno al di là dell'ambito criminale. La capacità di generare un anello di collegamento con esponenti della pubblica amministrazione, appartenenti del mondo dell'imprenditoria, con esponenti politici, con componenti della borghesia mafiosa, liberi professionisti e soggetti inseriti in circuiti finanziari, rappresenta un punto qualificante di forza perché ci consente di comprendere come sia possibile questa convivenza tra due realtà diametralmente contrapposte, cioè la mafia e lo Stato. E' necessario recidere questi anelli di collegamento".
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Donadio: le stragi come operazioni "abbottonatissime" e di "falsa bandiera"
Nel suo intervento il procuratore della repubblica di Lagonegro ha parlato della "consapevolezza in alcuni ambienti mafiosi della circostanza" che "quei morti (cioè quelli delle stragi ndr), soprattutto quelli delle stragi continentali non appartenessero a Cosa nostra".
Concetto sottolineato da "una frase famosa e ribadita da Gaspare Spatuzza": 'Ci stiamo portando dietro dei morti che non ci appartengono'.
"Noi durante i lavori della commissione parlamentare sulla strage di via dei Georgofili abbiamo considerato questo come una sorta di filo conduttore, una chiave interpretativa" ha detto il magistrato ricordando "un'audizione estremamente significativa che il commissario Giarrusso fece al mafioso Giuseppe Ferro, anziano uomo d'onore che va collocato nel contesto della mafia trapanese, alcamese in particolare".
Giuseppe Ferro, già sentito durante il processo 'Ndrangheta stragista parlò di operazioni "abbottonatissime": "Il riferimento riguardava la più grave delle stragi continentali, quella che è accaduta a Firenze" che ha "comportato lo sterminio della famiglia Nencioni e una ferita indelebile al patrimonio e alla cultura nazionale".
Secondo Donadio quindi ci sono state delle entità che hanno eterodiretto le azioni della mafia "a prescindere dell'organizzazione". "In più contesti si è parlato di una super Cosa Nostra": "Se noi potessimo fare una carta geografica delle famiglie mafiose potremmo sicuramente ragionare sull'esistenza di livelli dell'organizzazione che storicamente sono in contatto con ambienti della destra eversiva e dei servizi".
Sono questi i protagonisti delle operazioni "abbottonatissime secondo Ferro".
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Ciò comporta che nella operatività di Cosa nostra sono presenti anche "altri uomini" e certe "donne scesi in campo a fianco a Cosa nostra per dirigerne sul campo l'operatività o comunque scese in campo con risorse di tipo eversivo e terroristiche" ancora più pericolose "di quelle che potevano provenire dai picciotti mandati in giro per l'Italia a trasportare, diciamo così, un esplosivo di seconda mano recuperato al largo di Palermo".
"La strage di via dei Georgofili è un laboratorio perfetto per capire in quali direzioni si può ancora muovere l'indagine e in quali direzioni si può ancora muovere l'analisi del fenomeno stragista" ha detto Donadio.
È stato già ampiamente dimostrato che assieme al tritolo portato da Palermo è "entrato in campo altro esplosivo ad altissimo potenziale e di derivazione militare".
"Chi ce lo ha messo quel super esplosivo" a Firenze?
"Sempre cercando in quel laboratorio di Firenze spuntano presenze operative femminili" ma "negli anni '90 donne di mafia in grado di maneggiare esplosivi non c'erano e quindi vanno cercate in altri ambienti e in altre strutture. Forse in quelle organizzazioni parallele e terroristiche affiancate a Cosa nostra nelle stragi continentali se non addirittura in quelle della Sicilia". "Cosa nostra - ha concluso il magistrato - potrebbe essere stata utilizzata come agenzia di servizi criminali come la droga e gli assassini". Qualcuno potrebbe aver "chiesto" determinate azioni a Cosa nostra e, oggi, considerare quelle stragi come operazioni "di falsa bandiera può essere un presupposto per tentare ulteriori progressi nelle investigazioni".
Vincenzo Agostino insieme alla figlia Flora © Paolo Bassani
Lunetta Savino: "Paolo Borsellino. Io mi ricordo"
Nell'ultimo atto del congresso l'attrice Lunetta Savino ha letto un'articolo dello scrittore e giornalista Saverio Lodato pubblicato sul nostro giornale dal titolo "Paolo Borsellino. Io mi ricordo":
"Paolo Borsellino era colpevolista. Paolo Borsellino era giustizialista. Paolo Borsellino tutto era tranne che garantista. Era colpevolista, nella misura in cui pretendeva, con il suo lavoro, che i mafiosi pagassero con il carcere i reati di sangue che avevano commesso e con i quali avevano messo in ginocchio la Sicilia e l'Italia intera. Era giustizialista, nella misura in cui la sola arma che conosceva per debellare Cosa Nostra e le sue complicità era quella del diritto, in uno Stato di diritto. Giustizialista, in quanto armato di giustizia. Capite che intendiamo? L'antica bilancia dei Greci. Non era garantista, se per garantismo si intende ciò che si intende oggi: le infinite vie di fuga, giuridiche e processuali, che la politica pretende di garantire alla criminalità mafiosa. Paolo Borsellino era fascista? Sull'argomento, lui ci scherzava sopra. Capitò al sottoscritto, in anni assai lontani, l’onore di fargli la prima intervista per un giornale nazionale - L'Unità - quando ancora, persino a Palermo, non era entrato nel radar dei giornali cittadini".
“Per Paolo Borsellino - ha continuato Lunetta - le scelte politiche individuali di ciascuno non dovevano mettere il becco nella lotta alla mafia. E così, come lui, la pensavano Giovanni Falcone e tutti gli altri componenti del ‘pool’. Vollero e ottennero, a prezzi di immensi sacrifici, il ‘maxi’ processo. Quanto di meno garantista si potesse immaginare. Vollero le misure patrimoniali, già congegnate da Pio La Torre, il segretario dei comunisti siciliani, già puntualmente massacrato dalla mafia, prima che il Parlamento approvasse poi la legge che porta il suo nome. Colpire il portafoglio dei mafiosi, quanto di meno garantista si potesse immaginare. Vollero e ottennero ergastoli, confermati dalla Cassazione. Oggi, la premier ricorda agli italiani che appena quindicenne decise di fare politica nel nome di Paolo Borsellino. Bene. Ottima scelta. Ma la gente oggi non sa che tutto quello che Paolo Borsellino fece, lo fece non perché ‘era fascista’. E qui non vogliamo deludere Giorgia Meloni. Fece tutto quello che fece, perché apparteneva a una razza di uomini particolari: quelli che non accettano che si conviva con i poteri criminali. Ce ne fossero ancora molti di 'fascisti' così" ha concluso l’attrice.
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