Intervista a Leila Belhadj Mohamed, giornalista freelance esperta di diritti umani e geopolitica dell’Africa e del Sud Ovest Asiatico
Negli ultimi mesi la Francia è in rivolta contro l'Eliseo. Prima con i fiumi di manifestanti che hanno protestato a Parigi - e non solo - contro l'innalzamento dell'età pensionabile e poi per la morte di Nahel, il 17enne ucciso dalla polizia a Nanterre, una banlieues a nord della capitale, perché non si è fermato ad un posto di blocco stradale. L'ennesima vittima delle forze dell'ordine francesi, legittimata, per assurdo, dal nuovo protocollo normativo entrato in vigore nel 2017 con la legge sulla pubblica sicurezza. Una legge che regola l’uso delle armi d’ordinanza, consentendo agli agenti di polizia di sparare contro gli occupanti di un’auto se ritengono che siano pericolosi o se gli agenti si trovano nella direzione di fuga del veicolo (anche se l’uso dell’arma di ordinanza dovrebbe limitarsi a episodi di “stretta necessità”). Una fattispecie di reato che esula addirittura quanto avvenuto per il giovane Nahel.
Le immagini delle proteste e delle manifestazioni in Francia hanno fatto il giro del mondo. Accanto alla madre del giovane ucciso si è stretta un'intera comunità che ha voluto dire: "Ora basta con l'impunità. Chi ha sbagliato paghi". I residenti di Nanterre sono stati tra i primi a rispondere alla violenza istituzionale della polizia con proteste e con il lancio di fuochi d'artificio verso gli agenti in tenuta antisommossa e i rispettivi blindati. Da Nanterre le proteste si sono allargate a macchia d'olio in tutta la capitale. E la repressione degli agenti aumentava al passo con l'incremento delle manifestazioni. Fino a creare un vero e proprio clima di emergenza. Uno stato di guerra civile in Francia con la rivolta delle banlieues a cui il governo ha risposto con una repressione presidenziale – una violenta forma di sopravvivenza di Emmanuel Macron – che è arrivata a più di 4mila arresti e all’istituzione di sbrigativi processi per direttissima. Accanto alla polizia, sono scese in piazza alcune ronde dichiaratamente fasciste contro "gli stranieri". Uno stato di tensione inasprito ulteriormente dopo l'uccisione di Aimene Bahouh, un altro ragazzo - questa volta 25enne - morto dopo esser stato colpito alla testa da un proiettile di "tipo flash-ball" sparato dal reparto speciale di polizia Raid, nella notte tra giovedì e venerdì della scorsa settimana. Un atto denunciato dalla famiglia come "violenza volontaria". Il giovane, come Nahel, si trovava in auto e viaggiava con il finestrino aperto, "per andare a fare rifornimento a una pompa di benzina in Lussemburgo" al termine della sua giornata di lavoro, quando "ha ricevuto un proiettile alla tempia" sparato dagli agenti, ha raccontato un parente. Il ragazzo non aveva nulla a che fare con le proteste.
Infine, a dilaniare ulteriormente la società francese è il divario raccapricciante tra la colletta per la famiglia di Nahel che ha raggiunto 200mila euro e quella per il poliziotto che ha ucciso il giovane che ha superato il milione.
E per fare il punto su quanto sta accadendo in Francia e su dove hanno origine gli scontri che si sono susseguiti abbiamo raggiunto Leila Belhadj Mohamed una editor e podcaster freelance, oltre che attivista transfemminista, esperta di migrazioni, diritti umani, diritti digitali e geopolitica dell’Africa e del Sud Ovest Asiatico, che più volte ha collaborato con Rainews24 e LifeGate.
Leila, nell'Antico Testamento il profeta Osea fece un'invettiva contro i capi del popolo e i sacerdoti di Israele che, secondo lui, stavano agendo contro le leggi del Signore causando ingiustizie e violenze e portando grande smarrimento nel popolo: “E poiché hanno seminato vento / raccoglieranno tempesta”. Ecco, potremmo dire la stessa cosa per la Francia? "Chi semina vento raccoglie tempesta?"
Io credo che le origini di quello che sta avvenendo vadano ricercate nella storia francese. Non è la prima volta che le comunità marginalizzate e razzializzate protestano - a volte pacificamente a volte con una vera e propria guerriglia urbana - contro le loro condizioni di vita, contro la precarietà e l’isolamento in alcune aree delle città. Se guardiamo solo alla storia della Quinta Repubblica - quindi dal 1958 -, i casi di brutalità della géndarmerie contro persone con background migratorio sono stati molteplici. Innumerevoli anche i casi irrisolti di giovani, soprattutto uomini tra i 16 e i 25 anni, uccisi in circostanze poco chiare dalla polizia. E le risposte del potere sono sempre state inadeguate, anzi, spesso non hanno fatto altro che fomentare le manifestazioni, come nel 2005, quando l’allora Ministro dell’Interno Sarkozy definì, cito, “feccia” gli abitanti delle banlieues. La Francia ha un enorme problema di razzismo istituzionalizzato, che è il vero elefante nella stanza ogni qual volta si parla di banlieues.
In seguito alla morte del giovane Nahel le banlieues sono tornate protagoniste del dibattito politico e sociale francese. Per molti, però, continuano ad essere dei sobborghi. La tipica periferia. Eppure, le banlieues meriterebbero un’analisi più approfondita che parta dagli effetti del colonialismo francese in Africa, giusto?
Per comprendere le proteste, bisogna comprendere e conoscere il sistema banlieues e le modalità di segregazione di intere comunità, tramite quello che a me piace chiamare “razzismo geografico”. Le banlieues vanno ben oltre il concetto di periferia, soprattutto se paragonato alle nostre. Cerco di farla semplice. Il concetto di banlieues è nato con la politica urbana di metà ‘800 che prevede di annettere i sobborghi alle città. Questo ha comportato quindi che tutte le grandi città francesi siano, di fatto, composte dal centro e dai sobborghi, che non sempre sono sinonimo di zone popolari. Il contesto è notevolmente cambiato con il boom economico e l’arrivo di lavoratori migranti. Il caso di Nanterre è emblematico. All’inizio degli anni ‘60 tantissimi lavoratori algerini, con regolare contratto di lavoro, raggiunsero Parigi per lavorare, ma a questi lavoratori non è stata data nessuna soluzione abitativa. Ciò ha comportato la formazione di una bidonville alle porte di Parigi in cui vivevano più di 10.000 persone. Questo è successo a Nanterre come in altre periferie di altre città che, negli anni, in seguito alle politiche urbane dei comuni e nazionali, sono diventate le banlieues che conosciamo oggi. Il problema reale è che, a causa di alcune regole, da quelle banlieues non è facile uscire, e in quelle strutture - che oggi sono dei palazzoni popolari fatiscenti - vivono i discendenti di quei famosi migranti arrivati a metà del ‘900. Molte regole e norme francesi sono costruite per mantenere separate la popolazione: dai criteri di ammissione alle scuole e alle università, agli orari dei mezzi pubblici, fino alla cosiddetta “banlianofobia”, termine coniato dal sociologo Thomas Guénolé per identificare il sentimento di paura e odio verso un'immaginaria e stereotipata gioventù di periferia, che fomenta discriminazioni quotidiane verso gli abitanti delle banlieues.
Ciò a cui stiamo assistendo da giorni è una vera e propria guerra civile tra una comunità - seppur eterogenea - e l'idea di uno Stato che evidentemente non rappresenta milioni di cittadini. È possibile colmare questo divario? E se sì, come?
Io userei molto cautamente il termine “guerra civile” per descrivere i moti in corso in Francia. Come dicevo precedentemente, non è la prima volta che questo genere di rivolte scoppiano nel Paese. Dal mio punto di vista, il problema reale è il lato istituzione: non riconoscere la violenza sistemica che questi giovani subiscono, non permetterà di trovare nessuna soluzione. I cambiamenti sociali e strutturali sono un processo lungo, ma se non si parte dall’ammettere quali siano i problemi di fondo nella società francese, nulla può cambiare. Ad oggi la Francia è uno stato di diritto solo per gli uomini bianchi etero ed economicamente forti.
Tra i soggetti in gioco ci sono anche alcuni gruppi fascisti. Che interesse hanno a mostrarsi e quanto sono influenti nello scenario?
Queste persone sono le stesse che hanno aggredito e attaccato i giovani razzializzati festeggiavano in strada le vittorie del Marocco durante i mondiali in Qatar. Sono gruppi di suprematisti bianchi che non sopportano l’idea che, persone con background migratorio, possano avere i loro stessi spazi e stessi diritti. Farsi paladini della legge e dell’ordine serve loro per far accettare ai cittadini la loro presenza nelle strade, ma il loro solo obiettivo è cercare di “sbiancare” la Francia, ad ogni costo.
Sono dell'idea che ogni Paese abbia la sua "Giorgia" e in Francia si chiama Marine Le Pen. Oltre a condividere la fiamma nei rispettivi loghi di partito, è evidente che le due condividono anche molte idee di politica interna nella gestione del pensiero critico e delle proteste. Il partito "Rassemblement National" di Le Pen potrebbe approfittarsi della situazione caotica per cavalcare l'onda sui sondaggi? Insomma, un po' come fece Fratelli d'Italia con la gestione della pandemia in qualità di unico partito all'opposizione durante il "governo dei migliori”?
Marine Le Pen, esattamente come suo padre all’epoca, cavalca l’onda del razzismo e dell’islamofobia dilagante nel Paese, e certamente cercherà di fomentare il malcontento cittadino, però bisogna andare oltre. Tutti i partiti francesi sono uguali quando si tratta di gestire le minoranze e la cosiddetta “questione banlieues”. La legge del 2017, che ha causato la morte di Nahel e un incremento record di morti per mano della polizia nel biennio 2021-22, il 90% dei quali erano persone razzializzate, è stata voluta ed è entrata in vigore sotto la presidenza Hollande, del partito socialista. Le rivolte delle banlieues del 2005, in seguito alle dichiarazioni di Sarkozy citate prima, sono avvenute sotto la presidenza di Chirac. E, ancora, l’affare Oussekine del 1982, il ragazzo di origine algerina brutalmente assassinato dalla PVM - sciolta proprio per quel caso e tornata nel 2019 con il nome di BRAV-M per volontà di Macron - avvenne sotto la presidenza Mitterand, anche lui socialista. Nessuno dei citati è un esponente di estrema destra, eppure, quando si tratta di giovani razzializzati e di brutalità della polizia, di “law and order”, non hanno posizioni diverse da Marine Le Pen.
Quanto ciò che sta accadendo nelle banlieues parigine dovrebbe interessare il nostro Paese? Italia e Francia quanto sono accomunate dai disagi delle periferie? In questo, dobbiamo continuare a considerarle cugine o, piuttosto, gemelle?
Come spiegavo prima, le nostre periferie e le banlieues non sono la stessa cosa. Per esempio, in Italia possiamo ancora dove vogliamo, indipendentemente dalla nostra residenza - anche se in alcuni licei dei centri città hanno provato a limitare le iscrizioni di studenti provenienti dall’hinterland, più che dalle periferie. La nostra politica urbana è stata diversa da quella francese, anzi, in alcuni casi più caotica, ma è innegabile che nelle periferie, oggi, vivano le persone con più disagi sociali e che l’obiettivo di molte municipalità è spingere le persone povere e i gruppi marginalizzati fuori dai centri urbani. Le nostre periferie sono delle bombe ad orologeria, ma spero di non veder arrivare l’Italia al livello della Francia.
Il ruolo della stampa è di vitale importanza. Spesso faziosa e di regime, questo potere ha la capacità di capovolgere interi governi e condurre rivoluzioni. Tu ti trovi in Tunisia in questo momento. Come ha reagito la stampa internazionale alle proteste? Come vengono raccontate? È solo un problema europeo, oltre che francese, oppure la situazione viene monitorata con interesse anche in Africa e in Sud Ovest Asiatico?
Da quello che ho potuto constatare da qua la stampa internazionale sta osservando ciò che sta avvenendo in Francia, ma le notizie non sono riportate allo stesso modo. In generale la stampa africana e arabofona condanna la brutalità della polizia e la repressione da parte dello Stato, anche perché si sta parlando dell’ennesima rivolta di giovani con background migratorio - anche alla quarta generazione - contro la brutalità della polizia, giovani con origini diverse, non solo nordafricani. Questa è forse la differenza sostanziale con la stampa italiana: i nostri colleghi, in particolare la stampa filogovernativa, stanno portando avanti una campagna islamofoba e arabofoba contro le proteste, invisibilizzando completamente il fatto che si parla di persone POC tutte.
Nella realizzazione grafica di copertina by Paolo Bassani: Leila Belhadj Mohamed © Margherita Caprilli