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L’indagine sulla “trattativa” tra boss e la direzione del Pagliarelli apre un varco su ciò che accadde nel lockdown

Il sistema carcerario torna ad essere al centro dell’attenzione mediatica. Dopo la notizia della “trattativa” Stato-mafia che ha avuto luogo durante il lockdown dentro il carcere Pagliarelli di Palermo, tornano alla mente le rivolte che in piena pandemia hanno interessato molte case circondariali del Paese. E, in modo particolare, quel presentimento, ora difficile da smentire, che si trattasse di proteste, manifestazioni ma anche “cacerolazos”, per richiamare l’America Latina, coordinate ed eterodirette da una regia occulta.
Per inquadrare al meglio le vicende è bene riavvolgere il nastro e tornare al 2020 quando il Coronavirus - termine ormai preistorico - mise in ginocchio il nostro Paese e con esso l’intero pianeta. Mesi difficili, in cui si è vissuta una vera e propria guerra contro la pandemia ad armi spuntate e con i DPCM che periodicamente venivano emanati dal Governo Conte. E mentre la gente moriva per effetto del Covid il governo si trovò ad affrontare anche i tumulti che provenivano dalle carceri. “Li condannate alla morte rinchiusi in gabbia”; “Fateli uscire”; “Impedire ai carcerati di uscire dalle strutture è contro i loro diritti umani”. Sono solo alcune delle frasi che gridava chi sosteneva che i detenuti durante il lockdown dovevano uscire dal carcere. Molti, senza nemmeno il necessario distinguo tra detenuti comuni e “Alta sorveglianza”. Ora riavvolgiamo il nastro.

Il retroscena
Tra il 7 e il 9 marzo 2020, quando il coronavirus era ancora un’epidemia e non una pandemia, in oltre 20 penitenziari italiani esplosero violente ribellioni. Decine i feriti, anche tra gli agenti della polizia penitenziaria, dodici i detenuti morti (secondo le autorità tutti di overdose, dopo aver ingerito quantità esagerate di farmaci e metadone rubate nelle farmacie carcerarie) e ingenti i danni causati alle strutture. Il governo stanziò 20 milioni di euro per i primi lavori di recupero, ma era già evidente a tutti che quelle proteste sembravano essere coordinate dall’esterno. C’era l’ombra delle mafie. I boss, infatti, sfruttarono l’onda emotiva della rabbia per lo stop ai colloqui familiari e la paura del contagio per tornare a parlare di indulto, amnistie e fuori uscita dalle carceri. Il primo penitenziario a ribellarsi fu quello di Salerno. Era il 7 marzo e la devastazione di un piano del Fuorni non era altro che un’anticipazione di ciò che si sarebbe verificato l’indomani a Poggioreale. E da lì anche al Regina Coeli e Rebibbia nella Capitale, per poi espandersi in altre carceri in Sicilia, Campania, Emilia-Romagna e Lombardia.
Secondo alcuni investigatori, oltre ad una volontà dei detenuti, e alla presenza di anarchici a supporto dell’iniziativa, non vi sono dubbi che le rivolte sono state “coordinate” dall’esterno. Un coordinamento che va accreditato alle organizzazioni criminali, soprattutto la ‘Ndrangheta così come da Cosa nostra, Camorra e anche dalla mafia foggiana in Puglia.


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L’ombra della mafia dietro le rivolte
Se tutto ciò poteva sembrare appannaggio di qualche investigatore o appassionato alla materia, quanto sta emergendo dalle indagini del Gip Walter Turturici pone solide basi. Infatti, l’ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere 26 persone in seguito all’operazione che ha colpito la famiglia mafiosa del Villaggio Santa Rosalia fa luce proprio su quel “lontano” 2020. “In quel periodo – ha scritto Turturici -, i detenuti intrapresero iniziative volte ad intercedere con la direzione dell’istituto di pena per avanzare alcune istanze volte ad implementare la lista dei generi vittuari da poter acquistare e, dunque, ridurre le limitazioni causate dalle restrizioni imposte a seguito dell’emergenza Covid”. Era la “trattativa”. E a condurla furono boss di primissimo piano della scena palermitana. “Il 13 dicembre 2020 - si legge - veniva richiesto ed ottenuto un incontro con la direzione da parte di una delegazione dei detenuti in regime di Alta Sicurezza così composta: Michele Madonia, Salvatore Sansone, Agostino D’Alterio, Francesco Pitarresi, Salvatore Ariolo, Cristian Cinà, Giuseppe Vassallo”. Nel corso dell’incontro i detenuti avanzarono alcune richieste, e per portare avanti le loro istanze il giorno prima fecero pressioni organizzando una manifestazione di protesta con la battitura delle inferriate. È bene ricordare, inoltre, che nel carcere Pagliarelli solo il mese scorso sono stati ritrovati quattro telefoni cellulari nelle celle di alcuni detenuti della casa circondariale, arrivati grazie ad un drone. Lo scorso anno, a settembre, invece, grazie ad un’operazione antidroga sono stati rinvenuti 130gr di hashish in una cella. E, come se non bastasse, lo scorso ottobre è stato trovato senza vita un detenuto. Tutti elementi che mostrano da un lato una gestione oltremodo discutibile del Pagliarelli, e dall’altro una condizione - che riguarda in realtà l’intero sistema carcerario italiano - di abbandono all’interno della casa circondariale.

Chi comanda, chi esegue
Al tempo destò non poco scalpore il fatto che in Calabria non si registrarono proteste nelle carceri. Eppure, come sottolinearono alcuni inquirenti che indagarono sulla vicenda, si trattava della regione in cui è nata - e tutt’ora comanda - l’organizzazione mafiosa più potente al mondo: la ‘Ndrangheta. “Ma non perché abbia preso le distanze dalla protesta, anzi, al contrario - come raccontò un investigatore al Fatto Quotidiano -. Essendo le mafie la parte più alta della criminalità, in modo molto più furbo hanno fatto in modo che fossero gli altri a portare avanti la rivolta”.
Altro elemento che fotografa la mano - o almeno la cointeressenza - della mafia nelle proteste è quanto accaduto in Emilia-Romagna in cui si registrarono le proteste dei detenuti più dure. Basti pensare al Sant’Anna di Modena, dal Dozza di Bologna e a Reggio Emilia. Ovvero, l’area in cui si stava celebrando il processo Aemilia. Un elemento che incuriosì immediatamente gli inquirenti, i quali - tra le altre cose – evidenziarono come a protestare fosse solo la “manovalanza” e non i “capi”, rimasti calmi nelle loro celle osservando gli sviluppi.
Nulla poté impedire l’effetto “svuota carceri” del Covid. Le proteste in piazza e le pressioni politiche da parte di alcuni partiti, associazioni come Antigone e Nessuno tocchi Caino e della CEDU, che, come una spada di Damocle, insisteva sul Governo, alla fine hanno ottenuto il loro intento. E come d’incanto oltre 100 detenuti furono scarcerati. Tra la lista dei nomi comparivano anche boss e trafficanti di droga che, ottenuto il differimento di detenzione per l'emergenza coronavirus, non sono più ritornati nelle patrie galere. O almeno, non subito. Altro elemento che evidenzia un interesse delle mafie nelle proteste.


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Dap e Antimafia: due Commissioni con pareri discordanti
Sul tema delle rivolte nelle carceri del 2020, l’anno scorso si sono espresse sia la Commissione ispettiva (presieduta dall'ex procuratore Sergio Lari) incaricata dal Dap, sia la Commissione Parlamentare Antimafia, esprimendo due pareri discordanti. Se da un lato, infatti, per Lari non vi fu traccia di una regia occulta diretta della "criminalità organizzata e nemmeno una matrice politica anarchica o insurrezionalista”, dall’altro lato nella relazione dell’On. Stefania Ascari, nella parte dedicata all'emergenza Covid, questa ipotesi che “dietro le proteste, le sommosse, i tumulti e le violenze, ma anche dietro le manifestazioni esterne di appoggio, ci possa essere stata una regìa o un sostegno di matrice mafiosa” era “fondata”, anche se “ancora da verificare sul piano processuale”. E questo “rende ancora più urgente l’adozione di metodiche e tecnologie tese ad impedire che i detenuti, anche di elevata pericolosità, possano comunicare con l’esterno. Sul punto, la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo ha informato la Commissione che i Procuratori distrettuali più direttamente interessati al controllo dei detenuti sottoposti al regime differenziato ex art. 41-bis O.P., per l’elevato numero di detenuti sottoposti a tale regime, hanno condiviso l’esigenza di una ‘schermatura degli istituti penitenziari per bloccare il fenomeno dell’uso dei telefoni cellulari”. E ancora: “Nelle sezioni detentive sempre più frequentemente vengono rinvenuti telefonini, smartphone, sim card, in uso ai detenuti. Questa situazione, oltre a consentire le comunicazioni con l’esterno anche per programmare o decidere l’esecuzione delle attività criminali, ha verosimilmente agevolato la concertazione delle rivolte dei primi di marzo del 2020″. Sempre nella relazione della Ascari, viene fatto anche un paragone tra “la concomitanza delle proteste avvenute nelle carceri su tutto il territorio nazionale e la presenza di presidi dei familiari e di manifestazioni a sostegno all’esterno degli istituti stessi. Non a caso alle rivolte non hanno partecipato i vertici delle organizzazioni mafiose e i soggetti ristretti all’art. 41-bis O.P., né può, d’altronde, ritenersi che i detenuti sottoposti a questo regime differenziato siano in ambienti assolutamente impermeabili alle comunicazioni con l’esterno o che non possano sapere cosa succede nel proprio carcere o che non riescano, ipoteticamente, a dirigere o fornire il placet all’avvio e all’esecuzione di iniziative anche concertate o complesse, come gli eventi del marzo 2020. A riprova, si ricorda il rinvenimento, quattro mesi prima delle rivolte, di tre telefoni cellulari nel reparto 41-bis O.P. di Parma”.


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Il procuratore aggiunto di Catania, Sebastiano Ardita © Deb Photo


Il Sistema carcerario così com’è non funziona: va riformato!
Arrivati a questo punto è doveroso fare alcune precisazioni.
Le carceri, essendo un luogo in cui le persone vengono private di alcuni diritti, sono il luogo in cui lo Stato dovrebbe essere maggiormente presente. Nel tempo, però, si sono ridotte ad una vera e propria discarica sociale, in cui il detenuto è abbandonato a sé stesso in preda alle regole vigenti nel regolamento “non scritto” dei detenuti. Con il pericolo incombente di essere sottomesso, subire vessazioni o, addirittura, costretto a fare il favore al “capo” di turno e poi essere affiliato ad una famiglia mafiosa. Un fallimento per la democrazia di uno Stato.
Come ha più volte sottolineato il procuratore aggiunto a Catania Sebastiano Ardita, che conosce bene la realtà del carcere essendo stato per nove anni responsabile dell'applicazione del 41bis, ricoprendo il vertice del Dap: “Negli ultimi anni il castello su cui era stato costruito un presidio per la sicurezza di tutti ha subito una scossa importante, derivante da diverse ragioni”. “È stata minata la credibilità del carcere e la sua capacità di rispondere a molte esigenze”, ponendo fine al progetto di rieducazione e di speranza che doveva rappresentare il fondamento di tale sistema.
Le carceri sono il termometro con cui misurare il livello di democrazia di un Paese civile. Complice di tutto ciò è la negligenza dei governi di turno nel realizzare una riforma strutturale del sistema carcerario, coinvolgendo gli organi competenti e addetti ai lavori - come Ardita - che per anni quel sistema lo hanno diretto, in grado di porre fine allo “status quo” vigente.
Il sistema va riformato: prendiamone atto.

Foto © Imagoeconomica

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