Corvi a fine corsa, chiusa l'indagine su Amara e le calunnie sulla ''Loggia Ungheria''
E' delle scorse settimane la notizia che la Procura di Milano ha chiuso le indagini, con l'accusa di calunnia e autocalunnia, nei confronti di Piero Amara e del suo ex collaboratore Giuseppe Calafiore per il lungo elenco di nomi di persone, tra cui parecchi esponenti del mondo delle istituzioni, economia e forze dell'ordine, che a loro dire avrebbero fatto parte della fantomatica Loggia Ungheria.
Originariamente le parti offese erano 64 e ora sono diminuite, in quanto alcune sarebbero state solo diffamate e quindi separate dal fascicolo principale, e altre sono state trasmesse per competenza ad altre Procure.
Tra i calunniati, secondo i pm, ci sono nomi di rilievo del Csm a cominciare da Sebastiano Ardita, ex consigliere togato ed oggi procuratore aggiunto a Catania.
Per comprendere meglio questa indagine le lancette vanno riportate indietro nel tempo quando il magistrato Nino Di Matteo, allora al Csm, dimostrando ancora una volta la propria etica e professionalità, disse al Plenum di aver ricevuto un "plico anonimo" dove all'interno vi era una lettera ed un documento di un verbale di Piero Amara, ex legale esterno di Eni, in cui menzionava con certezza in maniera diffamatoria se non calunniosa, almeno un consigliere del Csm.
Di Matteo comunicò anche di aver contattato l'autorità giudiziaria di Perugia.
Ai pm milanesi Amara raccontò una serie di fatti - alcuni più o meno verosimili, altri incredibili, ed altri ancora diffamatori o calunniatori - assolutamente non riscontrati. Riferiva di una serie di rapporti avuti con giudici, funzionari di Stato, politici, alti prelati, alti ufficiali delle forze dell’ordine, imprenditori. Addirittura ha tirato in ballo l'ex Premier Giuseppe Conte, che ha smentito con decisione i fatti a lui ascritti.
Ma tra gli aspetti più gravi di cui parlò Amara vi era la propria appartenenza ad una fantomatica loggia massonica chiamata “Ungheria”, di cui avrebbero fatto parte numerose toghe "garantiste" che volevano combattere contro i giustizialisti. E tra questi magistrati Amara, per l'appunto, aveva inserito in maniera diffamante e calunniosa anche il nome di Sebastiano Ardita.
Sebastiano Ardita © Imagoeconomica
La Procura di Perugia ha chiesto l'archiviazione per l'indagine sulla Loggia Ungheria nel luglio 2022 con le dichiarazioni di Piero Amara, che “non sono riscontrate” e l’indagine sull’esistenza della loggia “si è conclusa nel senso di ritenere la circostanza non adeguatamente riscontrata".
Invece, “per l'eventuale ipotesi di calunnia e autocalunnia, gli atti verranno trasmessi alla Procura di Milano per competenza".
Del resto proprio alla procura di Milano erano stati resi i verbali che hanno fatto emergere la storia e provocato sia la crisi del Csm che tutti i procedimenti penali connessi, su tutti quello per rivelazione d’ufficio a carico dei magistrati Paolo Storari (assolto sia in primo che in secondo grado) e Piercamillo Davigo (il cui processo è ancora in corso).
Spetterà ai giudici stabilire se quella della diffusione insolita del contenuto dei verbali abbia avuto o meno una rilevanza penale. Certo è che sul piano etico e morale il comportamento di Davigo, che fu un grande magistrato ai tempi di Mani Pulite, fu quantomeno discutibile.
L'assurdo comportamento di Davigo
E sul punto basta andare a rileggere alcune testimonianze come quelle del pm Nino Di Matteo e dello stesso Ardita nel processo di Brescia.
Di Matteo spiegò ai giudici che nelle dichiarazioni di Amara sulla “Loggia Ungheria” vi era “un tentativo di condizionare l’attività del Consiglio, di delegittimazione del dottor Ardita ma anche un tentativo di condizionamento della sua attività e, indirettamente, anche della mia”.
Nella sua testimonianza il magistrato palermitano aveva anche raccontato le evoluzioni dei rapporti tra Davigo e Ardita, che erano fondatori della corrente di Autonomia&Indipendenza, deterioratosi nel tempo.
Uno degli episodi chiave era la discussa nomina per la Procura di Roma. Di Matteo raccontò di una riunione in cui Davigo arrivò persino a minacciare Ardita in maniera pesante. “In apertura la consigliera Pepe stigmatizzò il fatto che su alcuni giornali, come spesso avviene per le nomine importanti, erano stati pubblicati degli articoli con la previsione dei voti che avrebbero espresso i singoli consiglieri. In questi articoli venne pubblicato, mi pare da una giornalista del Fatto Quotidiano, la previsione che nel gruppo di ‘A&I’ ci sarebbe stata una spaccatura e che almeno due consiglieri, di cui si facevano i nomi (Di Matteo e Ardita, ndr), non avrebbero votato per il dottor Prestipino - aveva raccontato Di Matteo in aula -. In quel momento la questione mi parve un aspetto poco rilevante. Dissi di andare alla sostanza delle cose. Davigo chiese effettivamente se quelle previsioni corrispondessero alla realtà dei fatti e sia io che il dottor Ardita dicemmo che era nostra intenzione di votare al plenum per il dottor Creazzo, all’epoca procuratore della Repubblica di Firenze”. Ed è in quel momento che l’atmosfera nell’ufficio sarebbe cambiata.
Piercamillo Davigo con il suo legale, Francesco Borasi © Imagoeconomica
“Il consigliere Davigo con una impressionante veemenza grida al punto da poterlo sentire almeno nella stanza adiacente e nel salottino antistante e, rivolgendosi ad Ardita, disse: ‘Se tu non voti Prestipino automaticamente sei fuori dal gruppo’. E lo ripeté gridando almeno due o tre volte. Ardita mantenne la calma, reagì parlando pacatamente chiedendo delle motivazioni. Il dottor Davigo incalzò gridando: ‘Se tu non voti Prestipino stai con quelli dell’hotel Champagne’. Mi sembrò un’enormità assolutamente risibile. A quel tempo era già nota la trascrizione dell’ambientale dell’hotel Champagne in cui alcuni di quei soggetti dicevano che ‘Ardita era un talebano’; che bisognava fermare Ardita perché voleva sentire il magistrato Fava che aveva parlato delle sue vicende di un’indagine in cui voleva arrestare Amara; e che era perfino andato contro Tinebra”. Quelle affermazioni sorpresero sia Di Matteo sia Ardita che avrebbe risposto: “Ma che cosa stai dicendo?”. “Il dottor Davigo, sempre con tono molto aggressivo, ripeté ad Ardita: ‘Tu mi nascondi qualcosa’. A quel punto, mentre Ardita reagiva pacatamente invitando Davigo a riferire a cosa alludesse, ricordo che Davigo rispose: ‘Poi te lo spiego separatamente’. Ardita replicò: ‘No, no, ti autorizzo a dirlo davanti a tutti’. ‘No, te lo dico separatamente’, ha risposto Davigo”. A quel punto, ha ribadito Di Matteo, “intervenni con una reazione istintiva di indignazione”.
Il racconto di Di Matteo è quindi proseguito: “A mia volta alzai la voce e dissi come prima cosa che quello che stava accadendo mi faceva pensare che quel gruppo fosse peggio degli altri perché in quel momento mi sembrava che, da parte del fondatore del gruppo (Davigo, ndr), non si rispettasse la libertà dei singoli consiglieri di votare secondo coscienza. E poi da quanto mi sembrava aggressivo il dottor Davigo e dalla violenza verbale nei confronti del dottor Ardita che si palesava a mio avviso come una minaccia, reagì istintivamente dicendo: ‘Senti, io non mi sono fatto nemmeno condizionare dalle minacce di morte di Totò Riina. Tanto meno mi faccio condizionare dalle tue minacce’ - ha detto davanti alla Corte -. Non ero io la persona minacciata, ma mi diede molto fastidio vivere una minaccia nei confronti di un altro consigliere che è anche un mio amico. A mio avviso non aveva nessun tipo di giustificazione e continuo a dirlo. A quel punto Davigo rispose: ‘Il problema non è il tuo perché tu sei già esterno al gruppo. Il problema è di Ardita che se non vota Prestipino è fuori dal gruppo’. Poi la riunione si sciolse praticamente subito nell’imbarazzo di tutti, in un clima di fuoco che si era instaurato attraverso questa dinamica”. In seguito a questa vicenda i rapporti che Ardita e Di Matteo avevano con l’ex consigliere Davigo si interruppero.
La corte del processo Davigo, il presidente R
Anche Ardita, sentito a processo lo scorso febbraio aveva raccontato una serie di episodi che avevano riguardato il suo rapporto con Davigo. Ed un momento di frizione vi fu anche con l’arrivo al Csm di Nino Di Matteo: “Davigo mi disse di non volerlo: 'Non lo stimo. Ha fatto il processo Trattativa in cui è coinvolto Di Maggio che conoscevo bene. Non lo voglio appoggiare'". “In risposta - continuò Ardita - gli dissi che, oltre ad essere un grande magistrato, ‘Di Matteo è una persona molto in linea con il nostro pensiero ed è carta vincente contro le correnti’”. Nulla da fare. “Questo pregresso comportò una difficoltà di rapporti anche tra Davigo e Di Matteo”, ha evidenziato Ardita, il quale ha detto di essersi trovato di fronte ad una scelta non “tra persone che ritenevo comunque entrambe amiche e rispettabilissime”, bensì “una scelta tra linee di comportamento. Una era la scelta di aderire al gruppo di ‘Area’ (Davigo, ndr) e l’altra era il mantenimento di una linea indipendente dai gruppi e critica (Di Matteo, ndr). Ho preferito questa seconda. Lì probabilmente Davigo ebbe anche una reazione emotiva”.
Cosa possiamo dire di fronte a queste testimonianze? Sulle questioni penalmente rilevanti o meno sarà la magistratura a dover rispondere, ma è chiaro che il comportamento di Davigo resta comunque scandaloso e moralmente discutibile, pesantemente condizionato da personalismi e pregiudizi umani.
Ardita nel mirino
Ma torniamo ad Ardita ed alla palese calunnia perpetrata nei suoi confronti.
Una vicenda tanto sporca quanto complessa volta a colpire ed infangare un magistrato che è stato titolare di importantissime inchieste nel corso della propria storia e che oggi è tornato ad assumere il proprio ruolo di procuratore aggiunto a Catania.
Bastava un po' conoscere la sua storia per capire come le accuse di Amara in quel verbale fossero palesemente false.
Ad esempio è evidente che nel 2006 Ardita non fosse affatto "culo e camicia" con l'ex capo del Dap Gianni Tinebra (come invece sosteneva il "corvo" Amara), tanto che fu lui a svelare l'esistenza del cosiddetto "protocollo farfalla", quell'accordo tra 007 e Dap per la gestione delle notizie fornite dai mafiosi in carcere in cambio di un compenso, siglato nel maggio 2004 tra Mario Mori (all'epoca direttore del Sisde) e, appunto, Tinebra.
Nella sua lunga carriera Ardita si è occupato di criminalità organizzata, in particolare contro la sanguinaria cosca di Cosa nostra catanese comandata dal boss Nitto Santapaola e i cosiddetti "colletti bianchi" ed ha sempre dimostrato come la legge, per lui, fosse davvero uguale per tutti.
Nino Di Matteo accompagnato dalla sua scorta © Deb Photo
Da giovane sostituto della DDA di Catania, oltre ad occuparsi dell’organizzazione Cosa nostra ha fatto parte del pool che nel 1993 ha azzerato il vertice della politica catanese coinvolta in reati di corruzione e collusioni con la mafia, arrivando anche all’arresto dell’ex ministro Salvo Andò e degli onorevoli Nino Drago e Rino Nicolosi.
Abbiamo già ricordato il grande lavoro svolto all'interno del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (DAP), come direttore dell'Ufficio detenuti, dal 2002 al 2011. Qui si è distinto per le circolari sul trattamento penitenziario e la particolare serietà nella gestione del regime 41bis, il carcere duro contro i mafiosi e terroristi, esponendosi e subendo anche gravi minacce.
Una volta terminato il mandato alla direzione penitenziaria venne anche sentito davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia il 15 maggio 2012, e le sue dichiarazioni diedero un importante contributo alle indagini portate avanti dalla commissione sulla gestione delle carceri, sul regime detentivo del 41-bis. E sempre Ardita fu chiamato a testimoniare nei processi contro gli ufficiali del Ros, Mario Mori e Mauro Obinu, nonché al processo trattativa Stato-mafia, in cui raccontò proprio del "protocollo farfalla".
A Messina, dove è stato procuratore aggiunto, ha firmato importantissime inchieste come quella sullo scandalo Formazione alla regione siciliana costata la condanna a Francantonio Genovese, o l’operazione “Matassa” sulla compravendita di voti, fino all’operazione “Beta”, che ha messo in evidenza il pericoloso intreccio tra mafia, massoneria e poteri economici all’ombra del clan Santapaola che sullo Stretto continua ad avere molti interessi.
E tra il 2017 e il 2019, sempre a Messina, è stato anche procuratore reggente dell'ufficio che indagò e successivamente operò all'arresto dell'avvocato Amara.
Plenum del Csm © Imagoeconomica
Successivamente, sempre come procuratore aggiunto, è tornato a Catania dove si è occupato sempre di mafia e “colletti bianchi”.
Per non parlare del suo impegno all'interno del Csm dove fu eletto con il gruppo da lui stesso fondato con Davigo, Autonomia&Indipendenza.
In particolare assieme al consigliere togato indipendente Nino Di Matteo, all'interno del Csm si era reso protagonista del tentativo di dare un nuovo input alle attività consiliari, incrementandone l'efficienza e la trasparenza, difendendo anche quell'autonomia ed indipendenza della magistratura che va oltre le logiche correntizie dimostrando di avere un alto senso della difesa dei valori contenuti nella Carta Costituzionale.
Quelle dichiarazioni di Amara, totalmente risibili, fatte da chi aveva in mente una vendetta personale ed anche un intento di condizionamento del lavoro di Ardita e Di Matteo devono oggi far riflettere. Ed oggi si dovrebbe anche capire se abbia agito da solo o se, per quelle affermazioni, gli siano state promesse delle coperture.
Alla luce di tutti questi fatti è comunque evidente che Ardita fosse visto come una figura scomoda e da delegittimare e sul punto si erano mosse "menti raffinatissime" e forme di "potere occulto" come le massonerie deviate, volte ad eliminare civilmente e professionalmente il magistrato oltre che destabilizzare gli organi della magistratura.
Un lavoro sporco che continuamente viene perpetrato nei confronti di quei magistrati più impegnati nella ricerca della verità e nel dare un volto a quei mandanti esterni delle stragi, rimasti ancora oggi senza volto.
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