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L'intervento integrale in Aula del senatore ed ex procuratore generale di Palermo

Questo trentesimo anniversario della strage di Capaci è particolarmente triste, perché è all'insegna della rimozione, della restaurazione e della normalizzazione. Una rimozione realizzata non con il silenzio, ma continuando ad annegare verità scomode e indicibili dentro un mare di retorica. Una retorica che consegna alla memoria collettiva una falconeide sedativa e rassicurante, una narrazione tragica, ma nello stesso tempo semplice e pacificata, che si può riassumere nei seguenti termini: Giovanni Falcone è stato assassinato perché con il suo lavoro di magistrato integerrimo, culminato nelle condanne inflitte con il maxiprocesso, era il simbolo di uno Stato che aveva sferrato un colpo mortale alla mafia, mandando in frantumi il mito della sua invincibilità. I carnefici, i portatori del male di mafia sono stati identificati e condannati. Essi hanno i volti noti di coloro che l'immaginario collettivo ha già elevato a icone assolute e totalizzanti del male di mafia: Riina, Provenzano e altri personaggi di tal fatta.
Secondo questa narrazione la mafia sarebbe costituita da una minoranza di criminali che, come si usa ripetere, costituisce una sorta di fungo malefico, all'interno di una società popolata da un'assoluta maggioranza di onesti. Il male, dunque, è fuori di noi e può essere catarticamente proiettato su pochi mostri.
Peccato che la falconeide sedativa della retorica ufficiale sia una storia falsa, sia sotto il profilo storico, che giudiziario. La realtà vissuta e sofferta da Giovanni Falcone racconta che, diversamente da quanto si ripete nelle cerimonie ufficiali, il male di mafia non è affatto solo fuori di noi, è anche tra noi. Racconta che gli assassini e i loro complici non hanno solo i volti truci e crudeli di coloro che sulla scena dei delitti si sono sporcati le mani di sangue, ma anche i volti di tanti, di troppi sepolcri imbiancati che, grazie alla mafia, hanno costruito carriere politiche e fortune economiche e che avversarono in tutti i modi Falcone, isolandolo, delegittimandolo, riducendolo all'impotenza per impedirgli di accertare le loro responsabilità. Un popolo di colletti bianchi che ha frequentato le nostre stesse scuole e che affolla i nostri salotti: Presidenti del Consiglio, Ministri, parlamentari nazionali e regionali, Presidenti di Regione, vertici dei Servizi segreti della polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d'oro, personaggi apicali dell'economia e della finanza e molti altri.
Responsabilità penali certificate da sentenze definitive e, tuttavia, rimosse dalla retorica pubblica e da una politica priva di credibilità perché, mentre spende parole vuote il 23 maggio per omaggiare la memoria di Falcone e la cultura della legalità, continua imperterrita a portare in palma di mano personaggi condannati con sentenze definitive per complicità con la mafia o per gravi reati di corruzione.
Questo vasto ed eterogeneo mondo di sepolcri imbiancati non può autoassolversi moralmente e politicamente dalla tragica storia che ebbe il suo epilogo nel boato di Capaci. Quello che ha inghiottito il 23 maggio 1992 la vita di Giovanni Falcone e le vittime di Capaci, il 19 luglio successivo le vittime della strage di via D'Amelio, il 27 maggio del 1993 le vittime della strage di via dei Georgofili, il 27 luglio 1993 le vittime di via Palestro a Milano è un gorgo di morte che chiama in causa quello che lucidamente Giovanni Falcone definì il gioco grande del potere, un gioco del potere che non ha esitato a utilizzare sistematicamente, sin dalle origini della storia della Repubblica, le stragi e l'omicidio come strumenti occulti di lotta politica, avvalendosi come bracci armati della destra eversiva, delle mafie e di altri specialisti della violenza.
Non è certo un caso che l'inizio della storia repubblicana sia stato tenuto a battesimo dalla strage politico-mafiosa di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947, che segna l'inizio della strategia della tensione, e che la storia della prima Repubblica si sia conclusa nel bagno di sangue delle stragi politico-mafiose del 1992 e del 1993. Tra la prima e l'ultima strage una sequenza ininterrotta di altre stragi, di omicidi eccellenti che non hanno uguali per continuità e intensità nella storia di altri Paesi europei; stragi che hanno tutte un unico denominatore che reca il sigillo del potere, il sistematico intervento di apparati dello Stato per depistare le indagini della magistratura e impedire così che vengano accertate le responsabilità di mandanti e di complici eccellenti. Depistaggi che significativamente hanno caratterizzato anche le indagini delle stragi del 1992 e del 1993, replicando le stesse modalità del passato: una continuità di depistaggi che rispecchia la continuità della criminalità del potere che ha segnato la storia del nostro Paese.
Giovanni Falcone non è stato ucciso solo per quello che aveva fatto, ma anche e soprattutto per quello che avrebbe potuto fare se fosse rimasto in vita; per evitare che, proseguendo nella sua opera, potesse portare alla luce verità indicibili che, come lui stesso disse nel corso di una seduta della Commissione parlamentare antimafia, avrebbe costretto il nostro Paese a riscrivere parte della sua storia.
In questo senso, la strage di Capaci non può essere ridotta a un capitolo della storia della criminalità mafiosa. Essa è un tragico capitolo della storia della criminalità del potere; una storia che prosegue fino ai nostri giorni, perché quel gioco grande del potere non si è mai interrotto. E fino a quando i protagonisti del passato e del presente di questo gioco cinico e sanguinario non saranno chiamati a rendere conto delle loro responsabilità, le stragi del 1992 del 1993 resteranno lo specchio della cattiva coscienza di questo Paese e segno della sua immaturità democratica.
E la retorica di Stato, per usare le parole di Leonardo Sciascia, uno dei più profondi conoscitori della realtà della criminalità al potere in Italia, resterà il sudario dentro il quale si celano le piaghe purulente della Nazione.

Ascolta l'intervento di Roberto Scarpinato da 2 ore 35 minuti: clicca qui!

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