L’ex pm intervenuto alla conferenza di ANTIMAFIADuemila con i giornalisti Lo Bianco e Borrometi
Dalla strage di Capaci ai mandanti esterni, fino alla trattativa Stato-mafia, di cui lo scorso 27 aprile la suprema corte di Cassazione ha ritenuto di assolvere, con un colpo di spugna, alcuni dei suoi protagonisti. Questi i temi che sono stati affrontati ieri in un affollatissimo cineteatro LUX di Palermo (circa 500 le persone presenti) alla conferenza di ANTIMAFIADuemila dal titolo: "Giovanni Falcone. La vera storia della trattativa e delle stragi dello Stato-mafia’’. Diversi gli ospiti dell’appuntamento. I giornalisti Giuseppe Lo Bianco, Giorgio Bongiovanni, Aaron Pettinari (nel ruolo di moderatore) e Paolo Borrometi (che ha contribuito con una video intervista alla testata). Insieme a questi cronisti anche Antonio Ingroia, avvocato ed ex pm di Palermo con 25 anni di esperienza in magistratura nonché “padre” dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Il suo intervento, in linea con il tema madre della conferenza, si è incentrato proprio sulle indagini che ha abilmente condotto fino a processo. Ingroia ha fatto una disamina di tutti questi anni di dibattimento, partendo dalle sue fasi preliminari.
© Paolo Bassani
E ha commentato la sentenza dei giudici ermellini che hanno prosciolto dall’accusa di minaccia e attentato a corpo dello Stato gli ufficiali del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno, Antonio Subranni; i mafiosi Antonino Cinà e Leoluca Bagarella; e l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. “La Cassazione dice che gli imputati devono essere assolti ‘perché non hanno commesso il fatto’, cioè non hanno inoltrato il messaggio intimidatorio al governo”, ha spiegato entrando subito nel cuore della questione. “Leggeremo tutti i contorsionismi tecnici della motivazione della sentenza ma intanto c’è una cosa che non mi convince: se i giudici della Cassazione hanno detto che non c’è prova che hanno commesso il fatto vuol dire che sono entrati nel merito delle valutazioni delle prove. E questo i giudici della Cassazione non lo possono fare”, ha affermato Ingroia. “I giudici avrebbero dovuto tuttalpiù ritenere la motivazione contraddittoria o insufficiente, annullare la sentenza e rinviare in un’altra sezione di corte d’Appello”. Ma la verità, secondo Ingroia, “è che bisognava mettere una pietra tombale su questo processo per questo parlo di sentenza politica”. Ad ogni modo, l’avvocato ha sottolineato più volte che “nessuna sentenza, neppure della suprema corte di Cassazione, può cancellare i fatti. E i fatti sono - ha ricordato Ingroia - che lo Stato ha trattato con la mafia, ha compiuto una trattativa scellerata e criminogena che ha prodotto stragi e morti innocenti”.
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“La trattativa ci fu - ha ribadito -. E non fu una chiacchierata al bar con Vito Ciancimino ma una vera proposta. Ci furono una serie di incontri alla fine dei quali venne detto che fu accettata la trattativa. Non rompete le scatole opinionisti del mainstream a dire che questa sentenza dimostra che trattativa non c’è stata. La trattativa c’è stata ed è stato il generale Mori ad ammetterla in aula a Firenze”, ha puntualizzato Ingroia.
“Nessuna sentenza può cancellare la verità storica”, ha aggiunto. “Ci sono dei fatti che non possono essere cancellati neppure con una sentenza rispettabile in punta di diritto”. Ingroia ha voluto fortemente fare questa premessa, prima di scendere nel dettaglio dell’argomento, perché la pronuncia della Cassazione “è stata utilizzata in modo volgare, idiota e calunnioso”. “Si è chiesto ai magistrati che hanno fatto quelle indagini e quel processo di provare vergogna e di chiedere scusa. Ma scusa di che? E’ una cosa vergognosa”, ha commentato ricordando i titoloni di giornali e le dichiarazioni altisonanti di alcuni opinionisti televisivi alla notizia delle assoluzioni definitive. “Io non solo non chiedo scusa, ma come sostituto procuratore e poi come procuratore aggiunto dico che sono orgoglioso di aver avviato per primo l’indagine sulla trattativa Stato-mafia. Perché il reato c’era e perfino la Cassazione ha detto che c’era. Sono orgoglioso - ha continuato - di aver fatto quell’indagine e di aver mandato a giudizio quegli imputati.
Il direttore di ANTIMAFIADuemila, Giorgio Bongiovanni © Paolo Bassani
Questo è un processo che definisco storico perché è il primo processo in cui siamo riusciti a fare il salto di qualità seguendo anche il metodo Falcone, che era il metodo dei piccoli passi, della progressione.
Quindi sono orgoglioso e lo devono essere anche i magistrati che con me hanno svolto le indagini e quelli che ne hanno dato seguito come Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene, Giuseppe Fici e Sergio Barbiera. Tutti loro non hanno proprio nulla da chiedere scusa”.
Piuttosto, ha esclamato, “gli unici che devono chiedere scusa sono gli imputati che sono stati assolti. E devono chiedere scusa agli italiani e ai familiari delle vittime perché sono responsabili di quello che è successo”.
Da sinistra: Antonio Ingroia ed Aaron Pettinari
“Deve chiedere scusa il magistrato che di fronte a degli elementi ha fatto il proprio dovere e davanti a determinati elementi che ha ritenuto sufficienti ha chiesto un rinvio a giudizio e poi si è trovata accolta la sua tesi dal giudice dell’udienza preliminare e addirittura da una corte d’Assise popolare? Io credo di no. E in primo grado, sia chiaro, il processo l’abbiamo vinto, altroché non bisognava nemmeno iniziarlo”. Inoltre, ha ricordato Ingroia, “noi siamo andati con i piedi di piombo, i magistrati sono stati estremamente prudenti. Io per primo lo sono stato. L’indagine - ha ricordato ancora l’ex pm - non nacque su Mori ma nei confronti di Salvatore Riina, Antonino Cinà e Vito Ciancimino (il sindaco di Palermo condannato per mafia, ndr). E nacque quando si seppe del papello e quando ci si accorse di una convergenza di dichiarazioni che confermavano l’esistenza di quest’ultimo. Le dichiarazioni sul papello arrivarono ben prima di Ciancimino da Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca. All’inizio - ha proseguito Ingroia nel ricordo di quegli anni - non sono stati iscritti gli ufficiali dei carabinieri. Dopodiché l’acquisizione delle indagini successive lo ha reso necessario e per altro vi fu una prima archiviazione.
@ Paolo Bassani
Noi stessi la chiedemmo in un certo momento - ha rammentato Ingroia - perché ritenevamo che in quella fase non si fossero acquisiti sufficienti elementi. Dopodiché, ovviamente, c’è stato il fattore Massimo Ciancimino (il figlio di Vito, ndr) che ha fornito degli elementi, abbiamo riaperto l’indagine e nel frattempo Di Matteo era venuto alla procura di Palermo. E a quel punto nacque quell’indagine che portò anche alla fila di politici smemorati che dopo 20 anni hanno recuperato la memoria su vari frammenti che sapevano riguardo a ciò che stava accadendo dietro le quinte. E questo ha fatto si che avessimo degli elementi tali per chiedere il rinvio a giudizio”. “Nel 2009 siamo arrivati a un livello tale da processare, nello stesso processo, uomini della mafia e alti uomini dello Stato. Un giudice dell’udienza preliminare terzo e non appiattito ai pubblici ministeri ha ritenuto che gli elementi ci fossero e ha rinviato tutti a giudizio”. “E poi dei giudici seri, con grande competenza in primo grado hanno ritenuto che ci fossero gli elementi di prova per condannare con pene pesantissime tutti gli imputati”, ha ricordato Ingroia riferendosi alla sentenza della corte d’Assise di Palermo del 2018.
Giorgio Bongiovanni ed Antonio Ingroia © Paolo Bassani
"E quindi di cosa dovrei chiedere scusa di fronte a una convalida di primo grado?”, si è chiesto. Ai giudici di primo grado sono subentrati i giudici d’Appello che, nonostante abbiano assolto i Ros e Dell’Utri, “hanno ancora una volta riconosciuto che trattativa ci fu, che fu scellerata, che ci fu uno stato di violenza e minaccia nei confronti dello Stato, che i mafiosi avevano mandato questa minaccia nei confronti del governo e che gli ufficiali dei carabinieri hanno fatto da postini recapitando le minacce al governo del tempo”, ha ricostruito l’avvocato. “Dopodiché i giudici hanno ritenuto che questa condotta di trasmissione di messaggio di intimidazione dei mafiosi, siccome era stato fatto nell’interesse dello Stato e non della mafia non era punibile. E infatti sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato. Cioè il fatto c’è, è stato commesso ma non c’era il doIo perché venne fatto nell’interesse dello Stato”. Questo, secondo Ingroia, a riprova che comunque la trattativa è esistita nonostante quelle assoluzioni che ha ritenuto illogiche in quanto “sul piano giuridico se si è consapevoli della portata minacciosa che ha la minaccia che si sta portando al destinatario si è complici di chi sta minacciando. Questo è essere concorrenti con l’estorsione”. Quindi si è arrivati a questa ultima pronuncia dei giudici ermellini. Anche in questa sentenza, paradossalmente, secondo Ingroia, viene riconosciuta che trattativa ci fu perché la motivazione è assolti “per non aver commesso il fatto”, non “perché il fatto non sussiste”.
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Ma oltre a queste interpretazioni giuridiche, Ingroia si è soffermato sul profilo etico morale tanto sollevato da quelli che hanno definito la trattativa una “boiata pazzesca”. Un profilo morale contestato nei confronti di questi pm, rei di essere “persecutori degli eroi dell’antimafia” come Mori, il capitano Ultimo ecc. “Peccati che dobbiamo espiare”, ha commentato ironico Ingroia. Ebbene, l’avvocato ha osservato che “nel momento in cui si dice che loro (i carabinieri, ndr) non hanno commesso il fatto, significa che questi uomini si sono assunti da soli la responsabilità di trattare con i mafiosi che stavano mettendo a ferro e fuoco il Paese. Hanno avuto questa impudenza ed esagerata considerazione di loro stessi al punto di poter pensare di trattare da pari a pari con i capi mafia quando questi chiedevano una copertura politica”, ha commentato Ingroia. “Quindi allora o la copertura c’è stata, e allora la sentenza sarebbe sbagliata, o non l’hanno trasmessa. Quindi loro si sono assunti questa responsabilità senza parlarne né con Paolo Borsellino, né con il ministro della Giustizia o il ministro degli Interni, né con il ministro della Difesa o il presidente del Consiglio del tempo aprendo una trattativa che determinò morti innocenti per tutto il 1993”. Quindi Ingroia ha ribadito che non ha nulla di cui scusarsi di fronte alle condotte che contestò agli imputati che poi sono stati salvati dalla Cassazione.
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Bongiovanni e Pettinari: “Noi non chiederemo scusa a chi trattò con Cosa nostra”
E della stessa linea è anche la redazione di ANTIMAFIADuemila che in queste settimane è stata attaccata su più fronti, e in modo più o meno diretto, per aver dato spazio al lavoro di magistrati come Ingroia e di conseguenza per averli difesi quando era opportuno. “Noi non chiediamo scusa a chi in questi tempi, colleghi inclusi, ha chiesto di farlo perché abbiamo raccontato i fatti emersi in un processo e per aver dato voce a ciò che accadeva dentro e fuori quell’aula di giustizia. Non chiediamo scusa”, ha detto Pettinari prima di presentare il docufilm realizzato dalla rivista apposta per la serata sulle stragi e la trattativa.
Il caporedattore di ANTIMAFIADuemila, Aaron Pettinari © Paolo Bassani
“Alcuni giornali, dopo la sentenza di cassazione del processo Trattativa Stato-Mafia, ci hanno definito come quei giapponesi che vivevano in un’isola” e che “credevano di combattere ancora la guerra mondiale" nonostante "l'armistizio”, ha rammentato il direttore della testata Giorgio Bongiovanni. Ma “noi non siamo dei giapponesi fuori di testa”, ha affermato Bongiovanni. “Siamo dei cittadini che vogliono una patria libera, ma soprattutto che la mafia esca fuori dallo Stato". Il direttore ha quindi fatto un appello per una protesta civile e democratica. “Andiamo a Roma, al Parlamento”, sede di un "governo fascista che ha come presidente del Senato uno che prendeva a sprangate la gente. Noi dobbiamo dire fuori la mafia dallo Stato. Ma lo dobbiamo fare lì. Altrimenti continuerà così chissà ancora per quanto tempo”, ha spiegato Bongiovanni. “La parola va al popolo, non possiamo più attaccarci ad un magistrato, ad un governo o ad un presidente della Repubblica. Dipende da noi. Perché altrimenti saremo noi i colpevoli se non facciamo niente. Quelli che premeranno il grilletto assieme alla mafia e allo Stato per eventuali assassinii saremo anche noi, quindi ribelliamoci con forza”, ha affermato.
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Borrometi: “E’ in corso il tentativo di normalizzare la trattativa”
A seguire, al cineteatro Lux è stata proiettata l’intervista fatta da ANTIMAFIADuemila a Paolo Borrometi, condirettore dell’Agi, che a proposito della sentenza Trattativa ha commentato: “Sono molto preoccupato per quello che sta accadendo in questo Paese. Sono convinto che vi sia un tentativo di riscrivere, forse normalizzare, la storia di questo Paese”. L’autore del libro “Traditori”, uscito di recente in tutte le librerie, ha sottolineato anche il peso storico che accompagna la sentenza relativa alla “Trattativa Stato-mafia” e, parlando di sentenze che “vanno lette e rispettate”, il noto giornalista di antimafia ha ricordato che, come ha fatto Pettinari in sala, “a parlare di trattativa non sono i pm oppure gli inquirenti, ma il Colonnello Mario Mori”. Un’iniziativa dunque, quella di Mori, che si accompagna ad un banale quanto inesorabile interrogativo: “Perché gli Ufficiali non hanno informato l’autorità giudiziaria di quell’incontro? - ha evidenziato Borrometi - Soprattutto, per conto di chi?”. Domande ancora senza risposta, ma che obbligano i giornalisti a farne altre a chi avrebbe condotto quella trattativa. “Difatti, lo stesso Mori ha raccontato che poche settimane dopo il suo incontro con l’ex sindaco di Palermo, questi lo ha ricontattato per dirgli: 'Colonnello, quelli accettano la trattativa’. Non siamo noi a dirlo, oppure i pm - ha precisato -, ma il generale Mario Mori”.
L'intervento video di Paolo Borrometi © Paolo Bassani
Per questo motivo, Paolo Borrometi ha rivolto anche un pensiero alle vittime, spesso lasciate sole nel tentativo di conoscere la verità. Tra le vittime della trattativa Stato-mafia c’è anche Luigi Ilardo, il pentito di Cosa Nostra abbandonato dallo Stato e ucciso il 10 maggio 1996. La figlia Luana che da anni impegna le sue energie nel cercare verità e giustizia ha portato i suoi saluti in sala ieri pomeriggio. È "necessario continuare a lottare", "io credo che la nostra missione sia questo”, ha affermato. "Noi continuiamo a subire sentenze inaccettabili, dove spesso si gioca con tecnicismi che non portano lo Stato a processare sé stesso". "Anche io sono in attesa di verità e giustizia". Tornando a Borrometi, il condirettore dell’Agi ha detto di non sapere se le famiglie delle vittime di mafia, o dello Stato-mafia nel caso di Luigi Ilardo, “avranno giustizia, ma posso dire che noi giornalisti dobbiamo impegnarci affinché possano ottenere la verità. In questo Paese, un giornalista con la schiena dritta ha il dovere di porsi delle domande”. E sull’attentato che 31 anni fa colpì Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, Borrometi ha affermato che “lo Stato doveva dare prova di sé affrontando le persone che gli hanno dichiarato guerra. Forse, - ha spiegato Borrometi - una dichiarazione di guerra che non è stata avanzata solo da quei brutti, sporchi e cattivi, come vorrebbero farci comprendere.”
Luana Ilardo © Paolo Bassani
Lo Bianco: “Nella nostra storia si è ripetuto lo schema della destabilizzazione per stabilizzare”
Un concetto, questo, ribadito anche dal collega Giuseppe Lo Bianco che a proposito della strage di Capaci e della ricerca della verità ha affermato: “A due giorni dal trentunesimo anniversario ancora oggi mi è difficile credere che a piazzare il tritolo sotto l’autostrada sia stato soltanto un commando mafioso, maneggiando detonatori alimentati da pile piatte di transistor, telecomandi rudimentali e lampadine di flash da accendere al passaggio delle auto come prova dell’attentato, come dicono tutt’ora le sentenze secondo cui i killer attesero l’arrivo dell’aereo consultando sul Giornale di Sicilia la pagina di arrivi dei voli Alitalia”. Eppure, ha continuato il giornalista e scrittore, “ancora oggi una larga fetta di opinione pubblica distratta e male informata è convinta che le stragi, compresa via d’Amelio e quelle del ’93 di cui quest’anno ricorre il trentennale, sia farina esclusiva del sacco mafioso. Una convinzione alimentata da un’informazione a senso unico, tranne rare eccezioni, che ha schiacciato moventi e scenari in una dimensione mafiocentrica, riproponendo suggestivamente la lotta del bene contro il male. Lo Stato contro la mafia, sconfitta dalle forze del bene”, ha affermato.
Giuseppe Lo Bianco © Paolo Bassani
“Se oggi qualcuno dovesse chiedersi perché farsi il sangue marcio con storie vecchie di 30 anni la risposta è banale e terribile. Si tratta di una questione che riguarda il presente”, ha affermato. “Da 30 anni alcuni mafiosi assieme a uomini delle istituzioni, della politica, delle forze dell’ordine e degli apparati, sono custodi di segreti inconfessabili di trattative condotte sotto traccia, con i mafiosi responsabili - ma non da soli - delle stragi del ’92 e del ’93. Segreti custoditi gelosamente che affiorano qua e là ogni tanto in modo confuso e inframezzato nel sistema dell’informazione nazionale, come avvisi ai naviganti per tenere la giusta rotta o come fake news da gettare nell’arena per confondere le acque e depistare. Tutto allo scopo di tenere ostinatamente chiuso il coperchio di verità che metterebbero a rischio il segreto professionale di quanti negli anni hanno costruito su quei segreti carriere luminose e inossidabili”, ha spiegato.
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“La verità sui fatti del biennio ’92-’94 non è solo dovuta ai familiari delle vittime, ma è una conquista di democrazia per illuminare un periodo in cui le istituzioni del Paese subirono un attacco eversivo a opera di forze ancora oggi non compiutamente identificate”. Quanto alla trattativa Lo Bianco è della stessa idea di Ingroia. “Al di là dell’esito della Cassazione, il processo ha avuto il merito di aver portato a galla questa storia indicibile di patti a ricatti commessi sotto traccia. Perché se per comprendere a pieno il percorso argomentativo dei Supremi giudici bisogna attendere le motivazioni della sentenza, bisogna dire che una sentenza con la formula di 'non aver commesso il fatto' non annulla i fatti oggetto del processo che sono fatti che nessun prestigiatore della verità può ignorare”. “Ho seguito il processo fin dalla prima udienza - ha raccontato - e posso dire che in quelle carte tra la memoria a orologeria di alcuni politici di primo piano, la gestione della repressione carceraria all’indomani delle stragi e gli incomprensibili défaillance investigative di un reparto di eccellenza come il Ros dei carabinieri e numerosi altri episodi di cui le carte sono piene non sono mai stati chiariti, c’è un pezzo della storia occulta di questo Paese venuta a galla per la prima volta in modo organico riproducendo uno schema che si è ripetuto più volte nella storia Repubblicana da Portella della Ginestra, che fu la madre di tutti gli accordi con la criminalità stipulati in questo Paese con finalità politica: cioè destabilizzare per stabilizzare”, ha concluso.
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Lo scoop sul maresciallo Lombardo
Nel corso del suo intervento, inoltre, Lo Bianco ha annunciato che i legali della famiglia del Maresciallo Antonino Lombardo, trovato morto nella sua auto in un’auto parcheggiata dentro la caserma Monsignore a Palermo nel 1995, consegneranno a giorni un dossier in Procura. “I legali della famiglia Lombardo che hanno già ottenuto la riapertura delle indagini per omicidio indicano come movente del delitto i segreti della strage di via d’Amelio che il maresciallo avrebbe appreso dal pentito Cancemi nella settimana che precedette la sua morte trascorsa insieme tra Roma e Milano”, ha spiegato Lo Bianco aggiungendo che martedì uscirà su Il Fatto Quotidiano un articolo dedicato. “Si tratta di una tesi ancora tutta da verificare ma che se confermata aprirebbe nuovi scenari che ricondurrebbero ancora una volta a via d’Amelio, che è la madre di tutti i depistaggi e la madre di tutte le trattative”.
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Sonia Bongiovanni nelle vesti di Falcone
L’evento si è concluso con l’arte del collettivo Our Voice. La direttrice artistica Sonia Bongiovanni, accompagnata dalla chitarra della cantautrice e musicista del movimento Chiara Bruno, ha interpretato due testi. Uno è l’editoriale di Saverio Lodato sulle parole del presidente Sergio Mattarella riguardo alla giornata dedicata alla memoria delle vittime del terrorismo. L’altro è un testo liberamente ispirato dalle parole di Giovanni Falcone di cui domani si ricorda il 31° anniversario dell’uccisione. “No, non tutto è perduto, trentuno anni dopo”, ha letto l’attrice.
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“A questa città vorrei ricordare poche cose: che gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini. E che la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Perché? Non lo avete capito? Sono un profondo amante della giustizia”.
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