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Carabinieri assolti per “non aver commesso il fatto”. Boss prescritti dall'accusa di “tentata minaccia”. Definitiva l'assoluzione di Dell'Utri

E' stata annullata senza rinvio, dalla Cassazione, la sentenza d'appello del processo sulla trattativa Stato-mafia.
Assolti, con la riqualificazione del reato contestato in tentata minaccia, per intervenuta prescrizione i due capimafia, Leoluca Bagarella (cognato di Totò Riina) e Antonino Cinà (il medico del Capo dei capi che aveva fatto da “postino” al papello, cioè la lista delle richieste della mafia allo Stato per fermare le bombe).
Assolti gli alti ufficiali del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni (che a differenza degli altri due non aveva presentato ricorso) “per non aver commesso il fatto”. Una pronuncia di non colpevolezza più ampia rispetto a quella di secondo grado dove furono assolti con la formula perché “il fatto non costituisce reato”.
Assolto definitivamente anche l'ex senatore Marcello Dell'Utri, già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.
I Supremi giudici della sesta sezione penale (presieduta da Giorgio Fidelbo) hanno respinto in ogni parte il ricorso della Procura generale di Palermo. Un vero e proprio colpo di spugna su fatti e ricostruzioni rese possibili in questi oltre dieci anni di inchieste e processi.

Per capire la chiave di lettura che sarà data a quell'interlocuzione che vi fu tra i carabinieri del Ros ed il sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, si dovranno attendere le motivazioni della Sentenza. Intanto, ciò che è certo è che secondo gli ermellini i carabinieri non hanno commesso il fatto loro contestato, ovvero di aver trasmesso la minaccia di Cosa nostra (cioè quella di non fermare le stragi se non vi fosse stato un alleggerimento delle condizioni carcerarie) ai governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.

La riqualificazione del reato per i boss ha fatto scattare la prescrizione delle condanne – rispettivamente a 27 e 12 anni – dei mafiosi.
Per quanto riguarda Dell’Utri, invece, la Corte si è di fatto limitata a confermare l’assoluzione per non aver commesso il fatto, come era stata decisa in secondo grado e che la stessa procura generale chiedeva di confermare.

La storia del processo – La vicenda riguarda la cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, all’epoca delle stragi del 1992 e ’93, in cui gli allora vertici del Ros dei carabinieri erano imputati insieme ai boss mafiosi per violenza e minaccia a un corpo politico dello Stato. L’accusa era di aver trasmesso fino al cuore delle Istituzioni la minaccia di Cosa nostra: un alleggerimento della politica criminale del governo in cambio dello stop alle bombe che insanguinarono l’Italia. All’esame della sesta sezione penale c’era la sentenza di 2.791 pagine emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo, che il 23 settembre 2021 ha ribaltato la decisione di primo grado assolvendo “per non aver commesso il fatto” l’ex senatore Dell’Utri e “perché il fatto non costituisce reato” gli ex generali del Ros dei Carabinieri Mori e Subranni e l’allora capitano De Donno. Rispetto al primo grado erano state confermate solo le condanne al boss corleonese Bagarella (ridotta da 28 a 27 anni) e quella al medico Cinà, che adesso sono stati prescritti.


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Gli avvocati, Basilio Milio e Vittorio Manes, insieme al generale dei carabinieri Mario Mori (al centro)


La posizione della Cassazione
Nelle conclusioni della requisitoria dei Pg Fimiani, Molino ed Epidendio, si sollecitava “l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla minaccia nei confronti dei governi Amato e Ciampi”. Per il pg la sentenza di secondo grado descriveva “la trattativa negli anni ma non fa una precisa ricostruzione della minaccia e di come sia stata rivolta al governo” e lo effettuava solo in modo “congetturale”.
Inoltre si evidenziava che nella sentenza d’Appello i fatti storici non erano dimostrati oltre ogni ragionevole dubbio. Secondo i Pg si “descrive la trattativa negli anni ma non fa una precisa ricostruzione della minaccia e di come sia stata rivolta al governo, e lo fa solo in modo congetturale”. Secondo la requisitoria nella sentenza di secondo grado non si indica “il preciso contenuto delle richieste” rivolte da Cosa nostra a Giovanni Conso, ministro di Grazia e giustizia nei governi Amato e Ciampi: solo conoscendo quel contenuto, argomentano i magistrati, si sarebbero potute fare “valutazioni di merito essenziali per sostenere logicamente le conclusioni sull’integrazione del delitto”, valutazioni “che non risultano effettuate nella sentenza impugnata”.
Per il procuratore generale, quindi, "risulta decisivo stabilire cosa sia stato detto precisamente al ministro (Giovanni Conso, ndr) e in che modo gli sia stato rappresentato: posto che un conto è essere stato messo a conoscenza di una spaccatura all'interno di Cosa nostra che abbia determinato il ministro ad assumere autonomamente una iniziativa del genere (che non configura di per sé la minaccia qualificata nei termini che si sono ampiamente ricostruiti in memoria) nella speranza di interrompere la stagione delle stragi, altro è rappresentare al ministro stesso che 'Cosa Nostra' si era dimostrata disponibile ad interrompere l'azione stragista e di aggressione ad esponenti di spicco della politica e della magistratura italiana in caso di 'segnali di distensione' quali appunto la mancata proroga di un cospicuo numero di provvedimenti ex articolo 41-bis adottati nei confronti di appartenenti alla Mafia)".

Nelle oltre tremila pagine di motivazione, i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Palermo avevano scartato in partenza "l'ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa e confutata l'ipotesi che essi abbiano agito per preservare l'incolumità di questo o quell'esponente politico".
Per questo motivo si ribadiva "che, nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra, che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, e nel sollecitare tale dialogo, furono mossi, piuttosto, da fini solidaristici (la salvaguardia dell'incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale - e fondamentale - dello Stato”.

Alla luce di questa nuova pronuncia della Corte di Cassazione non si può che prender atto che le interlocuzioni tra mafiosi e apparati dello Stato non solo esistono, ma sono legittime. A questa idea distorta che giustifica ogni cosa, magari anche la mancata perquisizione del covo di Riina in via Bernini o il mancato blitz per la cattura di Bernardo Provenzano nelle campagne di Mezzojuso, noi continueremo ad opporre il nostro fermo 'No'. Perché certi fatti appartengono alla storia che va oltre le sentenze.

Foto © Imagoeconomica

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