Presentato a Palermo il libro del figlio del giudice ucciso dalla mafia: “Mi è mancato molto, troppo pochi i giorni trascorsi insieme”
Sono quasi passati 40 anni da quel 29 luglio 1983. I primi raggi del sole avevano già iniziato a scaldare i palazzi di Palermo quando alle 8.05, in via Pipitone, davanti al civico 59, un’auto imbottita di 75kg di tritolo venne fatta saltare in aria. L’esplosione investì e uccise il giudice Rocco Chinnici che stava salendo sulla sua macchina per recarsi in Tribunale. Insieme a lui morirono i suoi agenti di scorta, il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi. A premere il telecomando per azionare l’esplosivo fu Nino Madonia, che eseguì l’ordine di morte impartito dalla Cupola insieme ad altri otto boss. L’ordine, però, in realtà arrivava dai potenti cugini Salvo, esattori di Salemi, sui quali Chinnici stava indagando. Furono loro ad emettere sentenza, come sostennero nel 2000 i giudici di Caltanissetta che, sposando le conclusioni dei pm Nino Di Matteo e Anna Maria Palma, descrissero Ignazio e Nino Salvo come mandanti della strage. Ma sopra i due cugini (per i quali al tempo non si è potuto procedere perché già deceduti), c’era qualcun altro. Si parla, in sentenza, di “referenti romani”, della possibilità, secondo i pentiti e l’accusa, che l’idea di eliminare Chinnici fosse maturata all’interno di ambienti della Dc. Un delitto dallo sfondo politico, dunque, in cui la mafia era diventata il braccio armato di poteri e volontà non meglio chiarite. Di questa idea è anche Giovanni Chinnici, figlio del giudice, che ieri, al Palazzo Branciforte di Palermo, ha presentato il suo nuovo libro “300 giorni di sole” (ed. Mondadori) dedicato alla memoria del padre assassinato.
“Quel processo, come praticamente tutti i processi sulle grandi stragi, è arrivato ad accertare i livelli esecutivi. Quindi si è raggiunta la cupola, il gruppo di governo della mafia. Ci si è fermati al livello mafioso che è stato alla fine l’ambito in cui questi omicidi sono stati decisi”, ha affermato ai nostri microfoni. “Ma c’è sicuramente un livello superiore che li ha ispirati”, ha aggiunto. “Naturalmente poi è complicato e difficile individuare questi livelli, sia per il tempo trascorso, ma anche perché le responsabilità si diluiscono in qualche modo, quindi processualmente è più difficile accertare quelli che sono i livelli superiori”, ha commentato. Secondo Chinnici potrebbe esserci “un’eventuale ispirazione politica di questi fatti gravissimi. Posso ricordare che noi abbiamo oggi i processi per la trattativa Stato-mafia”, ha detto ancora. “Ma Rocco Chinnici alla fine degli anni ’70 e nei primissimi anni ’80 parlava del quarto livello che non era altro che il livello delle istituzioni e dell’alta politica”.
I 7147 giorni di Giovanni
Nel commentare quelli che furono gli accertamenti eseguiti in sede giudiziaria sull’attentato, Giovanni Chinnici ha parlato del suo libro riportando anche quella che fu la vita privata vissuta sotto le braccia salde del giudice Rocco Chinnici. “Un uomo che descriverlo come forte è dire poco”, ha commentato. Giovanni aveva 19 anni e una vita intera davanti quando venne ammazzato il padre. “Troppo pochi”, ha detto con amarezza ai nostri microfoni ripetendo ciò che aveva detto poco prima a una sala gremita di persone. “L’aspetto più importante di questo libro è scritto nella sua prima parola, ‘Settemilacentoquarantasette’, che è il numero dei giorni che ho trascorso accanto a lui dal giorno della mia nascita al giorno della sua uccisione”. “Sono troppo pochi”, ha ribadito. A differenza della sorella Caterina, prima figlia del giudice, Giovanni ha potuto godersi molto meno suo papà.
“Io a differenza dei miei fratelli ho avuto la possibilità di avere papà più tempo assieme a me e di potergli dare quelle soddisfazioni che un genitore si aspetta da una figlia”, ha raccontato l’Europarlamentare intervenendo nel corso della presentazione, accompagnata dal giornalista Felice Cavallaro, il magistrato Antonio Balsamo e la scrittrice Stefania Auci. Caterina Chinnici, quella giornata, una delle trecento giornate di sole di cui ogni anno gode la Sicilia (da qui il titolo del libro), era fuori Palermo. “Ero a Caltanissetta e facevo il pretore là”, ha ricordato. “Quella mattina quella luce si era trasformata in un bagliore di un’esplosione e Giovanni la racconta in maniera molto diretta”, ha affermato l’ex giudice. Difatti, Giovanni e la sorella Elvira si trovavano in casa quel 23 luglio. E furono i primi ad accorrere sul teatro della strage.
“Non ho potuto essere vicina a Elvira e Giovanni. Per me questo è stato il dolore più grande perché non c’ero”, ha ricordato Caterina Chinnici. “Quel dolore però si è trasformato in coraggio e nella voglia di andare avanti nella memoria e conoscere e avere consapevolezza e scegliere di portare avanti lo stesso impegno. Questo mio dolore Giovanni ha saputo colmarlo nelle ultime pagine di questo libro”.
Qui c’è la parte più dolorosa. “E’ stato un flusso completo dalla mia memoria alla tastiera del computer”, ha raccontato Giovanni Chinnici. “Ho deciso di non censurare l’ultimo capitolo, ed è stata una scelta molto difficile. L’ho scritto esattamente per come l’ho ricordato, con questa caratteristica di un’espansione enorme del tempo che sorprende anche me. Cose che sono avvenute in attimi di secondo le ricordo come se avessero una durata infinita”, ha affermato. “A me è mancato molto perché lui era un uomo veramente roccioso e io ero alla ricerca della mia personalità e ci scontravamo sempre. Quindi mi è mancata quella parte serena. Ora sono un uomo adulto e ho l’età che aveva mio padre quando è stato ucciso e mi rendo conto oggi che mi è forse mancata la parte più importante, quella di un rapporto da uomo a uomo”, ha ribadito Giovanni Chinnici. “Quindi ho deciso di raccontare questi 7147 giorni in cui successivamente alla sua uccisione, ho dovuto trovare anche la dimensione del nostro rapporto maturo che oggi è un patrimonio e un faro per la mia vita”.
Foto © ACFB
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