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Dopo la sentenza sul depistaggio continua la mistificazione dei fatti nei giornali di regime

E' uscita la motivazione della sentenza del processo sul depistaggio della strage di via d'Amelio (che vedeva imputati i poliziotti: Mario Bo, l’ispettore Fabrizio Mattei e il sovrintendente Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall’aver agevolato la mafia). Un processo sicuramente da fare, alla luce delle anomalie indiscutibili che ci sono state con la vicenda del falso pentito Scarantino, che si è concluso con l'assoluzione di Ribaudo e la prescrizione per gli altri due funzionari di polizia (la calunnia è stata declassata a semplice dal Tribunale di Caltanissetta, ndr).
Abbiamo sempre sostenuto che quella di via d'Amelio è stata una strage di Stato e oggi più che mai, ad oltre trent'anni da quel delitto, è necessario andare anche oltre questa sentenza che, come ha ricordato Salvatore Borsellino, “enuncia colpe dello Stato ma non indica colpevoli”.
E la ricerca della verità non può essere offuscata da eventuali distrazioni o da “depistaggi nei depistaggi” che mirano a mistificare i fatti, nel tentativo di delegittimare o infangare il lavoro di quei magistrati che più di tutti si sono avvicinati all'individuazione di quei mandanti o concorrenti esterni la cui esistenza non può essere messa più in dubbio.
Ecco, dunque, ciò che è avvenuto con la strage di via d'Amelio secondo il mio punto di vista.
Da inchieste e processi appare ormai evidente che l'eccidio del 19 luglio 1992, in cui morirono Paolo Borsellino ed i cinque agenti di scorta (Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina) sia stato parte non solo di una vendetta personale della mafia, ma di un disegno stragista che andava oltre Cosa nostra.
Le indagini sul delitto hanno visto la partecipazione a vario titolo di vari magistrati nel corso del tempo: Giovanni Tinebra, Fausto Cardella, Francesco Paolo Giordano, Ilda Boccassini, Roberto Saieva, Anna Maria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, Sergio Lari, Domenico Gozzo, Stefano Luciani, Amedeo Bertone, Gabriele Paci.
E il primo punto su cui va sgomberato il campo è che proprio grazie al lungo lavoro compiuto in questi anni si può dire che della strage di via d'Amelio sappiamo molto, ma non ancora tutto. Ed oggi la Procura nissena, diretta da Salvatore De Luca, è impegnata a portare avanti quegli approfondimenti richiesti dalla Gip di Caltanissetta Graziella Luparello di non archiviare l'inchiesta sui mandanti esterni.


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La strage di via d'Amelio © Shobha


Non solo mafia
La verità completa sulla strage potrà essere raggiunta solo quando conosceremo tutti i nomi dei concorrenti esterni che hanno partecipato a quella strage.
Soggetti appartenenti a settori dello Stato deviato, dei servizi segreti, dell'alta finanza e dei poteri occulti; uomini che non solo possono aver sollecitato l'esecuzione dell'attentato ma che possono aver concorso allo stesso con un ruolo di primo piano.
Tra gli elementi che la sentenza nissena giustamente evidenzia come oscura vi è un'intercettazione tra il collaboratore di giustizia Mario Santo Di Matteo e la moglie Francesca Castellese. Un dialogo drammatico tra i due genitori del piccolo Di Matteo, che fu sequestrato ucciso e sciolto nell'acido, da cui si evince che il pentito, molto probabilmente, non ha detto tutto quello che sa sulla strage di via d'Amelio. Perché in quella conversazione si parla in maniera chiara, rispetto all'attentato, di "poliziotti infiltrati"
Un altro collaboratore di giustizia ultra attendibile come Gaspare Spatuzza ha più volte rappresentato la presenza, durante le fasi di imbottitura di esplosivo dell'auto nel garage di via Villasevaglios, di un uomo che non era di Cosa nostra e le sentenze sottolineano proprio questa anomalia.
Ma il sospetto che via d'Amelio sia stata a tutti gli effetti una strage di Stato nasce dagli enormi buchi neri che si sono aperti nelle fasi immediatamente successive all'esplosione a cominciare dalla scomparsa dell'Agenda Rossa del giudice Borsellino.
Come è stato ricordato quell'azione rappresenta il più clamoroso e drammatico fatto perché è evidente che non furono uomini di Cosa nostra a sottrarla dalla borsa del giudice e, a tutti gli effetti, è il primo atto del depistaggio che è stato condotto.
Noi, cercando di fare la nostra parte, da cittadini, siamo stati testimoni diretti, per quanto riguarda il ritrovamento dell’immagine dell'allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli con in mano la borsa del giudice.
E in merito il nostro vice-direttore, Lorenzo Baldo, ha anche testimoniato nel quarto processo sulla strage.
Successivamente furono recuperate le immagini televisive dove viene ritratto Arcangioli (indagato e prosciolto dall'accusa del furto dell'agenda), per nulla in stato di shock, mentre, attorno alle 17.30, si allontana velocemente dall'auto della vittima con in mano la valigetta di cuoio in direzione di via Autonomia Siciliana. E vi sono anche altri video dove appare l’allora capitano dei carabinieri a colloquio con altre persone.
Una vicenda su cui vanno chiariti moltissimi aspetti.
E che dire dell'anomala richiesta del Procuratore capo Tinebra fatta a Contrada affinché il Sisde indagasse sull'attentato di via d'Amelio?
Un'attività che nelle motivazioni della sentenza Borsellino quater viene definita dai giudici della Corte d'Assise come "decisamente irrituale" in quanto non permessa dalla normativa vigente all'epoca, che viene analizzata anche nell'ultima sentenza.
Solo anni dopo alcuni magistrati come Francesco Paolo Giordano e Carmelo Petralia hanno parlato di incontri con Contrada, il secondo addirittura facendo riferimento ad un pranzo all'Hotel San Michele di Caltanissetta (in cui parteciparono altri magistrati e funzionari del Sisde). Tutto ciò avveniva mentre a Palermo già era stata avviata l'attività investigativa nei confronti di Contrada dopo che Gaspare Mutolo ha fatto il suo nome ai magistrati, tanto che verrà poi arrestato nel dicembre 1992.


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L'allora capitano dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, con in mano la borsa del magistrato Borsellino


E' emersa dalle carte l'esistenza di due note che lo stesso Servizio segreto civile diffuse proprio nelle prime fasi delle indagini, una delle quali offriva proprio degli elementi su Scarantino e le sue parentele mafiose.
Una di queste note è quella del 13 agosto 1992 dove il Centro Sisde di Palermo comunicava alla Direzione di Roma di aver appreso, “in sede di contatti informali” con gli inquirenti impegnati nelle indagini sulla strage, che la Polizia di Stato allora aveva acquisito “significativi elementi informativi in merito all’autobomba parcheggiata in via d’Amelio” e che già emergevano “valide indicazioni per l’identificazione degli autori del furto dell’auto in questione, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”.
Chi era la fonte? E come facevano i Servizi a sapere questi elementi? Nessuno ha saputo dare spiegazioni precise.
Coincidenza vuole che l'allora capo della Squadra mobile, Arnaldo La Barbera, aveva già intrattenuto un rapporto di collaborazione “esterna” con il Sisde (dal 1986 al marzo 1988), con il nome in codice “Rutilius”, mentre dirigeva la Squadra Mobile di Venezia. I magistrati non potevano sapere di questo tipo di rapporto e a lui si erano affidati nelle indagini.
Il dato rende comunque evidente che nelle prime fasi delle indagini sulla strage, quelle più importanti, uomini dei servizi, o ad essi vicini, in qualche modo erano protagonisti.
Al di là di ogni considerazione è amaro constatare come sia stato possibile che due traditori dello Stato come La Barbera (accusato da alcuni collaboratori di giustizia di essere a libro paga dei Madonia) e Contrada (già condannato per concorso esterno, anche se la sentenza è stata ritenuta priva di effetti penali dopo la sentenza della Cedu) siano stati in qualche maniera coinvolti nelle attività di indagine tanto delicata.

Il pupo vestito
Si arriva così alla vestizione del “pupo” Vincenzo Scarantino. Fu “indotto a mentire”, certificano le sentenze, sul suo ruolo e quello di altri. Le sue dichiarazioni fecero condannare all'ergastolo nove innocenti, poi scagionati.
C'è un “ma”, che non può essere dimenticato. Perché il falso, come cantava il cantautore italiano Giorgio Gaber, è assai più oscuro quando è mescolato assieme ad un po' di vero. E di verità il racconto di Scarantino ne conteneva diverse.


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Vincenzo Scarantino


Il picciotto della Guadagna aveva dichiarato agli inquirenti che il mezzo era stato ricoverato per essere imbottito di esplosivo nella autocarrozzeria di tale Giuseppe Orofino. Al Borsellino (uno) Orofino, che aveva denunciato la sparizione delle targhe solo lunedì 20 luglio, era accusato di essersi procurato la disponibilità di queste e dei documenti di circolazione e assicurativi falsi che furono apposti sulla 126 per consentirne la sicura circolazione e la collocazione sul luogo della strage. Sarà il pentito di Brancaccio Gaspare Spatuzza, diversi anni dopo, a spiegare che in quell'officina andarono veramente a rubare le targhe di macchine che erano in riparazione e che tra queste vi era quella usata per metterla nella macchina dell'autobomba.
Le dichiarazioni tra Spatuzza ed i falsi pentiti di via d'Amelio erano coincidenti anche sulle modalità del furto dell'auto.
Lo stesso si può dire per quelle accuse fatte da Scarantino contro esponenti della famiglia di Brancaccio, come i fratelli Graviano, Renzino Tinnirello, Fifetto Cannella e Francesco Tagliavia, che saranno tirati in ballo anche da Spatuzza.
Ci sono stati magistrati che hanno dichiarato di aver sempre nutrito dubbi nei confronti di Scarantino, sin dal primo interrogatorio del 24 giugno 1994.
Parliamo di Ilda Boccassini che autorizzò diversi colloqui investigativi in carcere, post avvio della collaborazione, tra Scarantino e gli uomini del Gruppo Falcone-Borsellino, così come avvenne per Francesco Andriotta (l'altro falso pentito con cui furono autorizzati sempre colloqui post scelta collaborativa anche dall'altro magistrato, Petralia).
La Boccassini è divenuta famosa nel momento in cui, nell'ottobre 1994, mandò una lettera scritta e spedita alle Procure di Palermo e Caltanissetta con il collega Roberto Saieva in cui venivano avvisate le Procure di Caltanissetta e Palermo sui dubbi che riguardavano l'allora "picciotto della Guadagna”.


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L'ex procuratore capo della procura di Caltanissetta, Giovanni Tinebra © Imagoeconomica


C'era stato infatti il famoso interrogatorio del 6 settembre 1994, durante il quale Vincenzo Scarantino chiamò in causa i tre importanti collaboratori di giustizia Mario Santo Di Matteo, Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera.
La Boccassini, nei processi, ha anche sostenuto di aver nutrito dubbi sin dal primo momento su Scarantino, ovvero da primo interrogatorio del 24 giugno 1994, avvenuto nel carcere di Pianosa.
Peccato che il 19 luglio del 1994 proprio lei, assieme al procuratore capo Giovanni Tinebra, condusse la conferenza stampa relativa all’arresto degli indagati nel procedimento “Borsellino Bis”. E in quella occasione tanto le sue parole, quanto quelle di Tinebra, non lasciavano molti spazi a dubbi sull’attendibilità di Vincenzo Scarantino. “I collaboratori di giustizia sono una realtà essenziale per il paese - aveva affermato la Boccassini - Lo ha dimostrato ancora una volta l’indagine sulla morte di Paolo Borsellino. Ma è arrivata, lo ripeto, questo concetto va ripetuto fino alla noia, perché vi erano già delle indagini che hanno consentito di valutare appieno quello che Scarantino Vincenzo ci diceva".
Parole che dimostrano proprio come sia stata lei il primo magistrato ad essere sviata e ad aver esaltato la figura di Scarantino, portandolo alle stelle.
L'altro pm che aveva esternato dubbi, Saieva, tempo dopo tornò ad occuparsi della strage di via d'Amelio, rappresentando l'accusa nel processo d'appello "Borsellino uno" dove, pur esprimendo "un giudizio di larga inattendibilità di Scarantino", per quanto concerne la posizione di Profeta chiese comunque la condanna.

Di Matteo nel mirino
Insomma la questione Scarantino non è affatto semplice fermo restando che le criticità che lo hanno riguardato non si possono negare. Ed è normale che dopo trent'anni di buchi neri la ricerca della verità sia fortemente pretesa dai familiari vittime di mafia, che per la furia del sistema criminale hanno pagato il prezzo più alto con la perdita di un proprio caro.
Ma non è accettabile che la ricerca della verità sia accompagnata dalla mistificazione dei fatti o dall'omissione di alcuni elementi.
Chi ha preso parte al depistaggio ha certamente collaborato con quei sistemi criminali e quei mandanti esterni che hanno voluto la morte di Paolo Borsellino.
Eppure certe accuse sono giunte anche da alcuni familiari del giudice.
Per questo diventa importante, quanto necessario, analizzare ogni passaggio ed effettuare dei distinguo sull'operato dei vari magistrati e giudici che si sono occupati della strage di via d'Amelio.


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Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo © Imagoeconomica


A partire dal novembre 1994 nel pool che indagava sull'attentato entrò un giovane magistrato, Antonino Di Matteo, affiancando nelle fasi conclusive, in maniera marginale, i pm Annamaria Palma e Carmelo Petralia nelle indagini che hanno poi portato al processo cosiddetto “Borsellino bis”.
Diversamente istruì in toto le indagini sul “Borsellino ter” che portarono alla condanna di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale (con condanne di uomini di primo piano come Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Salvatore Biondo, classe '55, Domenico Ganci e Salvatore Biondo classe '56, Salvatore Buscemi, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè, Benedetto “Nitto” Santapaola e Giuseppe “Piddu” Madonia, ed altri), tracciando il percorso delle indagini sui cosiddetti mandanti esterni.
Un processo, il ter, che, diversamente dai primi due processi su via d'Amelio non è mai stato oggetto di revisione.
Eppure viene continuamente accusato da certi giornaloni di regime (vedi il Foglio, il Riformista, il Dubbio, il Giornale e così via), da avvocati e purtroppo anche da familiari delle vittime, nonostante sulla sua persona non è neanche stato aperto un fascicolo di indagine dalla competente Procura di Messina.
Il Gip per i due magistrati Carmelo Petralia ed Anna Maria Palma, che erano stati indagati con l’accusa di calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra, archiviò l'indagine ritenendo “insussistenti gli elementi probatori certi e univoci tali da consentire la sostenibilità in un eventuale futuro dibattimento dell'accusa di calunnia a carico degli indagati”.
Tra le accuse a lui rivolte più volte quella del mancato deposito dei verbali di confronto tra Scarantino ed i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera, in cui il picciotto della Guadagna fu completamente sbugiardato.


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Il sostituto procuratore nazionale antimafia, Nino Di Matteo © Deb Photo


Già in altre occasioni abbiamo ricordato come quel deposito fu effettuato nel Borsellino bis nei tempi di legge (il 25 febbraio 1998 il Gip di Catania aveva definitivamente archiviato l’inchiesta aperta contro i sostituti procuratori di Caltanissetta, Di Matteo, Palma e Petralia, dopo la prima denuncia degli stessi avvocati Di Gregorio, Marasà e Scozzola, in quanto quell'azione di deposito posticipato fu giudicato priva di alcun “comportamento omissivo”).
Inoltre, come ha ricordato lo stesso Di Matteo in più sedi, al tempo quegli stessi collaboratori che "sbugiardavano" Scarantino non stavano dicendo tutta la verità sulle stragi, per cui il deposito fu posticipato per non intaccare le indagini che erano in corso.
E certamente non si può imputare a Di Matteo se quegli atti non furono acquisiti nel processo Borsellino uno.
Altro aspetto che non viene mai ricordato è che nel Borsellino bis, proprio perché le propalazioni di Scarantino non erano ritenute attendibili in toto, proprio i pm Nino Di Matteo e Anna Maria Palma, chiesero ed ottennero le assoluzioni per il delitto di concorso in strage per alcuni degli ingiustamente condannati. Basta ricordare Giuseppe Calascibetta, Gaetano Murana e Antonino Gambino. Soggetti poi condannati in successivi gradi di giudizio. Diversamente si preferisce solo evidenziare che fu chiesta la condanna nei confronti di Vernengo, di La Mattina e di Gaetano Scotto oltre che di Natale Gambino.

La ricerca della verità sui mandanti esterni
Nel frattempo quel giovane magistrato avviò un'inchiesta a 360 gradi per svelare quelle verità che fino a quel momento indagini precedenti non avevano ancora raggiunto. Dopo aver riaperto l'inchiesta sulla possibile presenza di Bruno Contrada in via d'Amelio sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Elmo. Rivedendo le carte del vecchio fascicolo, che nel 1992 fu aperto sul numero tre del Sisde, Di Matteo si accorse di un atto in cui si parlava di un ufficiale del Ros, Umberto Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l'esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. Lo stesso raccontava di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio e che poi sarebbe stata strappata in Questura. Tutti elementi che, mise a verbale davanti alla Boccassini, avrebbe saputo da un suo amico carissimo, e non un confidente, di cui voleva tutelare l'identità.
Di Matteo interrogò Sinico, il quale rimase fermo sul punto. Poi, però, come raccontato dallo stesso magistrato nella sua testimonianza nel processo sul depistaggio, l'ufficiale del Ros tornò in Procura prima che si potesse chiedere un suo rinvio a giudizio e depositò una memoria della quale avrebbe parlato con il colonnello Mori, facendo il nome di quella che, a suo dire, era la sua fonte: il funzionario di polizia Roberto Di Legami.


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Roberto Di Legami, direttore Polizia Postale © Imagoeconomica


Venne disposto un confronto che fu anche drammatico con Di Legami che negò la vicenda e di aver mai fatto riferimento a Contrada.
Sinico disse anche che assieme a lui era presente anche un altro militare, Raffaele Del Sole (al tempo in forza al Ros). Per questo motivo, fu anche rinviato a giudizio perché a quel punto c'erano più militari che indicavano il medesimo soggetto. Ne scaturì anche un processo che poi vide l'assoluzione di Di Legami. Ma su quella vicenda restano diversi dubbi. Perché se a mentire non è stato Di Legami ne consegue che a dire il falso sarebbero stati i due militari del Ros. A che scopo? Perché fu messo in piedi quel tentativo di porre l'attenzione su Bruno Contrada ed il Sisde? Forse per allontanare ogni attenzione da eventuali altre responsabilità?
Solo anni dopo è emersa la foto dell'allora capitano Arcangioli con in mano la borsa di Borsellino. Possibile che già allora si temesse che potevano emergere prove in quella direzione?
Elementi che meriterebbero di essere approfonditi.
Così come si devono approfondire quegli elementi che riguardano i cosiddetti mandanti esterni.
Un “vaso di Pandora” che riguarda la strage che fu aperto per la prima volta proprio nel Borsellino ter.
In questo processo, che vide protagonista Di Matteo ed in maniera più marginale Anna Maria Palma, con la deposizione del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca emerse lo sviluppo, in quei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via d'Amelio, della cosiddetta trattativa Stato-Mafia, (la cui esistenza è confermata anche nella sentenza d'appello di Palermo, nonostante l'assoluzione dei soggetti istituzionali). Nelle motivazioni della sentenza si parla delle piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via d'Amelio e la trattativa Ciancimino-Ros dei Carabinieri.
Ed è sempre nel Borsellino Ter che venne fatto riferimento (così come raccontato dall'ex boss della Commissione provinciale Totò Cancemi) al dato per cui Riina citava Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri come soggetti da appoggiare “ora e in futuro di più”, e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga “un bene per tutta Cosa Nostra”.
Ed era sempre stato Cancemi, parlando delle “entità esterne” dietro Cosa nostra nelle stragi ad affermare che “Riina è stato ‘preso per la manina’ in questa strategia”.
Sulla scorta di quelle dichiarazioni Di Matteo, assieme al collega Luca Tescaroli, negli anni successivi proseguì la ricerca della verità sui mandanti esterni nelle stragi con le indagini su “Alfa e Beta” (ovvero Berlusconi e Dell’Utri).
In pochi ricordano che nell'inchiesta nei confronti dell'ex senatore e l'ex premier Di Matteo e Tescaroli furono lasciati soli con uno scollamento di fatto con il resto della procura di Caltanissetta.
Da qualche tempo si cerca di insinuare che Di Matteo abbia cercato di stoppare il contributo dichiarativo di Spatuzza rispetto la strage di via d'Amelio riferendosi ad alcune affermazioni espresse nella riunione del 22 aprile 2009 davanti la Direzione nazionale antimafia.
A quell'incontro erano stati convocati i magistrati delle Procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo  per una prima valutazione su quella collaborazione e per esprimere un parere sull’inserimento di Spatuzza nel programma di protezione.
Di Matteo intervenne in maniera dura e critica anche perché ci si misurava con sentenze che comunque erano definitive ed è ovvio che l'approccio degli organi inquirenti potesse essere di cautela.


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Il procuratore aggiunto di Firenze, Luca Tescaroli © Imagoeconomica


Successivamente, nel 2010, proprio Di Matteo si espose in più sedi per difendere e promuovere il programma di protezione e l'attendibilità di Spatuzza, nel momento in cui la Commissione centrale del Viminale per la definizione e applicazione delle misure speciali di protezione, allora presieduta da Alfredo Mantovano, non stava ammettendo Spatuzza nel programma di protezione definitivo.
Inoltre a Palermo, con il processo Trattativa Stato-mafia, valorizzò le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, sull'incontro che ebbe a Roma con il boss Giuseppe Graviano al bar Doney in cui si fece riferimento a Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri come i soggetti grazie a cui Cosa nostra si era messa “il Paese nelle mani”.
Quegli stessi soggetti che dal 2017, dopo le intercettazioni in carcere tra Giuseppe Graviano e il compagno d'ora d'aria Umberto Adinolfi, sono stati nuovamente iscritti nel registro degli indagati dalla procura di Firenze per concorso nelle stragi del 1993 dopo le archiviazioni del 2011.
Alla luce di tutti questi fatti è evidente che Di Matteo, che non ha nulla a che vedere con il depistaggio, è il magistrato i cui spunti investigativi possono essere di grande rilievo per le nuove inchieste.
Come ha scritto Saverio Lodato in questo giornale in merito al depistaggio è evidente che “Stato non mangia Stato” e non si vuole andare fino in fondo.
E quando vi sono magistrati come Nino Di Matteo che cercano, si avvicinano o addirittura trovano la verità, immediatamente ecco che quei magistrati vengono condannati a morte da quella “mafia presunta” che si vuole vendicare ma che in realtà viene eterodiretta, come fu per Paolo Borsellino.
Perché noi non dimentichiamo che per quel suo “spingersi oltre” Di Matteo, come rivelato dal collaboratore di giustizia Vito Galatolo, è stato condannato a morte da Matteo Messina Denaro a fine 2012, per conto di "amici romani". Una condanna a morte ancor più spinta dalle parole del capo dei capi Totò Riina che direttamente dal carcere, nel 2013, chiedeva di fargli fare “la fine del tonno”.
E se non arrivano le bombe ecco che nuove delegittimazioni, infamanti accuse e denigrazioni sono pronte all'uso. Tutto per impedire che magistrati come Nino Di Matteo indaghino su stragi, sistemi criminali e trattative Stato-mafia. E le “menti raffinatissime”, beffarde, sorridono.

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