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Vi è un quadro molto più ampio che va al di là della controversa vicenda sulla presunta fotografia che dovrebbe ritrarre l'ex premier Silvio Berlusconi con il boss stragista Giuseppe Graviano e l'ex generale dell'Arma Francesco Delfino.
Un quadro che viene delineato nelle duecento pagine di un’informativa della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria che finì agli atti del processo ‘Ndrangheta stragista, da poco terminato in secondo grado con la conferma integrale delle condanne per gli imputati.
In seguito all’informativa inviata dal commissario Michelangelo Di Stefano, dal vice questore Beniamino Fazio e dal capo centro Teodosio Marmo al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo furono sviluppati alcuni accertamenti partendo dalla figura di Salvatore Baiardo.

“Da vecchi fascicoli non indicizzati delle tante attività della Dia è stata rinvenuta un’informativa del Centro Operativo di Firenze, indirizzata al compianto dottor Chelazzi, avente ad oggetto stragi di Firenze, Roma e Milano e riguardante l’analisi dei movimenti di Giuseppe e Filippo Graviano”, scrivevano gli inquirenti. Non solo. Si definisce l'informativa di Messina, risalente al 26 febbraio del 1997, “di portata eccezionale, alla luce delle nuove risultanze sulle mancate attenzioni istituzionali sulla figura di Baiardo e che, con il senno del dopo, conferisce alle dichiarazioni confidenziali di questi - che il dr. Messina, nella recente deposizione, ha ritenuto doveroso non cautelare ex art. 203 cpp - comprovata attendibilità e riscontro, atteso che dall’analisi dei metadati del telefono cellulare del Baiardo è stato possibile ricostruire i movimenti dei fratelli Graviano nell’anno 1993, così confermando entità e consistenza dei rapporti con il gelataio di Omegna”.

E’ dunque emerso che nell’estate del 1993 i fratelli Graviano erano in vacanza in Sardegna “a un tiro di schioppo” dalla villa dell’ex Premier Silvio Berlusconi.
Rispetto alla latitanza in Nord Italia, ha ricordato in aula sempre Di Stefano che in quella stessa zona del lago d’Orta vivevano proprio i fratelli Graviano, accompagnati da Salvatore Baiardo, Balduccio Di Maggio, e il generale Francesco Delfino, proprio l’uomo che arresterà lo stesso Di Maggio e che fu implicato negli anni al centro di indagini di primo piano e qualche volta anche come indagato ma sempre prosciolto.
Nel curriculum di Delfino vi è anche l’esperienza come unico agente segreto italiano a Londra, subito dopo la morte di Roberto Calvi nel 1982. Dieci anni dopo andò a comandare i carabinieri in Piemonte, dove possiede una splendida villa a Meina, sul Lago Maggiore, circa a una ventina di chilometri dalla gelateria di Baiardo a Omegna.

Ad appena 15 chilometri, invece, c’è Borgomanero, dove aveva trovato riparo Baldassare Di Maggio, fuggito dalla Sicilia per evitare di farsi ammazzare da Giovanni Brusca.
Di Maggio è uomo d'onore della famiglia di San Giuseppe Jato, ex autista di Totò Riina. È lui che ha dato la “battuta”, l'informazione per prendere il capo di Cosa nostra. Pochi lo conoscono, ma uno di questi è sicuramente il generale Delfino che era entrato in contatto con lui – prima di transitare nei ranghi del Sismi, il servizio segreto militare – quando era vicecomandante dei carabinieri della Sicilia occidentale. Balduccio, ufficialmente l'8 gennaio 1993, venne arrestato dai Carabinieri in un'officina di Borgomanero, in provincia di Novara, allertati da una soffiata su un traffico di stupefacenti.

Di Maggio vorrà successivamente avere un incontro con il generale Delfino e a lui raccontò come arrivare a Riina.
Il verbale si apre così: “A richiesta dell'interessato che ha voluto riferire ai sottoscritti urgentemente notizie che gli sono venute alla mente e che ritiene che sono della massima importanza”.
Fatto singolare dal momento che nell'estate del 1992, dopo l'attentato di Capaci, Delfino aveva confidato al ministro della Giustizia Claudio Martelli: “Per Natale avrà un bel regalo”, riferendosi alla cattura di Totò Riina.
Il resto dei fatti è noto: dopo l’arresto Di Maggio venne portato a Palermo, dove il 15 gennaio – poco dopo Natale – finirono i 25 anni di latitanza del capo dei capi.

È qui fa la sua comparsa il primo vero grande mistero della vicenda: a giungo del 2017 Giuseppe Graviano, intercettato in carcere mentre parla con la “dama di compagnia” Umberto Adinolfi, boss camorrista, disse: “Ero latitante a Omegna, ci ho fatto quattro anni di latitanza. Una mattina la persona che mi ospitava (Salvatore Baiardo ndr) mi dice: questa notte hanno arrestato Balduccio Di Maggio e subito ha iniziato a collaborare...allora che succede...minchia...io subito gliel’ho fatto sapere...”. Però le cose andarono diversamente. In un primo momento Graviano gli ordinò: “Domani devi partire per Palermo e avvisare lo zio Totò”. Ma il giorno dopo, il boss non lo fece più partire. Per quale motivo? E come mai pure Graviano rimase a Omegna, nonostante all’epoca fosse latitante? Ai pm che gliel’hanno chiesto, aveva risposto così: “Avevo una copertura favolosa”.

Che sulle rive del lago d’Orta possano esserci i segreti delle stragi sembrava averlo intuito anche Gabriele Chelazzi, il pm di Firenze che indagava sulle stragi prima di morire d’infarto nel 2003.  Il 24 aprile del ’97 il magistrato, come riportato da Giuseppe Pipitone sul 'Fatto' stava interrogando Di Maggio ed era particolarmente interessato al periodo trascorso dal pentito nel Nord Italia: gli aveva spiegato di avere saputo da Brusca che i Graviano sapevano della sua presenza in Piemonte, lo avevano saputo da un tale “di origine palermitana, che faceva il gelataio lì, a pochi chilometri da Borgomanero”. Poi il pm era tornato a chiedere a Di Maggio (lo aveva già fatto due anni prima) se aveva conosciuto un tale che si chiamava Baiardo. 'Mai sentito, mai conosciuto', aveva risposto il pentito. Chelazzi ne prese atto, ma aveva sottolineato come molte delle persone citate nel verbale abitavano "a Novara e provincia, quindi si continua a girare intorno alla Regione, a quel territorio".

Un territorio molto piccolo per così tanta gente.

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