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Parla la sorella dell'appuntato dei Carabinieri assassinato nella strage di via Scobar assieme ai colleghi D'Aleo e Morici

Mio fratello è stato assassinato 40 anni fa per ordine dei corleonesi. All’inizio dissero che era stato ucciso 'per un caso' ma non era così. Adesso chiediamo di riaprire le indagini perché mancano ancora dei pezzi di verità”. A parlare è Francesca Bommarito (in foto), sorella dell'appuntato dei Carabinieri Giuseppe, ucciso il 13 giugno del 1983 nella strage di via Scobar a Palermo, insieme al collega Pietro Morici e al capitano Mario D’Aleo, intervistata da Simone Bauducco per Il Fatto Quotidiano. Anche lei era presente ieri in piazza Duomo a Milano in occasione della Giornata Nazionale della Memoria in ricordo delle vittime innocenti delle mafie organizzata da Libera. E, come molti familiari, Francesca ha sottolineato come, nonostante siano passati 40 anni dalla strage di via Scobar, lei sta ancora attendendo che su quel triplice omicidio sia fatta piena luce. "Vorrei che si riaprissero le indagini per capire quali sono state le collusioni e i tradimenti in quel periodo, che poi hanno portato alla strage di via Scobar", ha detto Francesca Bommarito.

Per spronare la riapertura delle indagini ha scritto un libro - "Albicocche e sangue" (ed. Iod) - che ha più volte definito ai nostri microfoni come un “diario del dolore”. Un lavoro investigativo minuzioso e dettagliato arricchito dalla prefazione del sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo il quale ha definito Giuseppe Bommarito come “un umile appuntato dei carabinieri che con la sua tenacia, il suo fiuto investigativo, la sua capacità di conoscere e controllare il territorio aveva intuito l’importanza di Monreale nello scacchiere complessivo di Cosa Nostra”.

Segue la prefazione completa del libro e la lettura interpretata dalla giovane attrice Sonia Bongiovanni, fondatrice del Movimento Our Voice.




Presentato a Palermo ''Albicocche e sangue'': la storia della strage mafiosa di via Scobar



Assieme all’autrice Francesca Bommarito ospiti anche Leonardo Guarnotta e l’attrice Sonia Bongiovanni che ha letto la prefazione di Nino Di Matteo

di AMDuemila - 07 Ottobre 2022

Un parco maestoso, un centinaio di giovani studenti e un libro scritto da una sorella ancora in cerca di verità e giustizia per il fratello ucciso dalla mafia nel lontano 1983. È questo l’humus che ha caratterizzato la prima presentazione a Palermo del libro “Albicocche e sangue” (Ed. Iod) di Francesca Bommarito celebrata stamane presso il parco di Villa Trabia. Un luogo incantevole, immerso nel verde, isolato dal frastuono della città, che ha accolto alcune classi di scuole superiori di secondo grado per ascoltare la testimonianza dell’autrice e dell’ex magistrato e membro del pool antimafia di Palermo Leonardo Guarnotta. A moderare il dibattito fra i due è stato Jamil El Sadi, giovane redattore di ANTIMAFIADuemila. A fare da cornice alla presentazione è stata l’arte teatrale degli studenti del Liceo Scientifico Statale "Ernesto Basile" di Palermo - che hanno messo in scena “Il Coraggio di Essere Liberi" a cura di Serafina Moncada (responsabile del progetto "LegalMente”) -, e la lettura della prefazione del libro scritta dal Consigliere togato al Csm Nino Di Matteo e interpretata dalla giovane attrice Sonia Bongiovanni, fondatrice del Movimento Our Voice.


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Una sorella in cerca di verità
Francesca Bommarito
, è la sorella dell’appuntato dei Carabinieri Giuseppe Bommarito, ucciso da Cosa nostra nella strage di via Scobar il 13 giugno 1983 a Palermo assieme al capitano Mario D’Aleo e al carabiniere scelto Pietro Morici. Il volume è un diario inchiesta con il quale l’autrice, oggi psichiatra e psicoterapeuta, ha ricostruito passo dopo passo quel triplice delitto che rientra nella guerra che Cosa nostra dichiarò allo Stato su cui però, per molti anni, è calata una nube densa di silenzio e disinteresse. Per molti, infatti, Giuseppe Bommarito - a differenza dei due colleghi militari - era morto “per caso”, ma per sua sorella no. Per quasi 40 anni ha cercato la verità in lungo e in largo, tra depistaggi e maldicenze. Ripescando carte giudiziarie, intervistando decine di persone - dall’Arma dei Carabinieri ai giornalisti e tanti altri -, indossando i panni di una detective e lottando con ogni mezzo per restituire dignità e rendere giustizia al fratello e alle vite spezzate quel terribile 13 giugno ’83. Una storia che, a distanza di quasi quarant’anni, trova spazio in un libro.


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Attraverso una minuziosa ricostruzione dei fatti, l’autrice ripercorre anni di dolore e ingiustizie, toccando i temi della lontananza dovuta all’emigrazione, dell’amore per la propria terra, del silenzio della società civile fino al suo risveglio, del senso del dovere di tanti carabinieri negli anni delle guerre di mafia. Arrivando alla conclusione che se mai una parte dello Stato è scesa a patti con la mafia, ci sono state persone coraggiose, come suo fratello Giuseppe, che hanno messo a repentaglio la propria vita per difendere questa terra rinunciando a ogni forma di trattativa. “Grazie a questo libro, e soprattutto alle numerose interviste che ho fatto per realizzarlo, ho compreso quanti misteri ci sono ancora dietro ad alcuni fatti di sangue - ha detto stamane Francesca Bommarito rivolgendosi ai rappresentanti dell’Arma presenti fra il pubblico -. C’è bisogno di un pentito di Stato. A partire dall’Arma dei Carabinieri che deve avere il coraggio di dire tutto ciò che sa su queste morti. E lo deve non solo per noi familiari, ma per i giovani a cui dobbiamo dare fiducia e per onorare la memoria di chi ha sacrificato la vita per questo Stato indossando una divisa. Dovete essere degni di indossare questa divisa. Costi quel che costi. Di questo ha bisogno la società, di vedere che voi siete al servizio della comunità”. Rivolgendosi poi ai giovani li ha invitati a “non mollare” e “non lasciarsi travolgere né dalla rabbia né dal dolore, ma di fermarsi, respirare e superare come ho fatto io, come hanno fatto tanti familiari di vittime innocenti delle mafie che vanno avanti per raccogliere la verità”. Ha partecipato all’evento anche Antonella Lorenzi, compagna del capitano D’Aleo, che si è detta "sorella di sangue e di Memoria” di Francesca Bommarito. Il suo primo intervento pubblico dopo quasi 40 anni dalla strage. Tornata a Palermo dall’isola d’Elba, un anno dopo il triplice omicidio, ha voluto continuare il contrasto alla mafia, proprio come D'Aleo, trasmettendo valori di legalità e cultura nelle scuole (per decenni è stata una docente), arricchendone il vocabolario perché, come ha detto la Lorenzi al pubblico, “chi conosce 2000 parole ha più strumenti di chi ne conosce 200”. Ritornare a Palermo, lasciandosi alle spalle la famiglia, era un modo per dare significato, un senso alle altre vittime di via Scobar e al sangue e alle albicocche rinvenute sul luogo della strage che poi hanno ispirato il titolo del libro in questione.


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Leonardo Guarnotta e il seme della legalità
Assieme all’autrice è intervenuto anche l’ex magistrato Leonardo Guarnotta il quale, oltre ad aver puntualizzato - con rammarico - i pericoli che incombono oggi sul fronte della lotta alla mafia viste le recenti elezioni politiche fortemente influenzate da politici condannati per reati di mafia, ha rivolto particolare attenzione ai giovani presenti trasmettendo loro il senso della legalità (guarda il video). “Con il termine legalità ci si può riferire a quel complesso di diritti e doveri, patrimonio inalienabile di ogni cittadino, cioè di ciascuno di noi, che permettano una vita serena a ciascun individuo all’interno di una società - ha spiegato Guarnotta -. Affinché tutto ciò si realizzi è necessario educare anzitutto i giovani, la società del futuro, alla cultura della legalità, il cui recupero passa dalla conoscenza e dall’affermazione di un principio inalienabile e cioè il consapevole esercizio dei propri diritti e del proprio dovere. E sarà proprio la pedissequa pratica quotidiana della cultura della legalità che consentirà ai nostri giovani di essere maestri di sé stessi, di essere padroni del proprio destino e di poter sentire il fresco profumo della libertà che ‘rifiuta l’olezzo dell’indifferenza, del compromesso, della contiguità e quindi della complicità’ per ricordare una delle più belle frasi di Paolo Borsellino. E tutto ciò avverrà se le nuove generazioni saranno capaci di fare ogni giorno il loro dovere, nonostante gli ostacoli, le avversità, le incomprensioni che inevitabilmente incontreranno nel loro cammino. E soprattutto se saranno in grado di farlo fino in fondo secondo l’insegnamento di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il cui patrimonio ideale e culturale è pregno di valori fondanti, fondamentali, non negoziabili dei quali voi giovani vogliate essere portatori e interpreti nel vostro percorso formativo”. “A voi giovani va il mio affettuoso abbraccio - ha concluso Leonardo Guarnotta -, augurandovi un lungo cammino e soprattutto buona fortuna”.

Foto © Our Voice



 

Storia dell'appuntato Bommarito, ucciso perché aveva intuito complicità tra mafia e politica

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Prefazione tratta dal libro “Albicocche e sangue” di Francesca Bommarito

di Nino Di Matteo - 30 Luglio 2022

Il 13 giugno del 1983, in via Scobar, tra i palazzoni senz’anima del sacco edilizio di Palermo, venivano uccisi tre carabinieri, il capitano D’Aleo, l’appuntato Bommarito e il carabiniere scelto Morici. L’ennesimo efferato delitto in quella Palermo infuocata e disperata dei primi anni Ottanta quando, sotto il piombo della mafia e di chi ne armava la mano, cadevano uno dietro l’altro servitori dello Stato che avevano soltanto la colpa di voler fare il loro dovere. Un triplice omicidio per certi versi dimenticato. Soffocato, quasi schiacciato nell’immaginario collettivo dal clamore di altri delitti che lo precedettero e lo seguirono di poco. Il 3 settembre del 1982 era stato ucciso il Generale dalla Chiesa. Dopo poco più di 40 giorni dall'agguato di via Scobar, il 29 luglio del 1983, in via Pipitone Federico nel centro residenziale di Palermo, si sarebbe scatenato l’inferno con il primo attentato nei confronti di un magistrato, il dottor Chinnici, realizzato con il sistema dell'auto bomba piazzata sotto l'abitazione. Le prime pagine dei giornali nazionali titolavano, “Palermo come Beirut”.  Forse anche per questo, forse perché ci si stava abituando a tutto, forse perché l'opinione pubblica nazionale, da sempre distratta, scopriva poco alla volta la pericolosità di “Cosa nostra” solo quando uccideva personaggi “eccellenti”, la feroce esecuzione di D’Aleo, Morici e Bommarito passò quasi inosservata. I soliti funerali di Stato, la solita finta indignazione delle autorità, la disperazione dei parenti delle vittime, la partecipazione del Capo dello Stato Pertini alle esequie. Poi, subito dopo, l'oblio. Ed invece questo libro scritto da Francesca Bommarito, la sorella dell'appuntato Bommarito, contribuisce non solo a rendere onore alle vittime di quel vile agguato ma anche ad inquadrarlo finalmente in un preciso disegno strategico della mafia corleonese e dei suoi vertici di allora, primi tra tutti Salvatore Riina e Bernardo Brusca. Un altro grande merito dobbiamo riconoscere al paziente lavoro di ricostruzione della dottoressa Bommarito: quello di chiarire ad un’opinione pubblica solo sommariamente informata sull'esito dei processi che si sono celebrati, che l'appuntato Bommarito non morì “per caso” solo perché in quel momento accompagnava il suo capitano, ma perché così vollero i mandanti dell'agguato. Quei mafiosi avevano un interesse specifico ad uccidere il capitano all'epoca comandante della compagnia di Monreale, ma anche ad eliminare l'appuntato Bommarito; un valoroso carabiniere che aveva dimostrato di sapere alimentare le indagini antimafia più delicate con le notizie confidenziali acquisite sul territorio e con la certosina attività di verifica. Il giorno dopo la strage di via Scobar Leonardo Sciascia, che di mafia se ne intendeva e che la mafia aveva descritto nei suoi romanzi nelle sfaccettature più diverse, in una intervista pubblicata sulle pagine del glorioso quotidiano “L’Ora” affermò: “Di fronte a questo nuovo delitto ci si chiede se la mafia non vuole più carabinieri a Monreale e perciò ha in programma di uccidere tutti i comandanti che succederanno a Basile e a D’Aleo oppure se questo capitano come il suo predecessore sono stati uccisi perché avevano capito qualcosa”.


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Il consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo © Deb Photo


Una dichiarazione importante, un dubbio angoscioso che prendeva spunto dal fatto che solo 3 anni prima, nel maggio del 1980, era stato ucciso a Monreale il capitano Emanuele Basile, il predecessore del capitano D’Aleo. Anche quella una esecuzione impressionante per la sua forza brutale. Basile venne ucciso durante la festa del paese mentre teneva in braccio la sua bambina. Da quel delitto scaturì una vicenda processuale infinita caratterizzata da numerosi tentativi, alcuni riusciti, di aggiustare il processo nei confronti degli imputati, Armando Bonanno, Giuseppe Madonia e Vincenzo Puccio. Corruzione di giudici, intimidazioni nei confronti di togati e giudici popolari, promesse politiche di interessamento in Cassazione, annullamenti inspiegabili di sentenze di condanna, spietata vendetta nei confronti del giudice Antonino Saetta che, in appello, ribaltando il verdetto di primo grado, aveva condannato gli esecutori materiali e che per questo pochi mesi dopo venne ucciso con il figlio Stefano lungo la strada che collega Agrigento a Caltanissetta. Tutto questo ruotava attorno al processo per l'omicidio del capitano Basile. Non si comprende la centralità della questione se non si ha chiara l’importanza mafiosa del territorio di Monreale, popoloso paese alle porte di Palermo, facente parte del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato, quello dei Brusca, quello degli allora più fedeli alleati di Salvatore Riina. Quei carabinieri, pur con le limitate risorse di una compagnia di provincia, avevano avuto le intuizioni giuste, la forza e il coraggio di portare avanti indagini delicatissime che partendo dal basso arrivavano fino ai vertici dell'organizzazione mafiosa. Per questo fu prima ucciso il capitano Basile e tre anni dopo il capitano D’Aleo. Sia l'uno che l'altro si erano avvalsi della preziosa collaborazione di un umile appuntato dei carabinieri, Giuseppe Bommarito, che con la sua tenacia, il suo fiuto investigativo, la sua capacità di conoscere e controllare il territorio, aveva intuito l’importanza di Monreale nello scacchiere complessivo di “Cosa nostra” e messo in luce le complicità di politici e pubblici amministratori con i mafiosi. Per questo fu ucciso Bommarito. Il libro in questione rende merito a quella preziosa attività professionale. Gli elementi che l’autrice mette in fila, uno dopo l’altro, indicano che Bommarito non è morto per caso e sono emersi negli ultimi anni grazie alla perseveranza della sorella che nelle pieghe dei processi già celebrati ha saputo trovare e valorizzare l’importanza di quel lavoro investigativo. Questo è un libro fondamentale perché restituisce la dovuta centralità ad un delitto in parte dimenticato ed aiuta a comprendere che, nella lunga teoria dei morti di mafia, non ci possono essere vittime di serie A e vittime di serie B. Tutti coloro che hanno sacrificato la loro vita per svolgere con passione, impegno e correttezza la loro “missione” meritano lo stesso rispetto. Devono essere ricordati non come esercizio di mera retorica ma con la conoscenza e la divulgazione del loro lavoro, l’analisi e l’individuazione dei moventi della loro uccisione. È per questo che il libro rappresenta una tappa importante per ricordare quanti (anche vittime del tutto sconosciute all’opinione pubblica) hanno, da veri servitori del Paese, onorato fino all'ultimo la divisa che indossavano. In Sicilia, in una terra difficile ma per fortuna anche capace di slanci, di genuine reazioni, di ribellione al sistema mafioso. Circostanze che meritano, come si fa in queste pagine, di essere ricordate e valorizzate. E ciò è ancora più bello ed emozionante quando è frutto dell’amore di una sorella, del suo senso di ribellione alle ingiustizie, della sua perseveranza nel dimostrarsi appassionata di giustizia e verità.

Foto di copertina © Deb Photo

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