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Uno degli imputati avrebbe detto in carcere: "In Calabria comandiamo noi come è sempre stato"

"Quando sarà il momento, faremo fare una brutta fine a Gratteri e ai suoi collaboratori. La 'Ndrangheta è nata prima della legge. In Calabria comandiamo noi, come è sempre stato". Sono queste le dichiarazioni del teste Antonio Genesio Mangone sentito oggi nel processo "Rinascita-Scott", in corso davanti il Tribunale di Vibo Valentia.
Mangone ha riportato, in particolare, le frasi contro Gratteri che, a suo dire, sarebbero state pronunciate da Gianfranco Ferrante, imputato nel processo Rinascita-Scott con l'accusa di essere organico alla cosca Mancuso di Limbadi.
"Noi siamo una potenza - avrebbe detto Ferrante -. Non siamo mica morti e col tempo tutti questi (il riferimento è stato a Gratteri, ai magistrati della Dda di Catanzaro ed ai loro collaboratori, ndr) la pagheranno e faranno una brutta fine. Se non lo hanno fatto loro lo facciamo noi perché la ‘Ndrangheta è nata prima della legge. In Calabria comandiamo noi ed è sempre stato così". Mangone, che è originario di Cariati, ha aggiunto che lo stesso Ferrante avrebbe fatto riferimento anche alle dichiarazioni di un pentito secondo il quale una cosca della 'Ndrangheta avrebbe progettato un attentato contro i figli del procuratore Gratteri. "C'erano anche affiliati di altre cosche, comunque - ha detto ancora Mangone - che parlavano male di Gratteri".
Ferrante unitamente all’altro detenuto Michelangelo Barbieri, alla presenza di Mangone avrebbe manifestato tutta la sua preoccupazione per l’azione intrapresa dalla Dda di Catanzaro.
"Siamo nella merda perché la Procura di Catanzaro e Gratteri portano cose concrete e i collaboratori di giustizia stanno dicendo la verità. Ferrante diceva - ha riferito Mangone - di essersi pentito di aver fatto il processo con rito ordinario perché sosteneva che se faceva l’abbreviato avrebbe fatto meno anni di carcere".
Sull’ex parlamentare di Forza Italia, Giancarlo Pittelli, imputato nel processo, il collaboratore Mangone ha confermato quanto dichiarato a verbale aggiungendo che lo stesso Pittelli, ad avviso di Ferrante, dagli arresti domiciliari poteva "telefonare e agire direttamente per risolvere i problemi del clan Mancuso e doveva uscire da questo calderone per andare a fare ciò che ha sempre fatto". Secondo Mangone sia Ferrante che Barbieri, detenuti a Siracusa, sarebbero riusciti a comunicare con l’esterno attraverso "cellulari piccolini, parlando nel bagno delle celle chiamando due o tre volte a settimana".
Mangone a conclusione del proprio esame ha chiesto al Tribunale che gli vengano concessi lo status di collaboratore di giustizia e un programma di protezione per sé e la sua famiglia. Il presidente del Tribunale, Brigida Cavasino, ha risposto che la decisione sulla richiesta di Mangone compete ad altri organi giudiziari e non al collegio giudicante davanti al quale si sta celebrando il processo "Rinascita-Scott".

Foto d'archivio © ACFB

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