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nonelarena riina dedonno

L'ex magistrato Antonio Ingroia: "Se fossi un magistrato aprirei subito un fascicolo"

È sull'arresto di Salvatore Riina avvenuto il 15 gennaio 1993 e sulla mancata perquisizione del covo di via Bernini che sono stati puntati i riflettori di 'Non è l'Arena', il programma condotto da Massimo Giletti.
La scelta di non eseguire la perquisizione era stata giustificata da Sergio De Caprio (alias Capitano Ultimo) e Mario Mori - entrambi assolti nel 2005 dall'accusa di favoreggiamento a Cosa Nostra perché "il fatto non costituisce reato" - dalla volontà di non “bruciare” il covo e la neo-collaborazione del pentito Baldassarre Di Maggio.
Quest'ultimo, infatti, fu il pentito che, per primo, mise in relazione Riina con i fratelli Sansone, che abitavano in Via Bernini, e che permise quindi, secondo Mori e De Caprio, l'individuazione del covo. Bruciare covo e pentito avrebbe reso dunque inutile continuare le investigazioni sui Sansone, che avevano, secondo Ultimo, un alto interesse investigativo, al contrario del “covo”, dentro il quale – disse – non si sarebbe trovato comunque nulla di importante.
Sul punto la trasmissione di Giletti ha offerto alcuni punti di riflessione: è stato mandato in onda un video del 2013 in cui Massimiliano Di Pillo, membro del movimento antimafia 'Agende Rosse' guidato da Salvatore Borsellino, fece una domanda rivolta al generale Mori nell'aula magna dell'Università di Chieti: "Come fa ad affermare che dentro l'appartamento di Riina non c'era nulla, quando si sa per certo che è stato addirittura ritinteggiato il muro e spostati mobili?"
Giuseppe De Donno (mai indagato né imputato nel processo per la mancata perquisizione del covo) rispondendo al posto di Mario Mori ha affermato che "quando abbiamo arrestato Salvatore Riina, noi abbiamo sequestrato" una "borsa di plastica" piena "di pizzini". "Per cui l'archivio reale di Riina noi lo abbiamo preso la mattina che lui viaggiava".
"Un'altra cosa che la stampa non racconta e che quello non era il luogo dove abitava Totò Riina. Quello era il luogo dove abitava la famiglia". "Riina non viveva con la famiglia. Abitava in un altro posto che noi non abbiamo mai identificato", ha detto.
"Perché noi possiamo affermare che quello non era il luogo in cui viveva Riina?”.
"Perché noi quel domicilio di via Bernini lo abbiamo filmato per una serie di settimane precedenti". "C’era questa macchina che usciva ma non avevamo identificato Ninetta Bagarella di cui non avevamo neanche una fotografia. Per cui noi non abbiamo mai filmato una macchina con a bordo personaggi che poi risultarono Riina e Biondino che andava a prendere Riina".
"Riina
- ha concluso De Donno - si recava lì solo saltuariamente".


ingroia la7


Durante la trasmissione è stato fatto notare che Mario Mori non aveva corretto al tempo il collega.
Cosa singolare da momento che i carabinieri, come riportato da Marco Lillo sul 'Fatto Quotidiano' "avevano sempre detto che la videosorveglianza del cancello dal quale poi il 15 gennaio 1993 uscì Riina sulla Citroen guidata dal fido Salvatore Biondino iniziò all’alba del 14 e finì nel tardo pomeriggio del 15 stesso, senza che i pm fossero informati della fine del monitoraggio. Il Fatto ha contattato Giuseppe De Donno per avere da lui una spiegazione delle parole inedite dette a Chieti nel 2013. Invano".
Certamente in questi casi il condizionale è d'obbligo tenendo conto del fatto che si potrebbe trattare anche di un errore di memoria.
Nella tarda serata di mertedì 28 febbraio l'ex colonnello, parlando all’Adnkronos, ha detto di aver sicuramente fatto "confusione tra le attività di osservazione su imprenditori come i Ganci, durate molto tempo, e quelle svolte su via Bernini dove erano coinvolti gli imprenditori Sansone, e durate un paio di giorni. In quel comprensorio insistevano una serie di villette, in una delle quali abitava il boss e la sua famiglia e dove ribadisco, a mio giudizio, non credo ci fosse il 'covo' di Salvatore Riina". De Donno, dopo aver sottolineato che comunque si tratta di argomenti "di oltre trent'anni fa", spiega all'Adnkronos di voler offrire "una più corretta e completa informazione con riguardo alle frasi pronunciate in occasione della presentazione, anni fa, di un libro all'università di Chieti, e di cui si dato ampio risalto stampa, premesso che delle attività d'indagine dirette dal capitano Ultimo non conoscevo i dettagli operativi". "Nella foga e nella necessaria sintesi del racconto - ha aggiunto l'ex colonnello dei Ros - ho evidentemente sovrapposto ricordi giungendo poi a parlare del gruppo di lavoro che era stato costituito con i carabinieri di Palermo e che avrei dovuto dirigere per indagare sul circuito economico e politico di riferimento per Cosa nostra, iniziando le attività di indagine dalla documentazione che il boss, da poco catturato, aveva con sé, fornendo inconsapevolmente elementi ad interpretazioni erronee e fuorvianti".
Antonio Ingroia, presente in trasmissione, ha auspicato un accertamento nelle sedi opportune e di essere rimasto "senza parole”.
"Fossi stato un magistrato avrei aperto un fascicolo domani mattina", ha detto sottolineando che la circostanza "mi sorprende abbastanza perché lo apprendo per la prima volta. Una dichiarazione per altro detta in termini così categorici. Sino ad oggi abbiamo una sentenza definitiva su quella vicenda. C'è sempre stato detto, e che rimane accertato dalle sentenze, che quello era il cosiddetto covo di Riina, non il covo della famiglia di Riina".
Sarebbe interessante un approfondimento su questi aspetti e risentire sul punto la versione di De Donno, Mori e De Caprio e anche quella di un carabiniere molto meno noto detto ‘Ombra’. "Era lui - si legge sul 'Fatto' - l’uomo della squadra di Ultimo che stava nascosto dentro il furgone a Palermo nel 1993 a fare le videoriprese. Si chiama Giuseppe Coldesina. Nel 2005 al processo contro Mori e De Caprio raccontò le riprese del 14 gennaio 1993 quando Ninetta Bagarella e il suo autista uscirono dal cancello e quelle del giorno dopo del marito Totò Riina con il fedele Biondino. Sarebbe importante risentirlo. Soprattutto sulle sue attività dal 15 novembre 1992 al 14 gennaio 1993. Al processo contro Mori testimoniò che era sceso a Palermo dal nord per la caccia a Riina. Prima aveva video-ripreso per settimane fino al 15 novembre 1992 il cantiere di un palazzo dei fratelli Ganci, boss della Noce, legati a Riina, vicino a piazza Camporeale. Poi ha raccontato che le riprese sul palazzo finirono e lui si occupò di altro pur restando a Palermo. Infine ha detto che le videoriprese a via Bernini iniziarono (contrariamente a quanto affermato da De Donno a Chieti nel 2013) solo il 14 gennaio 1993. Il pm Michele Prestipino non fece molte domande a Ombra su cosa avesse fatto nel periodo mancante all’appello, cioè metà novembre-metà gennaio. Al processo del 2005 non era un tema centrale".

Parola alle sentenze
Al di là di questo la sentenza di assoluzione per Mori e De Caprio ha già confutato la motivazione, data al tempo da Ultimo sullo scarso interesse investigativo del covo ritenendo che all'interno non vi fossero documenti importanti. La sentenza sulla mancata perquisizione del covo scrive chiaramente: "La posizione apicale del Riina, ai vertici dell'organizzazione criminale, ben poteva far ritenere che lo stesso conservasse nella propria abitazione un archivio rilevante per successive indagini su 'Cosa nostra' e, tenuto conto che la di lui famiglia era rimasta in via Bernini, poteva di certo ipotizzarsi che altri sodali, aventi l'interesse a mettersi in contatto con la stessa, vi si recassero. Al di là di queste argomentazioni di carattere logico, il fatto che il Riina fosse stato trovato, al momento del suo arresto, in possesso di diversi 'pizzini', ovvero di biglietti cartacei contenenti informazioni sugli affari portati avanti dall'organizzazione, con riferimento ad appalti, alle imprese ed alle persone coinvolte, costituisce un ulteriore preciso elemento, in questo caso di fatto, che vale a rendere la condotta contestata agli imputati oggettivamente idonea ad integrare il reato".


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E poi ancora: "Le argomentazioni difensive riferite sul punto, secondo le quali si riteneva che il latitante non conservasse cose di rilievo nella propria abitazione, perché 'il mafioso' non terrebbe mai cose che possono mettere in pericolo la famiglia, appaiono fondate su una massima di esperienza elaborata dagli stessi imputati ma non verificata empiricamente ed anzi contraddetta dalla risultanza offerta proprio dal materiale rinvenuto indosso al boss. Pertanto, già il 15.1.93, sussisteva la concreta e rilevante probabilità che esistesse altra documentazione in via Bernini; probabilità che è stata confermata in dibattimento dal Brusca e dal Giuffrè, secondo cui Salvatore Riina era solito prendere appunti, teneva una contabilità dei proventi criminali, annotava le riunioni e teneva una fitta corrispondenza sia con il Provenzano che con altri esponenti mafiosi, per la 'messa a posto' delle imprese e la gestione degli affari”.
Come già ricordato i giudici della 3°sezione del Tribunale di Palermo, pur mettendo in luce le diverse pecche operative, assolsero i due ufficiali Mori e De Caprio con queste conclusioni: "Al di là delle, in più punti, confuse (v. dichiarazioni sulla asserita non importanza dell'abitazione ove il latitante convive con la famiglia, perché non vi terrebbe mai cose che possano compromettere i familiari) argomentazioni addotte dagli imputati, che sono sembrate dettate dalla logica difensiva di giustificare sotto ogni profilo il loro operato, deve valutarsi se quei comportamenti omissivi valgano ad integrare un coefficiente di volontà diretta ad agevolare 'Cosa nostra' (…) L'omissione della comunicazione all'Autorità Giudiziaria della decisione, adottata dal cap. De Caprio nel tardo pomeriggio del 15 gennaio stesso, di non riattivare il servizio il giorno seguente, e poi tutti i giorni che seguirono, è stata spiegata dal col. Mario Mori, nella nota del 18.2.93, con lo 'spazio di autonomia decisionale consentito' nell'ambito del quale il De Caprio credeva di potersi muovere, a fronte delle successive 'varianti sui tempi di realizzazione e sulle modalità pratiche di sviluppo' delle investigazioni che si intendeva avviare in merito ai Sansone, una volta che i luoghi si fossero 'raffreddati'.

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