Durante la trasmissione ripercorsa anche la storia del falso pentito Vincenzo Scarantino
“Perché invece di fornire armi, gli stati occidentali non dicono a questo buffone di presidente (Zelensky, ndr) di dimettersi, sistemare le cose e fornire gli aiuti umanitari?”. “Ci vogliono far capire che la Russia ha torto, ma non hanno torto. Non è Putin che vuole mettere i missili in America, è il contrario. Se Putin non fosse una potenza nucleare, l’America l’avrebbe già bombardato, l discorso non nasce ora, ma nel 2014, che hanno fomentato un colpo di Stato, è salito questo buffone... ed è da 8 anni che uccidono persone nel Donbass”.
Sono queste le parole del boss stragista Matteo Messina Denaro contenute in diversi audio andati in onda nell’ultima puntata di Non è l’Arena, su La7, condotta dal giornalista Massimo Giletti.
Presenti in studio anche il falso pentito Vincenzo Scarantino, il suo legale Venia Giamporcaro e i giornalisti Nello Trocchia e Sandra Amurri. L'ex superlatitante ha parlato anche di sé stesso raccontando della sua malattia alle amiche conosciute in chemioterapia: “Ancora non riesco a capacitarmi di questa situazione... Il mio corpo mi ha tradito, non lo sopporto”, scriveva alle amiche, aggiungendo poi un dettaglio significativo: “Io avevo una vita bellissima... e non avevo previsto ciò, non ci avevo mai pensato... e non lo accetto”. In un altro audio, ancora, Messina Denaro confortava l’amica per l’esito di un esame che non arriva.
U’ Siccu poi si è descritto, autodefinendosi “un felino”: “Io in genere sfuggo dal farmi conoscere, non con te... Anche da mia mamma. Io sono così, sono tipo un felino. E quando le persone mi studiano e indovinano, min****, mi infastidisco come una belva...”. "Io il mondo l'ho calpestato - ha continuato - Sulla mia vita dovrei scrivere un libro".
La vicenda Scarantino
"Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana" e "soggetti inseriti negli apparati dello Stato" indussero Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sulla strage che, cinquantasette giorni dopo "l'Attentatuni di Capaci", uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina.
Il giorno della sentenza di primo grado del processo Borsellino Quater (ora definitivamente concluso in Cassazione) era stato dichiarato “non doversi procedere per pervenuta prescrizione in ordine al reato di calunnia pluriaggravata” nei confronti di Scarantino in quanto, in base all'attenuante dell’art.114 terzo comma, veniva riconosciuto che il "pupo vestito" (come egli stesso si definiva) aveva effettuato la calunnia perché "determinato a commettere il reato".
I giudici, nelle motivazioni della sentenza, hanno parlato di "suggeritori" esterni, soggetti che avrebbero cioè imbeccato il falso pentito inducendolo a mentire. "Soggetti, - scrivono - i quali, a loro volta, avevano appreso informazioni da ulteriori fonti rimaste occulte".
Quel depistaggio, costato la condanna all'ergastolo a sette innocenti poi scarcerati e scagionati nel processo di revisione, era stato indicato dalla Corte come "un proposito criminoso determinato essenzialmente dall'attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri".
Lo Scarantino era stato infatti definito come "un soggetto psicologicamente debole”.
L’ex pentito durante la trasmissione ha raccontato alcuni particolari di questa infausta storia: "Prima mi hanno portato a San Cataldo che era una topaia. In cella i topi mi salivano addosso perché c'era il gabinetto a terra e da lì uscivano i topi e mi saltavano addosso" ha raccontato Scarantino a 'Non è l'Arena', poi a Pianosa "mi hanno massacrato di botte. Non mi facevano dormire, mi davano la pasta con i vermi, mi pisciavano nella minestra. Hanno fatto tutte le sozzerie. Io quando sono entrato pesavo centodieci chili, quando sono uscito pesavo cinquantotto chili".
E poi ancora: mi avevano "offerto, per quando finiva tutto, un albergo e duecento milioni". "Ma volevano arrestare pure mio padre, che era morto, mia madre e pure i miei figli che erano piccolini".
Circostanze, queste, confermate anche da Rosalia Basile, l'ex moglie del falso pentito durante una udienza del maggio 2016 al processo a Caltanissetta a carico dei funzionari di polizia Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, membri del gruppo Falcone-Borsellino che era guidato dall'ex capo della mobile Arnaldo La Barbera, allora accusati di calunnia aggravata dall’aver agevolato Cosa Nostra.
A luglio 2022 dopo quasi 10 ore di camera di consiglio la corte, presieduta da Francesco D'Arrigo, aveva fatto cadere l’aggravante mafiosa. Come risultato, i reati contestati a Bo e Mattei sono stati dichiarati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”.
La donna nell'udienza di maggio 2016 aveva ripercorso tutte le fasi vissute durante quegli anni drammatici: "Mio marito mi parlava di maltrattamenti fisici di ogni tipo che subiva dai poliziotti, dagli agenti di polizia penitenziaria. Gli facevano intimidazioni psicologiche dicendogli che io lo tradivo. Ma gli mettevano anche vermi nelle zuppe, lo minacciavano di inoculargli il virus dell'Aids. Per costringerlo a parlare e a mentire lo picchiavano, approfittavano della sua debolezza. Mi diceva proprio: 'Mi stanno massacrando'. Ero certa che lo avrebbero ucciso".
Così come aveva già fatto al processo Borsellino quater, che ha di fatto certificato il depistaggio sulla strage di via d'Amelio, la Basile aveva accusato proprio La Barbera (oggi deceduto) descrivendolo come la mente che portò l'ex marito ad autoaccusarsi: "Dopo la detenzione a Pianosa - aveva raccontato la donna - improvvisamente ammise il furto della 126 usata come autobomba per la strage. Mi disse ‘devo farlo anche se sono innocente altrimenti mi ammazzano'”.
La teste ha poi proseguito: “Lui iniziava a dirmi questi discorsi delle cose che gli accadevano in carcere. Io non sapendo cosa fare scrissi al Presidente della Repubblica di allora. Andai ingenuamente a Roma per parlare con il Papa. Sono stata a Cinecittà aspettando Funari perché volevo parlare con lui anche. Poi cercai di contattare la signora Borsellino per dirle che mio marito a Pianosa veniva picchiato per farlo pentire e che era innocente. Ricordo che citofonai a casa Borsellino scese un uomo che mi disse che la signora non se la sentiva di parlarmi visto il lutto sofferto".
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