La sesta sezione della Corte Suprema di Cassazione ha fissato per il 14 aprile 2023, alle ore 10, l'udienza del procedimento sulla trattativa Stato-mafia.
Il 23 settembre 2021 erano stati assolti l'ex senatore Marcello Dell'Utri ("per non aver commesso il fatto", gli ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno "perché il fatto non costituisce reato") e che ha ridotto la pena a 27 anni per il boss corleonese Leoluca Bagarella, e
al contempo era stata confermata la sentenza nei riguardi di Giovanni Brusca, il cui reato era stato dichiarato prescritto già in primo grado, e per il medico boss Antonino Cinà.
Dopo due rinvii i primi di agosto sono state depositate le motivazioni della sentenza scritte a quattro mani dal Presidente Angelo Pellino e dal giudice a latere Vittorio Anania.
In quelle tremila pagine, pur scartando l'ipotesi del mandato politico, l'iniziativa del Ros veniva definita "improvvida", con un "grave errore di calcolo" che si rivelò "sciagurato", e che fu "intrapresa in totale spregio ai doveri inerenti l'ufficio e i compiti istituzionali".
Non solo. Nelle considerazioni veniva messo nero su bianco che da una parte quel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra, veniva fatto per creare le premesse "per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi", dall'altra però si dava forma ad "un'ibrida alleanza" con la cosiddetta "componente moderata e sempre più insofferente della linea dura imposta da Riina".
Sempre nella sentenza viene scritto che quel "dialogo" con il sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino "ebbe sicuramente l'effetto di tramutare quella che fino a quel momento era stata una minaccia generica e indeterminata da parte di Cosa Nostra in una minaccia specifica e qualificabile ai sensi dell'articolo 338 del codice penale, perché finalizzata a condizionare le scelte del governo, soprattutto in materia di politica carceraria". E non valutarono, i carabinieri (ecco "il grave errore") l'effetto di rafforzamento della volontà di ricatto mafioso alle istituzioni della loro iniziativa (detto volgarmente: visto che con le bombe lo Stato si piegava, mettendone altre si sarebbe potuto ottenere qualsiasi cosa), tanto che poi si verificarono le stragi in Continente.
Anche alla luce di queste valutazioni (ma la sentenza di tremila pagine affronta vari argomenti) la Procura generale di Palermo (rappresentata dalla Procuratrice generale Lia Sava e dai sostituti Giuseppe Fici e Sergio Barbiera) lo scorso ottobre ha presentato ricorso sia per le assoluzioni dei carabinieri ("sulla base della suddetta ricostruzione fattuale, la Corte d'Assise d'Appello ha contraddittoriamente ed illogicamente assolto gli imputati Subranni, Mori e De Donno, sul presupposto erroneo che gli stessi abbiano agito con finalità solidaristiche") che contro l'assoluzione di Marcello Dell'Utri.
Nel documento si metteva in evidenza come l'ex senatore, già condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa (pena scontata), "è navigato ed esperto uomo di confine tra l'associazione criminale, denominata Cosa nostra e le alte sfere dell'imprenditoria nazionale per anni" e poi "amico scomodo del Presidente del Consiglio (Berlusconi ndr), uomo comunque di straordinaria intelligenza e straordinaria capacità". "Non è dato comprendere perché Dell'Utri - aggiungevano Sava, Fici e Barbiera - si sia tenuto per sé il messaggio ricattatorio dei vertici mafiosi non riportandolo al destinatario finale, che era colui per il quale si era interessato per la tessitura di un accordo elettorale, poi andato a buon fine".
La sentenza di Primo grado
Con la sentenza di primo grado, il 20 aprile 2018, vennero condannati a dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri e per Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto anni di detenzione erano stati inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella.
Tutti gli imputati condannati erano stati riconosciuti colpevoli del reato disciplinato dall’articolo 338 del codice penale: quello di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato.
Sempre in primo grado era stato assolto Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: per l’ex ministro della Dc la procura non aveva fatto ricorso, quindi la sentenza è poi diventata definitiva.
Nel corso del processo di appello sono state invece dichiarate prescritte le accuse a Massimo Ciancimino, uno dei testimoni chiave del processo, che in primo grado era stato condannato a 8 anni per calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro.
Non sono arrivati alla sentenza di primo grado, in quanto deceduti, i due imputati principali: Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Adesso non resta che l'ultimo atto di questo processo, con le parti che sono state avvisate della fissazione della data di udienza.
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- Aaron Pettinari