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L'omicidio Alfano, uno dei più grandi depistaggi della storia repubblicana

Barcellona Pozzo di Gotto, la Corleone del ventesimo secolo. Una terra segnata dagli intrecci occulti fra mafia, massonerie deviate, servizi segreti e forze eversive. Una terra 'opaca', 'rifugio' dell'eminenza grigia Rosario Pio Cattafi - “zio Saro” per il capo dei capi Totò Riina - su cui è stato riconosciuto il sigillo della mafia almeno fino a marzo del 2000.
Un luogo le cui dinamiche criminali sono state implicitamente e alle volte perfino esplicitamente golpiste, e hanno contribuito alla creazione della cosiddetta “Seconda Repubblica”. Fra le pieghe di questa terra si era nascosto anche il capo mafia catanese Benedetto Santapaola, grazie alla complicità di personalità al di sopra di ogni sospetto.
Della sua latitanza, in base agli atti del processo trattativa Stato-Mafia, ne era venuto a conoscenza il giornalista Giuseppe Aldo Felice Alfano - per tutti "Beppe" - assassinato l'8 gennaio del 1993.
Per il delitto sono già stati condannati in via definitiva un mandante e un killer, il boss Giuseppe Gullotti e il camionista Antonino Merlino. Quello stesso Merlino che secondo il collaboratore di giustizia Carmelo D'Amico, sarebbe innocente.
Mentre Gullotti, il 7 gennaio 2016, tramite il suo legale Tommaso Autru Ryolo, aveva chiesto la revisione del processo ma la Corte d'assise d'appello di Reggio Calabria, presidente Filippo Leonardo, ne aveva rigettato la richiesta.
Secondo l'avvocato Fabio Repici si è trattato di “un crimine di altissimo livello e almeno in parte un delitto di Stato”. E ancora: rappresenta il "più grave dei crimini commessi a Barcellona Pozzo di Gotto da Cosa nostra". "E' questo il crimine sul quale maggiormente organi istituzionali hanno mostrato il loro volto peggiore, con la commissione di sconvolgenti omissioni e veri e propri depistaggi". Nella memoria depositata infatti - come ha riferito in un’intervista all’agenzia Agi Sonia Alfano - vengono “descritti documentalmente gli innumerevoli depistaggi che sono stati adoperati da Olindo Canali (il pm al quale Alfano avrebbe rivelato di sapere della latitanza di Nitto Santapaola, ndr) il quale chiaramente non ha agito da solo, ma con la complicità di apparati istituzionali deviati con cui lui era in contatto”.
Olindo Canali, per fare chiarezza, è stato recentemente assolto in abbreviato perché "il fatto non sussiste" dinanzi al gup del Tribunale di Reggio Calabria, Vincenza Bellini. L'accusa era di corruzione per aver favorito Cosa Nostra e in particolare della famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto.
Canali, ricordiamo, era l’autore di una lettera anonima presentata durante il processo Mare Nostrum. In quella lettera, oltre a venir screditato l’avvocato Fabio Repici, veniva esternato il dubbio che la persona condannata al processo per omicidio di Beppe Alfano, cioè Pippo Gullotti, non fosse il responsabile dubitando anche la validità delle indagini condotte da Canali stesso.

La svolta del 2021
La storia giudiziaria ebbe tuttavia un nuova svolta nel novembre 2021 quando nell'ambito dell'inchiesta "ter" - rivolta all'individuazione di "possibili ulteriori mandanti dell'omicidio" - Stefano Genovese, la cui posizione era stata archiviata nel dicembre 2020 assieme a Basilio Condipodero, era nuovamente tornato ad essere iscritto dalla Dda di Messina nel registro degli indagati. Nello specifico Genovese era accusato di essere uno degli esecutori materiali dell'omicidio del giornalista ma al tempo, secondo il gip di Messina Valeria Curatolo, non c'erano prove sufficienti contro la sua persona. Era stato il collaboratore di giustizia Carmelo D'Amico a definire Genovese e Condipodero rispettivamente sicario e basista dell'omicidio. Dichiarazioni poi confermate dal fratello Francesco D'Amico che aveva riferito in merito notizie "de relato". Ed anche un altro pentito, Nunziato Siracusa, aveva tirato in ballo Genovese. Inoltre a supportare le dichiarazioni del pentito D’Amico, ci sarebbero anche quelle del collaboratore Biagio Grasso che ha raccontato di aver saputo da Antonino Merlino (che gli confessò la propria innocenza) il nome del vero responsabile dell’omicidio, e cioè il killer barcellonese Stefano Genovese.
Merlino, occorre ricordare, era stato imputato assieme ad Antonino Mostaccio, ex presidente dell’Aias e al boss Giuseppe Gullotti durante il primo processo per la morte di Beppe Alfano, iniziato nel 1995. Gullotti venne condannato in via definitiva come mandante e Antonino Merlino come esecutore materiale dell’agguato mentre Mostacchio era stato assolto.
La procura di Messina, tuttavia, nel settembre del 2022 aveva avanzato nuovamente l'ennesima richiesta di archiviazione per l'inchiesta “Ter” a conclusione degli accertamenti disposti dal Gip.
La nuova richiesta porta le firme del Procuratore aggiunto Vito Di Gregorio e del sostituto Antonio Carchietti, con il visto dell'allora Procuratore Capo Maurizio De Lucia, ora Procuratore della Repubblica di Palermo.
La famiglia aveva presentato opposizione a novembre dello stesso anno.

I buchi neri ancora irrisolti
Resta in primo piano la vicenda della mancata cattura del boss Nitto Santapaola a Terme Vigliatore, con il boss catanese che avrebbe trascorso l'ultima fase della sua latitanza proprio nel messinese.
Di questo aspetto Alfano sarebbe venuto a conoscenza e, secondo quanto sostenuto dalla figlia Sonia Alfano, il padre era stato ucciso proprio per aver rivelato al pm Olindo Canali la presenza di Santapaola a Barcellona. Sempre la figlia aveva raccontato di documenti spariti riguardanti traffici di armi e uranio sui quali il padre stava indagando.
“Quegli appunti - ha ricordato in più occasioni - sono spariti da casa la sera stessa dell’omicidio, dopo la perquisizione delle forze dell’ordine. Alle 22.45 dell’8 gennaio 1993 piombarono a casa nostra oltre 50 agenti di vari corpi che portarono via numerose carte ed effetti personali, ma non tutto ci è stato restituito. Tante cose, anzi, non sono state neanche verbalizzate”.
Tra i buchi neri ancora irrisolti, vi è inoltre il mistero della Colt 22, l'arma usata per l'omicidio, mai sottoposta a perizia balistica, le cui tracce sono state scoperte dall’avvocato Fabio Repici. In un verbale del 28 gennaio ’93, acquisito agli atti del processo, veniva riportato che 20 giorni dopo l’assassinio di Alfano, Olindo Canali (allora titolare dell’inchiesta) aveva scoperto che l’imprenditore Mario Imbesi possedeva una Calibro 22 e se l’era fatta consegnare con un iter quantomeno insolito. Il magistrato, infatti, invece di sequestrare l’arma, aveva atteso un’ora e mezza che l’imprenditore fosse andato a casa a prelevare la pistola per poi prenderla in consegna. Dopo otto giorni, il 5 febbraio, il revolver era stato restituito al proprietario, ma agli atti del processo non risulta alcuna perizia balistica sull’arma. Solo diciassette anni dopo la morte di Alfano, nel 2011, la Scientifica dimostrerà che quell’arma, con l’omicidio del cronista, non c’entra niente.
La fitta coltre che è stata sollevata attorno all’omicidio Alfano è indice che qualcosa di inconfessabile si è verificato nel 1993. Qualcosa che ha come protagonisti “Cosa Nostra”, i “fratelli” Barcellonesi e la latitanza di Nitto Santapaola.
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella giornata odierna ha detto che "nel trentesimo anniversario dell’uccisione di Giuseppe Aldo Felice Alfano, mi unisco al cordoglio dei familiari, ricordando il suo inestimabile impegno civico. 
Beppe Alfano fu vittima di un vile attentato di matrice mafiosa mentre era alla guida della sua auto: un evento tragico che sconvolse la Città di Barcellona Pozzo di Gotto.
I valori di legalità e giustizia, fondamento del nostro sistema democratico, a cui Alfano si ispirava nello svolgimento della sua attività, non furono scalfiti da un delitto così spregevole. 
Con le sue inchieste Beppe Alfano narrava una realtà complessa, con l’obiettivo di svelarne le verità contro ogni forma di connivenza e corruzione.
La lotta alla criminalità organizzata era per lui un impegno da perseguire con dedizione, all’insegna di una società libera dalla sopraffazione. 
Una dedizione che è rimasta impressa nella memoria collettiva: la sua immagine rappresenta un modello per le generazioni di ogni tempo. 
Il contrasto alle mafie è una responsabilità comune. Il contributo di ciascuno è elemento imprescindibile per una effettiva cultura della legalità che sia esperienza e dovere sociale. 
La Repubblica rende omaggio alla sua memoria".
Il caso potrebbe rimanere confinato alla sentenza che ha appurato le responsabilità di Merlino e, per l'appunto, del boss Giuseppe Gulotti.
L'ennesima morte di “sola mafia” in una terra di "sole eminenze grigie".
Non rimane che attendere le sorti dell'inchiesta "Ter".

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