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Leonardo Vitale è considerato come il primo vero pentito della mafia dopo Melchiorre Allegra. Fu considerato pazzo ma disse solo la verità, senza essere creduto.
Il 29 marzo del 1973 Vitale si presentò alla questura di Palermo, rompendo il filo di omertà che fino a quel momento aveva contraddistinto l'organizzazione criminale. Non solo si autoaccusò delle azioni criminali intraprese in prima persona, ma ebbe il coraggio di fare i nomi di Salvatore Riina, Giuseppe Calò, Vito Ciancimino ed altri mafiosi, collegandoli a precise circostanze. Rivelò l'esistenza della "Commissione", l'organo a cui partecipavano i capi delle famiglie e che prendeva le decisioni più importanti e che al tempo era totalmente sconosciuto agli investigatori, descrivendo anche il rito di iniziazione di Cosa nostra e l'organizzazione di una famiglia mafiosa.
Il mattino di domenica 2 dicembre 1984, mentre si trovava davanti alla porta di casa, di ritorno dalla Messa, venne raggiunto da due colpi di lupara sparati alla testa. Morì il 7 dicembre 1984.
I collaboratori di giustizia hanno fatto sempre discutere. Ci sono stati contributi più o meno rilevanti e, purtroppo, non sono mancati anche 'falsi pentiti' che hanno contribuito a sviare dalla 'retta via', usati, spesso anche da uomini infedeli dello Stato, per depistare le indagini degli organi inquirenti.
Ma è altrettanto vero che se oggi si è riusciti a compiere importanti passi nella lotta a Cosa nostra e nella ricerca della verità sulle stragi è proprio grazie all'apporto dei collaboratori di giustizia.
Certo, vanno ricercati i riscontri, vanno verificate tutte le dichiarazioni senza essere superficiali. Ma non dobbiamo commettere il medesimo errore di un tempo.
Ricordare i 'pazzi' come Vitale e quella sua scelta coraggiosa dovrebbe farci riflettere, una volta più che mai, sull'importanza che ancora oggi hanno avuto, ed hanno, i collaboratori di giustizia.
Del resto non è un caso se Cosa nostra, proprio ai tempi delle bombe degli anni Novanta, inserì tra i punti del famigerato papello la richiesta di una 'riforma della legge sui pentiti'.
Nel 1986 Giovanni Falcone durante il maxiprocesso disse che "a differenza della Giustizia dello Stato, la mafia percepì l'importanza delle sue rivelazioni e lo punì inesorabilmente per aver violato la legge dell'omertà. È augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e che merita”.
Il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli sul Fatto Quotidiano ha ricordato le rivelazioni di Vitale, tra cui il nome di "Vito Ciancimino e del principe Alessandro Vanni Calvello. Aveva rivelato quale fosse il ruolo di comando di Pippo Calò e di Salvatore Riina all’epoca del triumvirato (composto da quest’ultimo, da Stefano Bontate e da Gaetano Badalamenti). Vitale raccontò che Riina aveva presieduto una riunione, alla quale aveva partecipato, nel corso della quale aveva provveduto a dirimere la contesa su a chi spettasse tra le famiglie mafiose di Altarello e della Noce la tangente imposta all’impresa Pilo, evidenziando che aveva favorito quella della Noce per ragioni “sentimentali”: Riina aveva detto: 'Io la Noce ce l’ho nel cuore'. Vitale fu il primo vero pentito, le cui dichiarazioni sin da allora avevano trovato riscontri e, ove fossero state adeguatamente verificate e sviluppate, avrebbero potuto neutralizzare i corleonesi sul nascere e verosimilmente la scia di sangue che hanno prodotto nei successivi vent’anni".
Ma non venne creduto. "Furono necessari 18 anni di crimini, stragi e assassini di uomini delle istituzioni per comprendere come fosse necessaria una normativa sui collaboratori di giustizia, introdotta nel gennaio 1991, solo dopo l’assassinio del giudice Rosario Livatino, che ha fattivamente contribuito ad arginare il potere mafioso". "La vicenda giudiziaria di Leonardo Vitale - ha scritto Tescaroli sul Fatto - ci insegna icasticamente quanto siano temuti dalle associazioni di tipo mafioso i collaboratori di giustizia, importanti per individuare i responsabili delle attività delittuose e, al contempo, la necessità di mantenere una normativa rigorosa per i mafiosi irriducibili, in modo che la via della collaborazione appaia concretamente vantaggiosa in termini di benefici penitenziari e protezione da parte dello Stato. Un’esigenza che non dovrebbe essere dimenticata in questo periodo in cui dovrà essere convertito in legge il decreto legge sull’ergastolo ostativo, a seguito del monito della Corte Costituzionale, che ha ritenuto incostituzionale l’assetto normativo introdotto dopo la strage di Capaci".
Calogero Ganci, il 7 giugno 1996, quando iniziò a collaborare con la giustizia, raccontò chi era stato a uccidere Vitale. “Domenico Guglielmini, Raffaele Ganci e i suoi figli Domenico e Calogero, nel 2008, a seguito della pronuncia della Cassazione, sono stati condannati in via definitiva. In un separato procedimento i principali esponenti della “commissione” provinciale di Cosa Nostra (Greco, Riina, Provenzano, Calò, Brusca, Madonia) sono stati condannati all’ergastolo in qualità di mandanti dell’omicidio di Vitale e di altri pentiti o loro parenti”.

Fonte: ilfattoquotidiano.it

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