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Riportiamo di seguito un estratto del nuovo libro di Giuseppe Lo Bianco “Un’indagine pericolosa” (Zolfo editore, € 16,00). Una ragnatela di intrighi svelati dal luogotenente Paolo Conigliaro, ex comandante della stazione dei Carabinieri di Capaci, recentemente assolto al processo di appello intentato contro di lui per fermarlo. Per i giudici non doveva nemmeno essere processato. Un caso emblematico di un sistema dove i ruoli si invertono, “dove chi ha speso il proprio impegno civile si è trovato ostacolato, processato e perfino condannato in primo grado”, impeccabilmente narrato dalla penna di un ex cronista di razza de L’Ora di Palermo.


«Quando hanno presentato un esposto contro di me perché avevo “accusato di mafiosità” la classe politica di Capaci mi hanno invitato ad andare in Commissione Antimafia a fare nomi e cognomi dei politici collusi. Io a Palazzo San Macuto ci sono andato, e quei nomi e cognomi li ho fatti».

Paolo Conigliaro



Prologo

di Giuseppe Lo Bianco

Capaci. È la sera del 10 marzo 2016: in Consiglio comunale sindaco e ex vicesindaco se le danno verbalmente di santa ragione. Il secondo accusa il primo di avere «ceduto ai ricatti di Luna».
Da qualche giorno, con una mossa a sorpresa, il sindaco Sebastiano Napoli ha infatti azzerato la giunta e ribaltato gli equilibri, mandando all’opposizione la lista che lo aveva sostenuto, e accogliendo nella maggioranza di governo del paese gli ex oppositori politici. Tra questi, i sottufficiali dei carabinieri Andrea Misuraca e Salvatore Luna, quest’ultimo entrato in Consiglio comunale da alcuni giorni (era rimasto fuori come candidato sindaco non eletto all’inizio della consiliatura). Sembra normale, sia pure aspra, dialettica politica, se non fosse per quella parola «ricatti» che riecheggia nelle orecchie degli investigatori presenti in Consiglio: da un anno e mezzo hanno richiesto invano lo scioglimento per mafia dell’amministrazione comunale e stanno con le antenne tese. La sera stessa l’ex vicesindaco Roberto Tarallo viene convocato in caserma, sul momento appare vago sulle ragioni dello scontro, pochi giorni dopo si sparge la voce in paese che Tarallo avrebbe anche affidato ai militari un audio registrato di nascosto nella stanza del primo cittadino, in cui si sente il vicesindaco ripetere la sua accusa e il primo cittadino replicare con un «non potevo fare altrimenti». I retroscena restano oscuri, ma per gli investigatori ce n’è abbastanza per ipotizzare il reato di minaccia a corpo politico dello Stato (lo stesso del processo «Trattativa Stato-mafia») e trasmettere il fascicolo in Procura.
Proseguiamo la zoomata: poco più di tre mesi prima, il 19 novembre del 2015, scartando la posta in arrivo un funzionario dell’ufficio tecnico del Comune aveva trovato un’intimazione dello studio legale Pinelli-Schifani di Palermo: tra i fondatori c’è Renato Schifani, esponente di vertice di Forza Italia, ex presidente del Senato, oggi presidente della Regione Sicilia, sotto processo a Caltanissetta nell’ambito del «sistema Montante». Gli avvocati intimano all’ufficio di portare in Consiglio una delibera di variante allo strumento urbanistico vigente per trasformare un’area artigianale in spazio commerciale; a rischio, sostengono, c’è la rescissione del contratto con la società Eurospin Sicilia Spa (con le conseguenti ricadute occupazionali negative sul territorio) che in quell’area avrebbe dovuto realizzare un centro commerciale. Il particolare è importante e va tenuto a mente, ma verrà messo a fuoco dagli investigatori solo qualche tempo dopo.
La zoomata finale ci porta al 2017. Sono passati un anno e 8 mesi e un altro Consiglio comunale molto acceso attira l’attenzione degli investigatori. Nella tarda sera del 10 novembre al termine dei lavori, fuori dall’aula consiliare, i consiglieri Andrea Misuraca, brigadiere dei carabinieri, e Carlo Puccio, presidente del Consiglio cittadino, rischiano di arrivare alle mani, proseguendo lo scontro iniziato in aula su una delibera da votare: un’autorizzazione in deroga agli strumenti urbanistici che consentirebbe di costruire sull’ex area Vianini, un’estensione di terreno di circa trenta ettari, in origine a destinazione artigianale, nella via Vittorio Emanuele. La presenza di un rudere ricorda un’attività di costruzione di pali in cemento, dismessa qualche decennio prima. Nel piano triennale delle opere pubbliche di Capaci 2013/2015 lì era prevista una caserma. La delibera passa con 8 favorevoli, 7 contrari, ma tra i presenti la tensione è evidente e resta impressa negli audio del dibattito con un’altra frase che suona stonata. La pronuncia il consigliere Misuraca rivolto al presidente del Consiglio, che in quel momento governa la votazione: «non fare il fango, mettila ai voti, per te ci penso io». Tre anni dopo, il 5 agosto 2020, il nuovo sindaco di Capaci, Pietro Puccio, sostiene in Consiglio comunale che quel «ribaltone» sia stato il frutto di uno «snodo politico-amministrativo torbido», che ha «creato le condizioni per l’approvazione della delibera sull’ex area Vianini». E cioè che l’affare del centro commerciale abbia la sua genesi in Consiglio in coincidenza con il ribaltone del sindaco Napoli. Quella variante approvata in Consiglio è un vaso di Pandora che finirà all’esame della Commissione parlamentare Antimafia. Scoperchiandolo si scoprono: una proposta di scioglimento per mafia del Comune di Capaci rimasta ferma nei cassetti del Comando Provinciale Carabinieri di Palermo, i tentativi di condizionamento (e di raccolta irrituale di informazioni) sulle indagini della stazione dei carabinieri di Capaci da parte di alcuni appartenenti a un organismo di rappresentanza interno all’Arma dei carabinieri, le proposte di trasferimento, gli ostacoli e le umiliazioni subiti da un investigatore dell’Arma, poi passato alla Dia, impegnato nel riaffermare principi elementari di convivenza civile dopo avere incrociato a Capaci gli esponenti di una lobby politico-affaristica protagonista del più formidabile sistema di mistificazione illusionistica della realtà, attraverso l’invenzione di un’antimafia farlocca che ha tenuto in scacco per anni la società civile siciliana e non solo. Vedremo come gli ostacoli al lavoro di indagine di Paolo Conigliaro, le sottovalutazioni, le omissioni dentro le istituzioni investigative e giudiziarie, e persino gli «amichevoli consigli» da parte di un magistrato, si configurino come l’ombrello a protezione di un’immutabilità gattopardesca di una fetta del territorio siciliano, alimentata da quell’antimafia farlocca che macina affari milionari dietro le bandiere dei buoni propositi. E dove dietro le quinte di un contrasto a Cosa Nostra sbandierato come ormai acquisito alla coscienza nazionale il «contesto» popolare, ma anche per certi versi istituzionale, sembri rimasto alle commistioni del 1992, l’anno in cui l’Italia tremò, che portarono il Viminale a sciogliere per mafia il Comune di Capaci, primo tra tutti dopo la strage, venti giorni dopo l’attentatuni.
Ma per comprendere come l’impegno professionale e civile di un solitario tutore della legge ostacolato, processato, umiliato, ma tutt’altro che vinto, possa svelare ai commissari dell’Antimafia a trent’anni di distanza dalle stragi un groviglio ancora saldo di relazioni e rapporti in grado di condizionare la vita democratica in Sicilia, bisogna fare un salto indietro: nella Palermo degli anni Ottanta, ipnotizzata dai miliardi di lire dell’eroina e indifferente al sangue sui marciapiedi. In un periodo in cui quello dei morti della guerra di mafia era un numero a tre cifre, e i loro nomi venivano pubblicati con cadenza quotidiana il pomeriggio dal giornale «L’Ora».

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