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“Lea Garofalo fu innanzitutto una Donna desiderosa di affermare la sua personalità e il suo diritto ad una vita normale. Poi fu anche una eroina ed una testimone di giustizia capace di accusare i mafiosi di Petilia Policastro ed anche il boss Carlo Cosco che era stato il suo compagno e col quale aveva avuto una figlia”. Così ha scritto il consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita in un post sulla sua pagina Facebook.
“Nel maggio 2009 in una prima occasione Cosco aveva tentato di farla rapire per ucciderla ma senza riuscirvi. Ma poi il 24 novembre, dopo averla attirata in una trappola, riuscì nell’intento di ucciderla. E il corpo della povera donna fu dato alle fiamme e bruciato per tre giorni fino alla completa distruzione.
A Lea era stata data la protezione nel 2002, che le era stata poi tolta nel 2006 perché ritenuta non attendibile. Quando morì non era protetta. La sua è stata una storia emblematica che riassume la DISATTENZIONE verso i testimoni ed i collaboratori di giustizia.
Il 28 aprile 2009, poco prima del primo tentativo di ucciderla, Lea Garofalo rinunciò alla protezione che gli era stata ridata dal giudice amministrativo. Poi si rivolse al Presidente della Repubblica Napolitano con una lettera nella quale ‘lamentava di essere stata qualificata come collaboratrice di giustizia, di aver ricevuto un'assistenza legale carente sotto vari punti di vista, di essere stata obbligata a trasferirsi in diverse città con la figlia piccola nell'ambito del programma di protezione, di aver perso un lavoro precario, tutti i contatti sociali e la propria dimora anche per sostenere le spese degli avvocati’.
Oggi lo Stato la riabilita, con ritardo ed avendo molte colpe rispetto al suo sangue innocente crudelmente versato”.

Tratto da: facebook.com/CataniaBene

Foto © Imagoeconomica

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