Neofascismo, mafia e “poltronari” di professione rendono Fratelli d'Italia un partito già visto
La nomina di Giorgia Meloni a Presidente del Consiglio è ormai poco più che una formalità. Secondo l'iter istituzionale, il 13 ottobre ci sarà la convocazione delle nuove Camere e l'elezione dei rispettivi Presidenti; successivamente (il 15 ottobre) la formazione dei gruppi e l'elezione dei Capigruppo in Parlamento. Arrivati a questo punto si avvieranno le consultazioni al Quirinale per l'individuazione del nuovo - quasi sicuramente della "nuova" - Premier. Una volta sciolta la riserva e conferito l'incarico di Governo verranno nominati i ministri dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella - su proposta del Neopresidente del Consiglio dei ministri - e infine il Giuramento del nuovo Governo al Quirinale. Ma al di là della timeline, appunto, ormai poco più che mera formalità, preme ugualmente fare luce su questo Levante, sintomo di precipitazioni e maltempo per la nostra Democrazia. Ebbene sì, perché con la vittoria di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni (con oltre il 26%) non è salito al potere un partito qualunque, bensì l'erede del MSI: forza politica di orientamento neofascista. E, oggi più che mai, la democrazia, la libertà e la giustizia sono in serio pericolo perché messe a repentaglio da gente che anziché servire il bene Comune, occupa le istituzioni e le piega alle sue ambizioni di potere.
Giorgia Meloni festeggia la vittoria delle elezioni 2022 © Imagoeconomica
Nulla di nuovo...
Ricorda bene la professoressa associata in Italianistica all'Université Côte d'Azur (Nice) Francesca Sensini quando, rifacendosi ai Greci, evoca Mnemosine, dea della memoria e madre delle nove Muse, spiegando come senza di essa nessun’altra arte di conoscenza e pensiero sono possibili. E come, tra tutte le discipline, è proprio la politica quella che più delle altre si deve nutrire di memoria intesa come eredità storica. Venduto sotto mentite spoglie come "il nuovo centrodestra", in realtà quello capitanato da Giorgia Meloni non è altro che un'accozzaglia di Matusalemme appartenenti ad una classe dirigente rapace, seduta comoda nelle poltrone del Parlamento da decenni. A partire dalla stessa Meloni, già ministra della Gioventù al tempo del governo "Berlusconi Ter", sono tanti in nomi riciclati dai vecchi governi del Cavaliere presenti nella coalizione composta da Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e Noi Moderati (Noi con l’Italia, l’Italia al centro, Coraggio Italia che sarebbe la vecchia DC). "Sarebbe giusto ricordare a leader ed elettori smemorati - ha commentato qualche giorno fa Marco Travaglio tra le colonne de Il Fatto Quotidiano - che i membri dei tre governi (Berlusconi, ndr) che distrussero l’Italia sono in lista a parte tre o quattro deceduti e tre o quattro detenuti (più il duo Gelmini&Carfagna che ora fa danni in Azione)".
Gianfranco Miccichè © Deb Photo
Un lungo elenco di nomi come i ministri Tremonti e Guidi e i sottosegretari Miccichè, Grillo (Luigi) e Cota ripescati dal primo governo Berlusconi. Per non parlare proprio del Cavaliere, che ha ottenuto un posto al Senato (il suo sogno è la presidenza di Palazzo Madama). Dai governi Berlusconi, ritornano anche i sottosegretari Urso e Sgarbi, l’allora presidente del Senato Pera, i ministri Bossi e Calderoli e il sottosegretario Giorgetti. E Gasparri? Beh, non rimane certo con le mani vuote, così come la Casellati e la moglie dell’ex senatore berlusconiano Antonio D’Alì, di cui probabilmente fa le veci vista la condanna in appello del marito a 6 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa (“È stato il politico a disposizione dei Messina Denaro, prima del vecchio don Ciccio e poi del figlio Matteo, tuttora ricercato”, ha detto il procuratore generale Rita Fulantelli). Ma l'elenco continua con i Romano di turno, i La Russa, i Rotondi e i Brambilla e i Craxi (Stefania). Insomma, una serie di nomi che della "malapolitica" - oltre che a farne scuola - ne hanno fatto virtù.
Maurizio Gasparri © Imagoeconomica
Dalle larghe intese alla vergogna
Il partito più scandaloso di queste elezioni è senza ombra di dubbio quello degli indegni che è stato in grado di arruolare ben 36 parlamentari con guai giudiziari alle spalle e raccogliere oltre 2 milioni di voti. Come riportato da Thomas Mackinson su Il Fatto Quotidiano dieci sono in quota Lega, otto di Fratelli d'Italia, sei di Forza Italia, 4 del Pd, 4 da Italia Viva, 2 del Movimento Cinque Stelle e due "Moderati". Come si legge sempre sul Fatto si tratta di dati parziali, perché sono stati considerati solo i risultati dell’uninominale. Potrebbero arrivarne altri per effetto dello “scorrimento” delle liste. Salvini, Angelucci e Furgiuele (Lega); Berlusconi, Lotito e Miccichè (Forza Italia); Montaruli, Foti e Testa (Fratelli d'Italia); e altri - anche se in minor parte - nei restanti schieramenti, sono solo alcuni degli indegni. Corruzione; riciclaggio; frode fiscale; peculato; bancarotta fraudolenta; finanziamento illecito ai partiti; corruzione elettorale e turbativa d’asta; traffico di influenze illecite per lavori pubblici e appalti; atti contrari ai doveri d’ufficio; sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio; concorso esterno in associazione mafiosa e reato di strage sono solo alcuni dei reati per cui questi 36 parlamentari sono stati indagati, imputati o condannati.
Giorgia Meloni e Tommaso Foti © Imagoeconomica
Allerta mafia!
Ma tornando alla coalizione di centrodestra, una delle questioni che più preoccupano è se, e come, verrà trattata la lotta alla mafia. Già dal programma preelettorale si nota quale direzione intende prendere il neo-governo. “Lotta alle mafie e al terrorismo”, una voce di sei parole senza alcun valido approfondimento o proposta politica sul tema. Nessun riferimento a quelle leggi ormai imminenti come la riforma in tema di ergastolo ostativo o la tutela dei principali presìdi antimafia come il 41 bis; le misure di prevenzione personali e patrimoniali; il controllo sui fondi pubblici; o la tutela dell’impianto della collaborazione con la giustizia. Un’omissione che riteniamo “causale” e non "casuale". Del resto, cosa c’era da aspettarsi da coloro che prima al Quirinale (fallendo), e ora al Senato, hanno proposto un pregiudicato come Silvio Berlusconi che finanziò Cosa nostra per decenni (almeno fino al 1992 secondo i giudici) e fondato un partito (Forza Italia) con Marcello Dell’Utri (poi condannato per concorso esterno in mafia) assieme al quale è oggi indagato a Firenze come mandate esterno delle stragi del ‘93? Cosa c’era da aspettarsi da una coalizione colpita da due arresti per scambio elettorale politico-mafioso nelle 48 ore precedenti al voto per le amministrative a Palermo (Polizzi FI, Lombardo Fdi) e che a pochi giorni dalle regionali siciliane vede una candidata arrestata per corruzione (Mirabella Fdi)?
Francesco Lombardo © Pietro Calligaris
E ancora, cosa c'era da aspettarsi da una coalizione che ha permesso la discesa in campo di due condannati per reati di mafia - il già citato Marcello Dell'Utri e Totò Cuffaro (condannato per favoreggiamento aggravato) - i quali hanno fatto il bello e il cattivo tempo della politica siciliana, prima alle amministrative sostenendo Roberto Lagalla (oggi sindaco di Palermo); e poi alle regionali appoggiando quella "mente" di Renato Schifani, come lo definì il capo di Cosa nostra Totò Riina. Schifani, oggi Presidente della Regione, è imputato a Caltanissetta per violazione di segreto nell'ambito del processo Montante ed è stato indagato per concorso esterno e archiviato nel 2014, perché le prove dei rapporti che lo avrebbe avuto con uomini vicini a Cosa Nostra non bastarono per portarlo a processo. Non era provata infatti la consapevolezza della caratura criminale dei suoi interlocutori. E anche se lo fosse stato, quei fatti (avvenuti secondo il racconto di alcuni collaboratori di giustizia tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta) erano ormai troppo lontani nel tempo e quindi già prescritti.
Renato Schifani © Deb Photo
Una giustizia per pochi
A repentaglio è anche il sistema Giustizia. La coalizione vincente, infatti, propone l'"elezione diretta del Presidente della Repubblica"; una "riforma della giustizia e dell'ordinamento giudiziario: separazione delle carriere e riforma del CSM"; una "riforma del processo civile e penale: giusto processo e ragionevole durata, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama". Proposte che da un lato tentano di riformare la Costituzione italiana (in peggio), dall'altro ricordano quelle della loggia massonica P2 di Licio Gelli, la quale si prefiggeva di sottomettere la magistratura al potere politico eliminandone l'autonomia e l'indipendenza. Proposte gravi che testimoniano l'intenzione, di una certa classe dirigente, di regolare i conti contro una magistratura da sempre schierata contro l'arroganza del potere politico e mafioso.
Queste proposte, infine, se attuate si inserirebbero in uno scenario già fortemente "gambizzato" dall'attuale "Riforma Cartabia" che con il regime dell'improcedibilità, come suggeriscono alcuni magistrati - tra cui Nino Di Matteo -, "rappresenterà la causa di un aumento esponenziale dell'impunità per reati molto gravi" e "costituirà la causa di un aumento esponenziale delle mortificazioni dei diritti e delle aspettative delle parti offese dei reati" e "un motivo per alimentare ulteriormente un già diffuso senso di sfiducia dei cittadini nei confronti di una giustizia incapace di arrivare ad un accertamento nel merito della colpevolezza o dell'innocenza dell'imputato". Si avrà, dunque, una magistratura a due facce: efficiente, e certe volte anche spietata, con gli ultimi; e timida, timorosa e con le armi spuntate nei confronti dei potenti.
© Deb Photo
Diritti sociali in pericolo
Come già scritto il partito di Giorgia Meloni ha salde radici neofasciste, ma gli allarmismi “di convenienza” che si stanno verificando nelle ultime ore rischiano di banalizzare l’antifascismo e fanno il gioco delle destre. In particolare, sono a rischio tutti quei diritti di inclusione sociali, tutela delle minoranze e delle fasce più deboli e denigrate della società. C'è il timore concreto che questo nuovo Parlamento abolisca nei prossimi mesi - o anni - quei pochi passi in avanti fatti con tanti sacrifici sul campo dei diritti delle comunità Lgbtqia+, dell'immigrazione, del "welfare" (come, ad esempio, il reddito di cittadinanza), le libertà religiose e anche la libertà di espressione e opinione.
Un'Italia nella quale si profila il blocco dell’attuazione della legge 194, anche se la Meloni di recente ha detto che non la abrogherà (ma è tutto da vedere), dell’approvazione dello ius scholae, del matrimonio egualitario, l’inasprimento delle misure contro l’accoglienza di richiedenti asilo, la censura sul diritto all'eutanasia è un Paese che allontanandosi sempre più dall'idea di Stato di diritto si avvicina a piè sospinto al modello del regime ungherese, riportando indietro in modo inquietante le lancette dell’orologio della storia contemporanea. Nessuna novità. Giorgia Meloni, infatti, da tempo strizza l'occhio all'Ungheria di Viktor Orbán e all'America di Donald Trump, riferimenti della Destra sovranista nel mondo occidentale.
Viktor Orbán © Imagoeconomica
Dov'è la sinistra?
Parlare solo di “ritorno dei fascisti” è una semplificazione che rischia di scadere in retorica. Per comprendere l'origine della vittoria del centrodestra, e in particolare di Fratelli d'Italia, è bene partire da un assunto: la sinistra in questo Paese è fallita. Per alcuni intellettuali e storici, non aver fatto i conti con le proprie responsabilità nazionali ha creato un terreno fertile per il radicamento di un forte discorso nazionalista e conservatore. Va però detto che, riconosciuti i legami e l’implicita rilegittimazione sociale del fascismo attraverso l’affermazione politica della destra estrema, appiattire questa vittoria sul pericolo del “ritorno dei fascisti” conduce di nuovo a un eccesso di semplificazione. L’ascesa politica dei partiti di estrema destra, in Italia ad esempio, è la conseguenza di una crisi organica e di lungo periodo. Come ha scritto Olimpia Capitano su The Submarine: "Di fronte ai mutamenti epocali che si sono legati ai processi di globalizzazione, frammentazione della sovranità, declino dei partiti di massa, delle ideologie e delle relative visioni del mondo – con evidenza dal crollo del muro nel 1989 – si è aperto un vuoto che si è intrecciato all’affermarsi della forza egemonica del mercato e dell’impostazione neoliberista dell’economia. Ciò è avvenuto mentre i programmi di partito diventavano inesorabilmente sempre più vaghi e confusi, simili a destra e sinistra e potenzialmente pronti a essere riarticolati secondo strategie governative di coalizione che sembravano rispondere più che altro a logiche di marketing".
Matteo Salvini e Giorgia Meloni © Imagoeconomica
A tutto ciò si deve aggiungere che la vittoria di Giorgia Meloni è la premiazione dell'unico grosso partito rimasto fuori dal governo Draghi e delle larghe intese. Ma, nonostante la vittoria, non avrà la maggioranza dei due terzi del Parlamento. Anzi, se la Lega di Matteo Salvini dovesse uscire dalla coalizione - nelle ultime ore ci sono piccoli attriti interni per il posizionamento del leader del Carroccio che vorrebbe un ministero chiave ma pare che la leader di Fdi non sia della stessa opinione -, il centrodestra non avrebbe più la maggioranza e si verificherebbe una nuova crisi di Governo. La vera maggioranza è la Sinistra e negarlo è mentire dinnanzi all'evidenza. "Se sommate i voti della sinistra, tutta, senza settarismi, ve ne renderete conto - suggerisce la giornalista e saggista Ritanna Armeni, che della sinistra conosce vizi e virtù -. Il punto è che non c’è una politica di sinistra. Non ci sono donne, uomini, organizzazioni, partiti capaci di proposte, mediazioni, compromessi, di diffondere speranze, suggerire novità, di accettare dibattito e contrapposizione, di fare delle differenze il terreno fertile di una nuova proposta. La sinistra ha solo uomini con il mito dell’eroe e donne che forniscono certezze a quel mito. Non conosce l’umiltà, solo la disperazione. Oggi piange perché non sa fare altro di fronte alle difficoltà. Bambini travestiti da adulti. E senza nessuna innocenza”. Il Paese sta vivendo una dinamica di “concentrazione del potere che sulle ceneri della democrazia moderna sta vivendo nuove forme postmoderne di Bonapartismo, che è semmai la conseguenza della mancanza di alternative strategiche a un liberalismo assoluto che occupa tutto il campo politico", come ha detto il professore di Storia della Filosofia dell'Università di Urbino Stefano Azzarà. Una serie di elementi che hanno portato in pochi anni Fratelli d'Italia dall'essere un partitino dell'uno virgola qualcosa a Palazzo Chigi.
E la lezione di Gaber?
Nonostante la legge elettorale Rosatellum vanifichi il potere del "non voto", dato che il nuovo governo si crea indifferentemente dalla partecipazione al voto, dopo la coalizione del centrodestra e il partito degli indegni, il terzo protagonista di spessore di queste "Elezioni 2022" è stato il partito degli astenuti che con il suo 36% ha surclassato ogni aspettativa e battuto tutti i competitor. Unico, compatto, senza coalizioni né programmi; rimasto a guardare fino all'ultimo senza sforzarsi di segnare una X dentro la cabina elettorale: chi per protesta perché sfiduciato dalla Politica, chi per menefreghismo, chi per altri motivi. Ma non per questo inesistente. Al contrario, esiste e la sua crescita è il sintomo dell'incapacità dei vari partiti di scendere nelle strade e coinvolgere tutti non più solo sulle ideologie politiche - se ancora esistono - ma su progetti di sviluppo e sostegno, di welfare e riforme di inclusione sociale a favore del pubblico. Aveva ragione Giorgio Gaber quando nel 1973 cantava “La Libertà”. "Libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione", intonava il compianto cantautore. Cinquant'anni dopo è bene che la politica, e in particolare la Sinistra, comprenda il senso più profondo delle parole di un gigante della musica come Gaber perché, molto probabilmente, il 36% degli aventi diritto al voto si sentono private della loro libertà di partecipazione. O si comprendono le cause di questa tragedia o, continuando di questo passo, tra cinque anni voterà solo un italiano su due. E a quel punto sarà troppo tardi.
Foto di copertina © Imagoeconomica
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