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A “Mezz’ora in più” l'ex premier conferma i sospetti sul servilismo dei partiti agli USA ma si dimentica che anche il M5S andò in America

Fanno pensare, e non poco, le parole che Giuseppe Conte ha pronunciato domenica scorsa a “Mezz’ora in più” su Rai 3. Intervistato da Lucia Annunziata, il leader del Movimento 5 Stelle, parlando del programma politico del Movimento, della politica estera e della guerra in Ucraina, ha detto chiaramente di essere “l’unico leader che in questa campagna elettorale non si è premurato di andare a Washington a spiegare che sono bravo, zitto e buono”. Dichiarazioni che stanno a metà tra una frecciatina a colleghi di palazzo e una confessione e che hanno colto di sorpresa la stessa conduttrice in studio: "Pensavo dicesse che non si è premurato di rassicurare Mosca”, lo ha subito punzecchiato Annunziata. “E invece dice Washington... Partiamo da una situazione indipendente tra Mosca e Washington sulla politica internazionale" del M5s? "Questa è una notizia" ha affermato la giornalista. Resosi conto del terreno scivoloso e delle possibili interpretazioni delle sue parole, Conte ha quindi provvidenzialmente aggiustato il tiro: "No, non c'è equidistanza... la sua è una dolce provocazione ma su questo tema non posso consentire provocazioni. La collocazione euro-atlantica non è stata e non sarà mai in discussione con me. Ho detto più volte che cambia il modo in cui stare sui tavoli internazionali", ha spiegato Conte rivendicando il diritto di dare un "apporto critico" sulla politica internazionale del Paese. Ma non è la prima volta che l’ex premier fa dichiarazioni di questo tipo. Solo dieci giorni fa, ai microfoni di “24 Mattino Estate” (Radio24), premettendo di non aver mai messo in discussione la collocazione euro-atlantica del Movimento, l’ex premier aveva ripetuto di non prendere “ordini da Washington”. Questo perché - ha spiegato - “è importante come si sta in questi consessi internazionali. Io sono leale con tutti i nostri alleati, ma io difendo gli interessi nazionali in modo reale. Non faccio come la Meloni che va a Washington e si va a raccomandare per cercare di governare”. La stoccata era per la leader di Fratelli d’Italia, ma la questione di fondo rimane. E in realtà - anche se Conte non lo ha detto - riguarderebbe anche, e soprattutto, il partito di cui è alla guida. E’ chiaro, stando alle affermazioni di Conte, che in Italia i rappresentanti delle principali forze politiche debbano fare capolino oltreoceano per avere avallo o meno dei propri programmi politici. Ma anche delle proprie nomine. Noi di ANTIMAFIADuemila ne scrivemmo in tempi non sospetti quando trattammo del tradimento compiuto ai danni del magistrato Nino Di Matteo, il cui nome e la cui figura di trasparenza e fedeltà ai valori della Costituzione vennero usati per lungo tempo dai pentastellati come specchietto per le allodole per convincere gli italiani onesti a votarli alle politiche del 2018. Alcuni mesi prima delle votazioni, il Movimento aveva proposto a Di Matteo la guida del ministero degli Interni in caso di un eventuale successo elettorale del partito alle urne. Raggiunto il traguardo di prima forza parlamentare, però, la proposta - che il magistrato aveva accettato - era stata nel frattempo ritirata inspiegabilmente dopo il viaggio fatto a novembre 2017 da Luigi Di Maio alla Casa Bianca. Un tradimento in piena regola sia al magistrato che agli elettori che avevano sperato in quella nomina. Traditi sono stati anche i principi di forza politica anti-sistema e di neutralità geopolitica che il Movimento aveva adottato dal 2009, anno della sua nascita. Una volta al governo, infatti, le storiche posizioni sulla NATO, sull’imperialismo occidentale, sulla lotta alla mafia e la difesa dell’eco-sistema sono venute meno in poco tempo e il Movimento, a partire dal suo fondatore Beppe Grillo, si è adeguato alle comode logiche di potere già collaudate nel Paese. Solo qualche mese fa lo stesso Luigi Di Maio, figlioccio “trasformista” di Grillo, che ora è leader di “Insieme per il futuro”, ha incontrato la speaker della Camera americana Nancy Pelosi all’ambasciata USA a Roma. Un incontro in cui un Di Maio senza ritegno - dopo aver lasciato i 5Stelle due settimane prima - ha dato sfogo a quello che probabilmente è sempre stato, in realtà, il suo amore cieco per Washington, palesato con tanto di giuramento e mano sul cuore all’intonare dell’inno americano. Questa circostanza, aggiunta a quella della vicenda Di Matteo e alle parole di Giuseppe Conte a “Mezz’ora in più”, costituiscono tre chiari indizi che suggeriscono la fondatezza dei nostri sospetti sul mutamento dei 5Stelle dopo la trasferta statunitense. E tre indizi non sono una coincidenza, ma una prova, come ci insegna il mondo della cronaca giudiziaria di cui ci occupiamo da oltre 20 anni. La prova - se le parole di Conte sono veritiere e le nostre valutazioni esatte - è che anche i vertici del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo e Luigi Di Maio in testa, hanno dovuto genuflettersi ai desiderata americani una volta conquistato il potere. Hanno dovuto rivedere i loro capisaldi e venire meno alle promesse fatte agli 8,7 milioni di italiani che hanno sbarrato le loro caselle in cabina elettorale. E tanti saluti ai “vaffa-day”, ai presidi, alle proteste di piazza, alle lotte in Parlamento e agli spettacoli di denuncia di Grillo - padre del Movimento e artefice della sua disfatta - in cui denunciava la mafia, la grande finanza, i colletti bianchi e gli scandali della Repubblica. Lo spettacolo “Te la do io l’America”, in cui Grillo sfotteva proprio il potere americano, è solo un lontano ricordo di un comico che si è dato alla politica e che ha preso per i fondelli persino gli stessi che prima lo applaudivano da cabarettista e poi da presidente di partito. Il prossimo 25 settembre si voterà di nuovo e il Movimento 5 Stelle si presenterà nettamente indebolito rispetto alle politiche di quattro anni fa. Oltre al sentimento di sfiducia che permea i loro elettori, a pesare sul M5S è il voltagabbana dell’ex leader Luigi Di Maio, che si è portato via oltre sessanta parlamentari nel suo nuovo partito, e prima di loro, l’addio di altre decine di parlamentari che, coerentemente, hanno deciso di lasciare nel momento in cui il Movimento aveva deciso di sedere nel governo Draghi, tradendo, ancora una volta, i propri iscritti. Se Conte punta a una rinascita del movimento dopo le elezioni di settembre, dovrà fare i conti con quanto ha seminato negli ultimi quattro anni e raccontare anche tutto ciò che sa riguardo alle trasferte di Di Maio a Washington e del trasformismo di cui soffre il suo partito. Sarebbe un buon punto di partenza per il partito del “cambiamento”.

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