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L'ex Capo dello Stato "ebbe un ruolo propulsivo nella decisione di sostituire" i vertici del Dap

La questione carceraria è indubbiamente uno dei punti chiave di quella interlocuzione tra mafia ed istituzioni. Decine e decine di collaboratori di giustizia sono unanimi nell'affermare che proprio la cancellazione del 41 bis, dell'ergastolo o ancora la legge sui pentiti erano tra i punti del famoso papello che Riina presentò alle istituzioni per fermare l'attività stragista. Dopo le stragi di Firenze, Roma e Milano (dove vi furono un totale di 10 morti e 95 feriti) anche analisti investigativi di primo piano avevano capito che era lì che si giocava la partita.

Dia e Sco avevano capito
Nell'agosto del 1993 una nota della Dia informava l’allora ministro dell'Interno, Nicola Mancino, di come “un’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis” avrebbe potuto “rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”.
Quel documento, in cui per la prima volta il termine "trattativa" viene utilizzato per descrivere quello che stava accadendo nell'immediato post stragi, assieme ad un'altra nota dello Sco del settembre 1994,  dimostra in maniera chiara che in determinati ambienti istituzionali si era compreso che l' “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l'organizzazione: il 'carcerario' e il 'pentitismo'".
Eppure per tanti anni abbiamo assistito a tanti silenzi e, successivamente ai tempi del processo Stato-mafia, ad una sequela patetica di "non so, non sapevo e non ricordo” volti a minimizzare quanto avvenuto.
Oggi, con il deposito delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo trattativa Stato-mafia, con cui la Corte d'assise d'appello di Palermo ha condannato i boss ed assolto gli uomini delle istituzioni, alla negazione dell'esistenza della trattativa viene sostituita la giustificazione per "avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi" con fini "solidaristici (la salvaguardia dell'incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale - e fondamentale - dello Stato".
E' storia che le morti non si interruppero.
Come reagì però lo Stato rispetto alle bombe?
Nelle tremila pagine di sentenza viene ripercorsa l'attività che portò all'avvicendamento dei vertici del Dipartimento amministrazione penitenziaria, passando dal "duro" Nicolò Amato a Alberto Capriotti, fino ad arrivare al mancato rinnovo di 334 provvedimenti di 41 bis, nell'autunno di quell'anno.
E così si scopre che l'ex capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, "ebbe un ruolo propulsivo nella decisione di sostituire" Amato "con una personalità di altro stampo che non aveva certo fama di essere uno strenuo difensore del carcere duro". Mentre l'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso non rinnovò i 334 provvedimenti di 41bis per lanciare un "preciso segnale" a quell'ala di Cosa nostra ritenuta in qualche maniera non incline a stragi e delitti eccellenti.
In molti hanno evidenziato come i giudici della Corte d'assise d'appello abbiano in molte parti censurato le valutazioni dei colleghi di primo grado esprimendo anche un giudizio piuttosto pesante accusando di "acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale (facendosi leva sulla genuinità delle intenzioni sull’avere ignorato retroscena più inquietanti)".
Tuttavia, leggendo la sentenza si evince che anche per il presidente della Corte d’Assise d’Appello Pellino e il consigliere Vittorio Anania (entrambi estensori della sentenza) si capisce che nei mesi che hanno attraversato quel caldo 1993, abbiano individuato delle responsabilità da parte dei più alti vertici istituzionali.


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L'ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro © Imagoeconomica


Il ruolo di Scalfaro
In particolare, è scritto, "deve riconoscersi che una serie di molteplici elementi fattuali convergono a comprovare che l’obbiettivo del Quirinale era proprio quello di favorire e promuovere attraverso l’allontanamento di Amato un cambio di passo, nel senso di un ammorbidimento della politica carceraria". Un cambio che avvenne dopo la strage di Firenze.
In questo avvicendamento, un ruolo lo ebbero anche i vertici dei Cappellani delle carceri, ai quali l’ex presidente della Repubblica era “notoriamente molto vicino".
Proprio Scalfaro avrebbe delegato ai cappellani, “notoriamente contrari al 41 bis” e “particolarmente sensibili alle voci di sofferenza che si levavano dai detenuti”, il compito d’individuare il successore di Amato.
Va ricordato che nel febbraio 1993 fu inviata una lettera anonima al Quirinale da parte di "sedicenti familiari dei detenuti mafiosi che doveva avere lasciato un segno nell’animo del Capo dello Stato, non tanto per le minacce velate – e neanche tanto velate – che gli venivano rivolte, ma per l’appello severo alla sua coscienza di credente e ai suoi doveri quale supremo garante della legalità e del rispetto della dignità dei detenuti”.
Quella missiva venne indirizzata per conoscenza anche ad altre persone come il Papa (il 28 luglio alcune bombe esploderanno nei pressi delle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro a Roma), a Maurizio Costanzo (obiettivo del fallito attentato di via Fauro del 14 maggio) e al vescovo di Firenze (dove avvenne la strage di via dei Georgofili il 27 maggio).
Va ricordato che Scalfaro, ai pm, negò sempre di aver avuto un ruolo nella vicenda Dap, di fatto mentendo.
I giudici di secondo grado scrivono che “l’intenzione del Capo dello Stato, e la preoccupazione che lo aveva indotto ad accelerare da un lato la sostituzione di Amato con Capriotti - peraltro assumendo un’iniziativa che non rientrava affatto tra le sue prerogative costituzionali, poiché lo portava a sostituirsi di fatto all’Autorità politica e di Governo sia pure in un atto di alta amministrazione destinato a sfociare in un Dpr  e dall’altro a stoppare la designazione di Falcone per il posto di Vice Direttore, fosse quella di promuovere e favorire un ammorbidimento della linea del Dap in materia di politica carceraria, lo si evince, indirettamente, da un’altra annotazione contenuta sempre nell’agenda di Ciampi”.
Proprio delle agende dell’allora presidente del consiglio diventa chiaro come Scalfaro ebbe un ruolo di assoluto rilievo in molte dinamiche sulla questione carceraria.
Ciampi annota le preoccupazioni del Capo dello Stato proprio per la nomina del nuovo Capo del Dap, che il ministro Conso in un primo momento aveva individuato in Giuseppe Falcone.
Scrive Ciampi: "Rappresenta di preoccupazioni per il seguito della successione di Amato alla Dir. Carceri: Conso avrebbe nominato anche un vice, troppo duro. Suggerisce che gli venga affiancato Giudice Di Maggio: fa capire che è stato interessato da Parisi. Chiamo pure quest‘ultimo, che conferma quanto sopra”. E poi ancora annota: “Chiamo allora Conso che, al contrario, mi riferisce che tutto procede nel miglior modo; gli suggerisco di mandare messaggio che politica carceraria non cambia. E’ d’accordo. Domani verrà da me. Riferisco a Scalfaro il tutto fra 22 e 22,30)”. Dunque il Governo di allora si mosse in concerto con il Quirinale per intervenire in quel delicatissimo momento.
Analizzati gli atti, secondo i giudici d'appello, è dunque lecito pensare "ad una sintonia di intenti del Presidente del Consiglio con il Presidente Scalfaro".

Obiettivo ammorbidimento
Scrive ancora la Corte in sentenza che “questo coacervo di elementi e indicatori fattuali induce a convenire con il giudice di prime cure che il presidente Scalfaro ebbe un ruolo propulsivo nella decisione di sostituire Amato con una personalità di altro stampo, vicino agli stessi ambienti cattolici, e che non aveva certo fama di essere uno strenuo difensore del carcere duro. La logica che ispirò quell’iniziativa fu certamente quella del capro espiatorio, nel senso di dare soddisfazione, al fine di stemperare la tensione e il rischio di ulteriori attentati come quello di Firenze, alle doglianze e alle accuse come quelle dell’esposto anonimo provenienti da ambienti della criminalità organizzata, che additavano in Niccolò Amato il principale paladino della linea dura in materia di trattamento detentivo e ne facevano automaticamente il responsabile degli eccessi e degli abusi che la quotidiana applicazione di quella linea poteva aver prodotto”. E ancora, insistono i giudici, “può persino darsi per provato che l’obbiettivo del Quirinale e degli ambienti istituzionali che operarono di conserva con il Capo dello Stato andasse oltre limiti di una soluzione in chiave di capro espiatorio, puntandosi ad un effettivo ammorbidimento della politica carceraria fin lì improntata alla linea dura”.


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L'ex ministro di Grazia e Giustizia, Giovanni Conso © Imagoeconomica


Il ruolo di Conso
Nelle tremila pagine delle motivazioni la Corte "condivide le conclusioni cui è pervenuto il giudice di prime cure secondo cui il reato può dirsi consumato in ragione della ricezione della minaccia da parte dell'allora Ministro della Giustizia Giovanni Conso".
Ma quale fu il ruolo dell'ex guardasigilli che disse ai giudici di aver deciso in  completa "solitudine" di non rinnovare 334 provvedimenti di carcere duro per altrettanti detenuti mafiosi nel novembre del 1993?
I giudici d'appello hanno ricostruito l'operato di Conso anche riprendendo in mano le stesse dichiarazioni fatte davanti alle commissioni parlamentari d’inchiesta sulle stragi.
In quelle occasioni Conso ha sostenuto di aver ricevuto due elenchi: il primo conteneva i nomi di 334 detenuti “considerati di media o minore pericolosità” per i quali il 41 bis sarebbe scaduto nel novembre del ’93. Nel secondo c’erano i nomi di 232 detenuti di maggiore pericolosità che avrebbero visto scadere il provvedimento di carcere duro nel mese di gennaio 1994.
Dunque l'ex ministro della Giustizia ha raccontato di aver deciso “di non rinnovare in blocco quelli del primo elenco senza neppure informarsi dell’effettivo spessore criminale di ciascuno di loro” e prorogare il 41bis ai soggetti contenuti nel secondo elenco.
Una decisione quantomeno singolare, se si pensa che in quel primo elenco c’erano anche mafiosi di rango importante come Giuseppe Farinella, Andrea Di Carlo (fratello di Francesco, boss di Altofonte, noto per i suoi legami con i servizi segreti), Giovanni Prestifilippo (padre di Mario, killer dei corleonesi) e Nené Geraci.

Il segnale lanciato ai moderati
La valutazione che fa la Corte di quella differente decisione è che il mancato rinnovo dei 41 bis a novembre fosse un segnale lanciato “a chi poteva intenderlo”.
Ovvero che "il 41 bis non era in discussione, ma si poteva discutere o metterne in discussione l’applicazione o il rinnovo per soggetti che non si riconoscessero nello stragismo, o a carico dei quali non v’erano elementi per ritenere che fossero compromessi con lo stragismo”.
I giudici, dunque, scrivono che il ministro della giustizia aveva intenzione di lanciare “un preciso segnale in una precisa direzione: pugno di ferro per i capi e promotori, gesto di indulgenza per chi non fosse compromesso con lo stragismo. E a tal fine era necessario che entrambe le decisioni, ancorché di segno opposto, fossero adottate senza distinguere tra le posizioni, ma utilizzando solo un criterio discrettivo congruo a far intendere quel segnale".
Secondo i giudici quella decisione di Conso maturò perché "qualcuno deve averlo edotto di ulteriori elementi di conoscenza dei fatti, che egli poi ha valutato, facendone derivare quella sua autonoma decisione finale; e che tali elementi non possono che essere quelli indicati dallo stesso Conso e rimandano a una differenziazione di posizioni all’interno di Cosa Nostra tra un’ala dura, facente capo a Riina e una componente più moderata, capeggiata da Provenzano, interessato agli affari e quindi ‘meno esageratamente ostile' allo Stato”.
Ma come faceva il ministro a sapere che dentro Cosa nostra si erano formate due fazioni diverse? Secondo i giudici è possibile - ma non completamente provato - che gli fosse stato riferito da Di Maggio che era in stretti rapporti con Mori: i due avevano lavorato insieme all’Alto commissariato antimafia. Se da una parte la Corte d’Assise d’Appello scarta l’ipotesi di una regia di Mori dietro alla nomina di Di Maggio come vicecapo del Dap, dall’altra definisce “concreti e pregnanti gli elementi che avvalorano l’ipotesi che Mori abbia avuto un ruolo nel propiziare la scelta di Conso di non rinnovare i decreti venuti a scadenza in quel mese di novembre del ‘93: ovvero, che sia stato Lui e non altri a indurre Di Maggio ad adoperarsi in una sorta di moral suasion per orientare quella scelta (o per corroborarla, se già il Ministro vi era spontaneamente propenso)”.
Ma, la prova decisiva non c'è.
L'ex ufficiale del Ros è stato assolto anche se "si può concedere - non senza qualche residua titubanza sulla piena congruenza del compendio probatorio - che sia stato Mori, e non altri, a chiudere per così dire il circuito dell’iter realizzativo della minaccia qualificata per cui qui si procede, facendola pervenire al suo naturale destinatario, e cioè il Governo della Repubblica, nella persona del Ministro competente per materia (provvedere sulle richieste estorsive già avanzate da Cosa Nostra e divenute prioritarie in quel frangete storico). Giovanni Conso, nella qualità di Ministro della Giustizia in carica, veniva edotto per un verso dell’esistenza di una fronda interna a Cosa Nostra, o comunque dell’esistenza di una componente autorevolmente rappresentata che era propensa ad abbandonare la linea dura della contrapposizione violenta allo Stato e alle istituzioni per tornare a dedicarsi agli affari e alla più proficua pratica degli accordi collusivi con la politica. Ma Conso veniva edotto altresì di ciò che un’altra parte dell’organizzazione mafiosa si aspettava o comunque pretendeva che il Governo facesse, e delle conseguenze prospettate nel caso in cui le sue richieste non fossero state accolte o le sue aspettative fossero andate deluse, come già era accaduto nel luglio del ‘93”.
A leggere queste pagine, che diventano storia, si resta basiti. E allora forse aveva ragione Giovanna Maggiani Chelli, compianta presidente dell'associazione familiari vittime dei Georgofili, quando diceva che l'unico modo per istituzioni e politica di dare una risposta alla sete di giustizia è “ammettere una responsabilità morale”. Che qualcuno abbia questo coraggio, oggi, sembra solo un “sogno impossibile”.

Foto di copertina © Imagoeconomica

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