Su L’Espresso l’articolo del magistrato: vanno accertate eventuali convergenze di interessi di soggetti estranei alla mafia nelle stragi
“Chi azionò il telecomando che fece esplodere l'autobomba il 19 luglio 1992? Quali sono le ragioni dell’accelerazione dell’eliminazione di Paolo Borsellino? Ci fu una finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti nella strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato? Chi era la persona rimasta sconosciuta, indicata da Spatuzza, presente al momento della consegna della Fiat 126? Chi sono gli infiltrati in via d’Amelio ai quali si riferiscono Mario Santo Di Matteo e la moglie nella nota intercettazione del loro dialogo? E poi: perché è cessata la campagna stragista dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico nel 1994?”. Sono questi gli interrogativi che il magistrato Luca Tescaroli, oggi impegnato alla Dda di Firenze, ha posto in un articolo pubblicato lo scorso 19 luglio su L’Espresso in occasione dell’anniversario della strage di via d’Amelio. Dopo trent’anni, sei sono le principali domande tuttora aperte e da chiarire in sede processuale. Su alcune di queste, il procuratore aggiunto di Firenze, che ora sta indagando sulle stragi di mafia del ’93 e sui mandanti esterni insieme al collega Luca Turco e sotto il coordinamento del procuratore Capo Giuseppe Creazzo (da poco trasferito), ha cercato negli anni di darsi e dare delle risposte ai parenti delle vittime e all’opinione pubblica. Ma la strada per la ricerca della verità è lunga e complessa, specie se a percorrerla sono pochi volonterosi addetti ai lavori, per lo più isolati. Intanto però molti tasselli sono stati comunque chiariti grazie alle indagini dei magistrati, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, le intercettazioni, le ricostruzioni e le varie sentenze passate in giudicato. Il tutto viene ricostruito nell’articolo del procuratore aggiunto come un puzzle al quale, però, manca ancora qualche tassello, come osserva l’autore a fine testo. Tescaroli riassume la vicenda Borsellino partendo dalla fine, cioè dal giorno della sua uccisione. “Dopo appena 57 giorni dall’assassinio di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta, il 19 luglio 1992, nella medesima città a Palermo o, comunque, nelle immediate vicinanze, si verificava la strage di via Mariano d’Amelio, costata la vita a Paolo Borsellino e a 5 agenti della scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Eddie Walter Cosina”, esordisce il magistrato.
La strage di via d'Amelio © Shobha
“Un attacco terroristico ed eversivo diretto al cuore delle istituzioni - ha spiegato Tescaroli - capace di generare disordini, panico e sgomento tra i cittadini, idoneo a intervenire sui poteri fondamentali dell'assetto costituzionale, quello giudiziario e quello legislativo, di compromettere la sicurezza dello Stato, posto che faceva emergere l'incapacità degli organi statali a tutelare i suoi funzionari più esposti a rischio, attuato con un'autobomba imbottita da circa 90 chilogrammi di esplosivo plastico Semtex-H di tipo militare e di produzione cecoslovacca, che cosa nostra aveva già impiegato. Sui reperti trovati a seguito della strage del treno rapido 904 del 23 dicembre 1984, furono, infatti, rinvenute tracce sia di pentrite sia di T4 (RDX), componenti del Semtex, alcuni pani del quale sono stati rinvenuti sia nella villa di Pippo Calò immersa nel verde del rietino, a Poggio San Lorenzo, sia nel deposito bunker di San Giuseppe Jato, in contrada Giambascio, costruito dall'imprenditore Giuseppe Monticciolo, genero di Giuseppe Agrigento, arrestato il 20 febbraio 1996, che immediatamente iniziò a collaborare con la giustizia”, ha ricordato l’autore. “La strage di via d'Amelio, a livello istituzionale, produsse un condizionamento del potere legislativo, che si concretizzò nella conversione in legge il 7 agosto del decreto legge dell'8 giugno 1992, superando le difficoltà connesse alle contrapposizioni politiche che fino a quel momento avevano accompagnato il difficoltoso cammino parlamentare. Quel decreto aveva varato misure repressive di contrasto alla criminalità mafiosa, fra le quali, l'estensione del regime del carcere duro ai mafiosi di cui all'art. 41 bis O. P. (che in molti oggi intendono eliminare) e un inasprimento della regolamentazione dell'ergastolo ostativo per i mafiosi che impediva loro l'ottenimento dei benefici penitenziari, fra i quali, quelli della liberazione condizionale e dei permessi premio (che, nel 2019 e nel 2021, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale)”, ha puntualizzato Tescaroli.
“Il giorno dopo l'attentato vennero sottoposti al 41 bis centinaia di mafiosi, che vennero spediti nelle carceri di Pianosa e dell'Asinara; di lì a qualche giorno vennero inviati in Sicilia 7000 uomini dell'esercito. Una prima prova di forza del Ministro di Grazia e Giustizia e del nuovo Governo presieduto dall'on. Giuliano Amato, che il 18 giugno precedente aveva ricevuto l'incarico di formare il nuovo esecutivo dal neo eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro”.
Il procuratore aggiunto di Firenze, Luca Tescaroli © Paolo Bassani
Continuando nel riassunto di quei giorni concitati, Tescaroli ha ricordato che Borsellino, “indicato pubblicamente dal Ministro dell'Interno in carica come naturale successore di Falcone nella guida della Procura Nazionale Antimafia, consapevole di essere isolato una vittima designata, aveva compreso l'intreccio esistente tra l'area criminale di Cosa Nostra e le sfere istituzionale, imprenditoriale e politica per averlo costatato nel corso del suo lavoro”. Quindi il magistrato ha rammentato le attività investigative svolte in quel periodo dal magistrato: “Nei frenetici cinquantasette giorni che precedettero la sua morte, è risultato impegnato nella gestione di plurimi collaboratori di giustizia: Leonardo Messina, il quale aveva iniziato a collaborare con lui a seguito della strage di Capaci, spiegando, fra l’altro, come funzionava il meccanismo spartitorio degli appalti pubblici tra cosa nostra, gli esponenti politici e gli imprenditori e delle correlate tangenti pagate da questi ultimi; Gioacchino Schembri, appartenente alla stidda di Palma di Montechiaro, che conosceva le dinamiche sottese all’assassinio del giudice Rosario Livatino; Gaspare Mutolo, che aveva iniziato a lanciare accuse nei confronti di appartenenti alle istituzioni e, in particolare, dei Servizi Segreti, il quale riferì che, mentre Borsellino lo stava interrogando, quest'ultimo aveva ricevuto una telefonata da parte del Ministro dell'Interno e che il magistrato, una volta recatosi al Ministero, aveva trovato il capo della Polizia dottor Vincenzo Parisi e il dottor Bruno Contrada al posto del Ministro”.
Secondo Tescaroli, che in passato si occupò del processo sull’attentato che uccise Falcone, “Borsellino aveva manifestato il proposito di individuare i responsabili della strage di Capaci e, nel corso di un’intervista a due giornalisti francesi Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo, aveva fatto riferimento a Vittorio Mangano, e sostenuto di essere a conoscenza di rapporti tra mafiosi ed esponenti del mondo imprenditoriale, citando l'esistenza di una indagine nei confronti di Marcello Dell'Utri. E aveva pubblicamente manifestato l'intenzione di essere sentito come testimone dai magistrati di Caltanissetta per mettere a disposizione quanto a sua conoscenza sulla strage di Capaci, ma non venne ascoltato”. Perciò, secondo Tescaroli, “non sapremo mai cosa avrebbe riferito”.
"In quel lasso temporale del 1992 - ha continuato - i vertici di cosa nostra ricevettero un segnale istituzionale, consistito nell’avvio di una trattativa da parte di esponenti delle istituzioni (ufficiali del ROS). Nella prospettiva dei mafiosi, suonava come una conferma che la loro attività stragista, proiettata a colpire lo Stato minacciandolo per ottenere benefici, fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali. Se fosse stato informato dei negoziati in corso tra i vertici del sodalizio ed esponenti delle istituzioni, Borsellino si sarebbe certamente opposto. La strage inghiottì l'agenda rossa dell'Arma dei Carabinieri che il magistrato portava con sé, ove annotava i dati rilevanti. Venne fatta scomparire dopo l'attentato e a oggi non sono stati ancora raccolti elementi chiarificatori in grado di dipanare, in maniera definitiva, la matassa relativa alle modalità della sparizione. Certamente non fu opera di cosa nostra”, ha sentenziato il procuratore aggiunto.
L'ex senatore, Marcello Dell'Utri © Imagoeconomica
Tescaroli ha quindi ricordato che “a distanza di trent'anni, decine di ergastoli sono stati irrogati, con plurimi verdetti della Corte di Cassazione, fra i quali, quelli del 17-18 gennaio 2003 e del 18 settembre 2008. Tre processi celebrati (c. d. via d'Amelio bis, ter e quater) hanno condotto al riconoscimento del coinvolgimento di cosa nostra nella deliberazione, ideazione ed esecuzione della strage, con condanna definitiva dei componenti degli organi di vertice del sodalizio: la commissione provinciale di Palermo e la commissione regionale”. E ancora, scrive Tescaroli: “Sono state individuate le ragioni dell'eccidio: la vendetta di un acerrimo nemico di cosa nostra, protagonista del maxiprocesso; l'esigenza di natura preventiva dell'uccisione del dottor Borsellino, derivanti dal pericolo per quanto stava facendo e avrebbe potuto effettuare, che possiedono una specificità rispetto al più ampio progetto criminale aperto, attuato nel triennio 92-94, in cui l’evento delittuoso si inserì tanto da comportare un’accelerazione della strage e di stoppare l’attività preparatoria in corso volta a colpire un altro obiettivo (l’on. Calogero Mannino).
Uomini d’onore appartenenti alle famiglie mafiose di San Lorenzo, di Porta Nuova, di Brancaccio, di Corso dei Mille e della Noce sono stati coinvolti nell’esecuzione della strage”. Tescaroli ha quindi riportato il depistaggio messo in atto per deviare le indagini sulla bomba di via d’Amelio. “Una porzione significativa della stessa strage è stata ricostruita ancora una volta con il fondamentale ausilio di più collaboratori di giustizia, fra i quali, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante, Giovanni Brusca, Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina, che hanno anche consentito di smascherare il depistaggio attuato da un soggetto non appartenente a cosa nostra Vincenzo Scarantino, con l'ausilio di Salvatore Candura, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, che aveva portato alla condanna anche di sette mafiosi innocenti (poi, assolti a seguito di giudizio di revisione)”.
Sempre sul depistaggio, l’autore dell’articolo aggiunge poi ricordando che “sono stati accusati di aver contribuito al depistaggio anche appartenenti alle forze dell'ordine e il relativo processo è in fase di celebrazione”. Passando invece a ciò che è stato accertato sull’esecuzione dell’attentato, Tescaroli scrive che “una settimana prima della strage, Fabio Tranchina compì due appostamenti in via Mariano d'Amelio insieme a Giuseppe Graviano, il quale gli chiese, in un primo momento, anche di procurargli un appartamento nelle vicinanze, per poi dirgli che aveva deciso di piazzarsi nel giardino dietro un muretto in fondo a via d'Amelio per azionare il telecomando che provocò l'esplosione. Su incarico di Giuseppe Graviano (veicolato tramite Cristofaro Cannella), Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino rubarono una Fiat 126, tra la fine della prima settimana di luglio e la sera del giorno nove. La proprietaria dell’auto, Pietra Valenti sporse denuncia di furto il 10 luglio 1992. Dopo le iniziali difficoltà, Tutino riuscì a rompere il bloccasterzo con un "tenaglione" e l’auto venne portata via a spinta. La ricoverarono nel magazzino di via Gaspare Ciprì, n. 19, a Palermo.
Il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano
Dopo il furto, Spatuzza incontrò Giuseppe Graviano a Falsomiele nella casa di Cesare Lupo (cognato di Fabio Tranchina) e lo informò di alcuni problemi che l’autovettura presentava alla frizione e ai freni. Graviano gli raccomandò di ripristinarne l’efficienza e di togliere dalla macchina ogni elemento che potesse consentire di risalire al proprietario. E così fece. Si era, perciò, rivolto a un meccanico di sua conoscenza, che lavorava presso l’officina di Agostino Trombetta per farle riparare e per questo aveva pagato 100.000 lire.
Poi, Spatuzza la trasportò sabato 18 luglio 1992, mentre Cannella e Antonino Mangano lo precedevano alla guida di due auto per indicargli il percorso, nel garage di via Villasevaglios, ove Lorenzo Tinnirello, Francesco Tagliavia e altri membri del commando operativo la imbottirono di esplosivo. Tutino e Spatuzza recuperarono due batterie e un'antenna per alimentare e collegare i micidiali dispositivi destinati a far brillare la carica, nonché le targhe, che venivano consegnate a Giuseppe Graviano, da apporre alla 126 rubata per dissimularne la presenza sui luoghi della strage. Su incarico di Giuseppe Graviano, Tranchina procurò il telecomando. Salvatore Biondo (classe 1955), l'omonimo Salvatore Biondo (classe 1956), Domenico e Stefano Ganci, Cristofaro Cannella e lo stesso collaboratore Ferrante hanno provato il funzionamento del telecomando e dei congegni elettrici che servirono per l'esplosione e segnalato telefonicamente, anche procedendo a pedinamenti, gli spostamenti del giudice Borsellino e della scorta fino a poco prima della strage (dato che ha trovato conferma nell’analisi dei tabulati telefonici delle utenze poste nella loro disponibilità).
Salvatore Biondino, in particolare, avvisò Ferrante perché la domenica 19 luglio si sarebbe dovuto colpire il dottor Borsellino e lo incaricò di segnalare lo spostamento del giudice dalla sua abitazione. Raffaele Gangi, il quale fornì un notevole contributo, informò Salvatore Cancemi che l'attentato sarebbe avvenuto quella domenica sotto casa della madre del giudice. Biondino aveva già riferito a Giovanni Brusca di "essere sotto lavoro". I membri del commando operativo si incontrarono a casa di Priolo immediatamente dopo l’evento per brindare al buon esito della strage”, conclude Tescaroli nella sua ricostruzione dell’attentato.
Rimangono, invero, gli spunti investigativi e interrogativi che Tescaroli ha indicato nell’articolo. Spunti e interrogativi “che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione della strage”.
Foto di copertina © Imagoeconomica
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