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In via Pipitone, luogo della strage, svolta la commemorazione. Presenti la figlia Caterina e l’autista sopravvissuto Paparcuri

Erano le 8.10 del 29 luglio 1983 quando una Fiat 126 imbottita di tritolo venne fatta saltare in aria dalla cupola di Cosa Nostra in via Federico Pipitone, a Palermo. L’esplosione dell’autobomba, dello stesso modello di quella adoperata in via d’Amelio nove anni dopo, travolse e uccise il giudice Rocco Chinnici, i due carabinieri della scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile dove viveva il giudice, Stefano Li Sacchi. Dopo la deflagrazione, sull’asfalto bollente non rimanevano che le carcasse dell’auto in fiamme sulla quale viaggiava il capo dell’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo e la sua scorta, i loro corpi, le lamiere, i vetri rotti. E poi le sirene, le grida disperate della famiglia accorsa dal civico 59. Uno scenario da guerra. Non a caso l’indomani i giornali paragonarono Palermo a Beirut, dove al tempo era in corso una feroce guerra civile.


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La bomba, composta da quintali di tritolo azionati a distanza, scosse violentemente l’intero isolato. Cosa Nostra non aveva mai realizzato un attentato di quella portata contro un uomo dello Stato prima di allora. E lo fece perché questa volta l’uomo da eliminare per quel tempo era un’istituzione in sé: magistrato all’avanguardia  nella lotta alla mafia e una minaccia per l’intera organizzazione.





Chinnici, nato a Misilmeri nel 1925 ed entrato in magistratura a soli 27 anni, era infatti un magistrato particolarmente moderno: dopo essere diventato capo dell’Ufficio Istruzione a Palermo, progettò e creò un gruppo di lavoro, una scelta per allora rivoluzionaria e non ancora supportata da un apposito sostegno legislativo, dando forma a quello che sarà poi definito “pool antimafia”. Accanto a sé, Chinnici chiamò due giovani magistrati: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ed è proprio con loro - insieme ai magistrati Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta - che mise in cantiere i primi atti d’indagine di quelli che si caratterizzeranno come i più importanti processi di mafia degli anni Ottanta. Tra questi: il processo “Michele Greco +161” (poi incorporato nel maxi processo), il processo Spatola e quello sull’omicidio del capitano Basile.


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Preceduto da una scia infinita di omicidi eccellenti - tra i quali Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Calogero Zucchetto, Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Carlo Alberto dalla Chiesa - Chinnici individuò il cosiddetto “terzo livello” stante sopra Cosa nostra. Non a caso indagò, in segreto, sui potenti cugini Salvo (poi ritenuti i mandanti dai pm del primo grado del processo Chinnici), gli imprenditori fedelissimi a Salvo Lima e Giulio Andreotti.
Ma l’attività del giudice non si esaurì, però, all’interno delle aule di giustizia o nell’ufficio di Piazza Vittorio Emanuele Orlando. In tempi duri per Palermo, erano gli anni della guerra di mafia, Chinnici era un magistrato impegnato a sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni, rivolgendosi, particolarmente, alle giovani generazioni.


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La sua era un’opera di sensibilizzazione e di amore per la terra che amava, la Sicilia, come ha ricordato la figlia Caterina. “Mio padre amava profondamente la Sicilia, ha scelto di impegnarsi per questa terra e lo ha fatto anche accettando il rischio per la sua vita”, ha detto l’europarlamentare ai nostri microfoni. Questa mattina, infatti, in via Pipitone, Caterina Chinnici era presente insieme ad ex colleghi del padre, altri familiari delle vittime di mafia, uomini delle istituzioni e ufficiali dell’Arma dei Carabinieri - anch’essa colpita quel 29 luglio con le morti del maresciallo Trapassi e dell’appuntato Bartolotta - per la cerimonia e la deposizione della corona di fiori in ricordo del padre.





Credo che ricordarlo sia veramente importante perché il lavoro che ha iniziato oltre 40 anni fa in una condizione difficile, oggi è un lavoro ancora attuale sul quale si evolve ulteriormente la legislazione europea”. “Fu un visionario”, lo ha poi definito Caterina Chinnici. Dello stesso parere è Antonio Balsamo, presidente del Tribunale di Palermo, anche lui presente alla cerimonia. “Chinnici è stato un magistrato che ha precorso i tempi. Ha avuto una serie di intuizioni come il lavoro collettivo nella giurisdizione, il contrasto alla dimensione economica della criminalità organizzata e lo sviluppo di forme nuove di cooperazione internazionale. Sono tutti patrimoni comuni di tutti i paesi impegnati contro la criminalità organizzata”, ha ricordato Balsamo. Il presidente del Tribunale ha poi ricordato la “profonda umanità” di Chinnici che “ha segnato nell’animo una generazione di palermitani”.


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Tra questi anche i giovani magistrati di allora come Pietro Grasso, ex capo della Direzione Nazionale Antimafia e ora leader politico in capo a LeU. “Quando sono arrivato alla procura di Palermo noi giovani magistrati lo chiamavamo ‘papà Rocco’”, ha ricordato il senatore. “Era pieno di consigli per noi giovani”. Tra i presenti stamani c’era anche l’allora autista del consigliere Chinnici, Giovanni Paparcuri, unico sopravvissuto all’autobomba.
Rocco Chinnicioltre ad essere un bravo magistrato era una bravissima persona dotata di grande umanità”, ha detto. “Oggi è una giornata particolare. Siamo arrivati a 39 anni ma per me è come se fosse ieri. Il 29 luglio 1983 me lo porto dietro ogni giorno, è un ricordo perenne”.

Foto © Deb Photo

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