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Ros, servizi, e governo già il 15 giugno ’92 sapevano di un avviato progetto di morte, ma Borsellino venne allertato solo settimane dopo

Nel corso degli ultimi 30 anni, tanti sono gli interrogativi piovuti, senza risposta, sulla tragica uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta. Tra i più ricorrenti, questo: lo Stato ha fatto di tutto per salvarlo? La risposta è un no categorico. E oggi ne abbiamo ulteriore certezza grazie ad inequivocabili documenti.
Che Paolo Borsellino fosse la seconda preda di Cosa Nostra, dopo l’amico e collega Giovanni Falcone, ucciso il 23 maggio a Capaci, era cosa tragicamente risaputa. “Mi uccideranno”, ripeteva il magistrato in quelle settimane concitate. Quel che però non era risaputo è che già un mese prima dello scoppio della Fiat 126 in via d’Amelio, organi di Stato erano a conoscenza, ma non dissero nulla al procuratore, di un avviato progetto di attentato dinamitardo nei suoi confronti. La notizia è giunta alle cronache come un bolide lo scorso 19 luglio, giorno del trentesimo anniversario della mattanza, grazie a un’inchiesta di Simona Zecchi per TPI. La giornalista, infatti, ha scovato due documenti contenuti nel fascicolo del Sisde a loro volta contenuti nell’Archivio di Stato a Roma riguardanti il caso Borsellino. In quelle carte si dà atto, in sostanza, che governo, servizi segreti e Ros sapevano dell’imminente attentato già a metà giugno ’92. Un mese prima dell’effettiva strage.
“Fonte fiduciaria ha riferito di ritenere che negli ambienti della criminalità organizzata sarebbe stato preparato un attentato alla vita del procuratore aggiunto di Palermo, dott. Paolo Borsellino”. Questo appunto informale è stato scritto dal Comando generale dell’Arma dei Carabinieri e spedito al Cesis, organo di coordinamento dei servizi segreti, il 18 giugno 1992. La “fonte fiduciaria” era il boss di Terrasini Girolamo D’Anna, appartenente al mandamento di San Lorenzo, che tre giorni prima la redazione della nota, il 15 giugno, ricevette nel carcere di Fossombrone, dove era detenuto, il maresciallo Antonio Lombardo (che ne raccoglieva le confidenze) al quale confessò che l’attentato per il magistrato palermitano era già in stato avanzato di progettazione al punto che l’esplosivo da adoperare era già arrivato. Le confidenze di D’Anna vennero comunicate da Lombardo (che morirà in circostanze poco chiare nel ’95) ai suoi superiori: il colonnello del Ros Umberto Sinico e il capitano Giovanni Baudo, anche loro avevano visitato in cella il mafioso. Ne seguirono due note informali, la prima, quella del 18 giugno inviata ai servizi, la seconda del 20 giugno, redatta dall’Arma di Palermo. “L’Arma di Palermo ha appreso da fonte fiduciaria che negli ambienti della criminalità organizzata potrebbe essere progettato un attentato alla vita del locale Procuratore aggiunto Dr. Paolo Borsellino. La fonte non ha saputo fornire ulteriori precisazioni”. Di questo appunto ne vengono messe a conoscenza, come si legge nell’allegato, la Presidenza del Consiglio tramite il Cesis, il Sismi, il Sisde, la Dia e perfino l’Alto Commissariato contro la mafia, organo che operava su delega del Viminale, istituito dopo la morte di Dalla Chiesa e soppresso nel ’93. Insieme a questo documento, nelle carte rilegate nella pratica recuperata da TPI, c’è anche un rapporto del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri indirizzato al direttore del Cesis, datato, anche questo, 20 giugno ’92, nel quale vengono indicati altri possibili bersagli di Cosa Nostra: il colonnello Sinico, il maresciallo Carmelo Canale (amico di Borsellino e anni dopo assolto dall’accusa di collusione con la mafia), l’allora ministro della Difesa Salvo Andò e l’allora ministro del Mezzogiorno Calogero Mannino (processato e assolto in uno stralcio del processo Trattativa Stato-mafia).


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L'ex commandante del Ros, Mario Mori © Imagoeconomica


I silenzi dell’Arma
Ma il punto chiave è un altro. Non è dato sapere fino a che punto l’arma, guidata dall’ex generale Antonio Subranni (condannato in primo grado al processo Trattativa e assolto in appello) si sarebbe mossa per avvisarlo di questo progetto di attentato. Nella nota si legge che il magistrato Borsellino “correrebbe seri pericoli per la sua incolumità a causa delle ultime inchieste sulla mafia trapanese”.
Subranni, su un appunto del 19 giugno, scrisse che per i “dipendenti Canale e Sinico” le contromisure necessarie sono state già prese e che per quanto concerne gli altri personaggi minacciati ad occuparsene dovrebbero essere gli organi competenti: ossia, scrive TPI, la procura e il Controllo per la sicurezza pubblica.
In quella nota Subranni riportò inoltre che Borsellino sarebbe stato d’accordo con una delle disposizioni prese a tutela di Canale e che la procura di Palermo era stata informalmente messa al corrente. Tutto troppo fumoso.
Si tratta di provvedimenti presi a tutela dei membri dell’arma, tra l’altro per fatti diversi da quel progetto di attentato.
E su Borsellino? Che provvedimenti vi furono? La domanda è lecita.
Noi sappiamo che il Ros, che conservava questa confessione di D’Anna, incontrò Borsellino il 25 giugno. In particolare il magistrato si vide con il comandante Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno alla caserma di Carini. Entrambi erano sottoposti di Subranni, il generale dei Carabinieri. Ma i due vennero informati dell’informativa sul progetto di attentato, per giunta redatta dal Comando generale dell’Arma dei Carabinieri? E, in caso, ne parlarono al procuratore? Quel che si sa, almeno stando alle dichiarazioni di Mori ai pm, è che nell’incontro i due parlarono con Borsellino dell’inchiesta “mafia-appalti” anche se per Carmelo Canale, invece, grande amico di Borsellino e anche lui presente quel giorno, il tema dell’appuntamento ruotò attorno alla vicenda del “Corvo 2”. Ufficialmente, quindi, che Mori e De Donno fossero al corrente dell’informativa del Ros non è dato sapere, come non è dato sapere se effettivamente allertarono Borsellino del fatto. Resta però una domanda aperta: possibile che due ufficiali di quel grado fossero completamente a digiuno di una tale notizia concernente, per giunta, il magistrato che avrebbero dovuto incontrare?


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La moglie di Paolo Borsellino, Agnese Piraino con il magistrato Antonino Caponetto


La versione di Sinico cozza con le parole di Agnese Borsellino
Ad ogni modo. Tornando a Girolamo D’Anna, il colonnello Sinico ha sempre detto ai magistrati che lo hanno sentito di essere andato direttamente da Borsellino a riferirgli del piano di attentato di Cosa nostra e di averlo fatto subito: uno o massimo due giorni dopo averlo saputo da Girolamo D’Anna. A Sinico il procuratore avrebbe risposto: “Lo so, lo so, io devo lasciare qualche spiraglio, altrimenti se la prendono con la mia famiglia”. Dalle parole del maresciallo sembrerebbe che Borsellino fosse già cosciente di quel progetto fatale. Nulla di nuovo per lui insomma. Ma allora perché Borsellino sobbalzò quando, all’aeroporto di Fiumicino, l’ex ministro della Difesa Salvo Andò lo informò della cosa? Era il 28 giugno, dieci giorni dopo la redazione dell’appunto dei carabinieri e tre giorni dopo l’incontro con il Ros a Carini. Questa la dinamica dei fatti su quella giornata per come la raccontò ai magistrati Agnese Piraino, moglie di Borsellino: la coppia, di ritorno da un viaggio a Bari, incontrò per caso a Fiumicino il ministro e Liliana Ferraro, all’epoca membro della direzione generale degli Affari Penali, la quale, in disparte, accennò al procuratore che Mario Mori e Giuseppe De Donno, tramite Vito Ciancimino, avevano imbastito la famosa trattativa con Cosa nostra per fermare le stragi. Andò, invece, riferì al magistrato dell’informativa che lo riguardava insieme alla Ferraro. Borsellino reagì con sorpresa e sgomento a detta della moglie. Fu solo in quel momento, infatti, che il magistrato seppe di essere già tra le fauci della tigre: era ufficialmente iniziata la sua corsa contro il tempo. Finito il colloquio con il ministro, Borsellino ne riferì il contenuto alla moglie dalla quale si era momentaneamente allontanato: “Disse che era giunta notizia da fonte confidenziale che dovevano fare una strage per ucciderlo, e che ciò sarebbe avvenuto a mezzo di esplosivo”, riportò Agnese Piraino ai magistrati. “Mi disse che era stata inviata una nota alla Procura di Palermo al riguardo, e che Andò, di fronte alla sorpresa di mio marito, gli chiese: ‘Come mai non sa niente?’”. La vicenda è nota: la procura di Palermo, nella persona del procuratore Capo Pietro Giammanco, venne informata dell’imminente attentato ma anch’essa non allertò il diretto interessato.
Posso solo dire, per esserne stata testimone oculare, - riferì in aula Agnese Borsellino sulla vicenda - che mio marito si adirò molto quando apprese per caso dall'allora ministro Salvo Andò, incontrato all'aeroporto, che un pentito aveva rivelato: è arrivato il tritolo per Borsellino. Il procuratore Pietro Giammanco, acquisita la notizia, non lo aveva informato sostenendo che il suo dovere era solo quello di trasmettere per competenza gli atti a Caltanissetta”. La donna, morta nel 2013, parlò di pugni sbattuti dal marito sulla scrivania.
Quella volta - ricordava in una nota dell'Ansa la signora Agnese - ebbe la percezione di un isolamento pesante e pericoloso. Non escludo che proprio da quel momento si sia convinto che Cosa nostra l'avrebbe ucciso solo dopo che altri glielo avessero consentito”.


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La strage di via d'Amelio © Shobha


La terza informativa
Ma non finisce qui. TPI riporta l’esistenza di un terzo documento che certifica la sussistenza di imminenti pericoli per Borsellino. Anche questa informativa è contenuta nel folder del Sisde sull’omicidio Borsellino. Questa informativa, però, venne redatta dal Ros di Milano il 16 luglio, diverse settimane dopo la redazione della prima. Nel documento - scrive TPI - si lancia un’allerta sulla programmazione di attentati contro il pm di Milano Antonio Di Pietro e Borsellino. In seguito a questa nota, Di Pietro, allertato, venne mandato in Costa Rica con la moglie sotto falsa identità per un po’. Per Borsellino, invece, ancora una volta, silenzio totale e mani in tasca: non vennero presi provvedimenti. Ma la cosa ancor più sconcertante è il documento in allegato, una lamentela fatta dall’allora direttore del Sisde Alessandro Voci (questa datata 24 luglio’92). Voci scrisse all’allora capo gabinetto del Ministero dell'Interno, Raffaele Lauro, rammaricandosi del fatto che il servizio non fosse stato informato dei progetti omicidi contro Di Pietro e Borsellino: “Ma mi domando - si legge - i carabinieri hanno informato qualche prefetto della Repubblica, hanno informato il Ministro dell'Interno? E perché nulla è arrivato a me?”. Stando alla nota, infatti, le uniche autorità informate sono la Procura di Milano (infatti Di Pietro lo viene a sapere subito) e la Procura di Palermo. Eppure, segnalato da TPI, nel rapporto dei Carabinieri del 20 giugno il Sisde era incluso tra gli organi messi a conoscenza. Non solo: l'informativa di Milano arriva sulla scrivania di Voci soltanto il 23 luglio del1992. L’attentato era già avvenuto da giorni, Borsellino era già morto con la sua scorta e in via d’Amelio era già scattata la macchina del depistaggio con il furto della sua riservatissima agenda rossa. Dov’è finita e chi la custodisce? Ecco altre due domande ricorrenti da trent’anni attorno all'omicidio Borsellino.

Foto di copertina © Imagoeconomica

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