A Palermo un convegno del PD per celebrare il trentennale della strage. Tra gli ospiti anche Ranucci e Purgatori
“Esiste una stridente differenza fra le cerimonie celebrative della strage di Capaci e quella di via d’Amelio”. Il 23 maggio, a differenza del 19 luglio, la celebrazione “vede la partecipazione di tutti i vertici dello Stato: dal presidente della Repubblica, ai ministri, ai capi delle Polizie”. “Nel corso degli anni queste cerimonie si sono trasformate in autocelebrazioni di Palazzo; in una falconeide sedativa e rassicurante che rimuove verità storiche ‘underscore’ annegandole dentro un mare di retorica di Stato”. Sono le parole dell’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, intervenuto ieri all’evento organizzato dal Partito Democratico (Dipartimento cultura) - "A 30 anni dalle stragi: questione criminale e questione democratica. L’altra storia” - in occasione del trentennale dalla strage di Via D’Amelio in cui lo stato-mafia uccise il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Ieri sera, nell’Atrio della Biblioteca comunale di Palermo a Casa Professa, assieme al procuratore Scarpinato erano presenti anche il giornalista e scrittore Andrea Purgatori, il regista e autore televisivo Pif, il giornalista Sigfrido Ranucci, il procuratore aggiunto a Palermo Paolo Guido, il direttore di Micromega Paolo Flores d’Arcais, l'europarlamentare Pd Caterina Chinnici, il segretario regionale Pd Sicilia Anthony Barbagallo e la giornalista e scrittrice Stefania Limiti.
© Deb Photo
Le commemorazioni e quella “forzata rimozione della verità storica dalla memoria collettiva”
“Lo schema della narrazione della falconeide ufficiale può riassumersi così: da una parte Falcone, eroe di Stato e personificazione del bene che con il Maxiprocesso lancia una sfida senza precedenti alla mafia; dall’altra parte ci sono i soliti brutti, sporchi e cattivi come Totò Riina e Bernardo Provenzano, assetati di sangue e di denaro, personificazione assoluta e totalizzante del male di mafia. Falcone ottiene la vittoria del Maxiprocesso con la conferma in Cassazione dell’impianto accusatorio e Riina si vendica uccidendolo a Capaci. Storia tragica, semplice, a lieto fine e, soprattutto, storia del passato perché si dice a piè sospinto che i carnefici, i portatori del male di mafia, sono stati tutti identificati e condannati e quindi, essendo che la mafia non rappresenta più un pericolo, si può procedere allo smantellamento progressivo della legislazione antimafia approvata dopo le stragi che si giustificava per un’emergenza ormai superata”. Roberto Scarpinato è stanco di sentire la solita retorica celebrativa di Stato e per questo non risparmia nessuno con le sue analisi. Critica, attacca e fa i suoi j’accuse nei confronti delle negligenze e delle complicità delle istituzioni ma anche di quelle di alcune icone dell’antimafia, anche se in maniera velata, lasciando intendere che “antimafia” è un bellissimo slogan, ma la lotta alla mafia è ben altro.
Roberto Scarpinato © Paolo Bassani
Analizzando la retorica dietro le celebrazioni di Stato, Scarpinato parla di una “forzata rimozione della verità storica dalla narrazione e dalla memoria collettiva”, secondo cui “Riina e i suoi erano solo una delle componenti di un complesso e articolato sistema di potere mafioso che annoverava al suo interno esponenti di vertice dell’establishment: presidenti del Consiglio dei ministri, ministri, parlamentari, assessori regionali, capi della polizia, capi dei servizi segreti e tanto altro”. “Settori importanti del potere nazionale, che della mafia si sono serviti come strumento di governo e di ordine e con la mafia hanno costruito carriere politiche, fortune economiche e con la mafia di Riina si mossero sempre all’unisono per delegittimare, isolare e ridurre all’impotenza Falcone e Borsellino, come Paolo la sera del 25 giugno ’92 ci tenne a ricordare - ha continuato il procuratore -. Ma tutto ciò a 30 anni di distanza dalle stragi resta argomento tabù nelle cerimonie ufficiali commemorative del 23 maggio”.
Caterina Chinnici © Paolo Bassani
Scarpinato: “Via d’Amelio, simbolo della cattiva coscienza della nomenclatura del potere statale”
Cambio di registro, invece, quando “si spengono le luci delle commemorazioni del 23 maggio” e “le autorità statali si dileguano” perché si guardano bene dal “ripresentarsi a Palermo il successivo 19 luglio a replicare lo stesso canovaccio”. “Le pubbliche autorità sanno bene di non poter replicare gli stantii rituali della retorica di stato in via d’Amelio, dove la loro presenza è stata da sempre bandita - ha sottolineato Scarpinato -. E quindi si limitano a partecipare in sedi defilate a partecipare a frettolose cerimonie riservate come per togliersi il pensiero e adempiere agli obblighi mentre in via d’Amelio e in altri luoghi si svolgono talune commemorazioni e dibattiti che mai potrebbero tenere ospitalità nelle sedi istituzionali per il tono e per gli oratori critici, spinosi e a volte urticanti nei confronti di un palazzo che prima abbandonò Paolo Borsellino al suo destino e che ha fallito sino ad oggi il compito di dare un’identità ai mandanti della strage di via d’Amelio”.
© Paolo Bassani
“Il 19 luglio è diventato simbolo della cattiva coscienza della nomenclatura del potere statale e causa di grave imbarazzo istituzionale - ha continuato -. Questa divaricazione tra il palazzo e la piazza ha origine dai giorni successivi alla strage”. Scarpinato ha poi ricordato le immagini dei funerali di Stato di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta. “Emblematiche sono le immagini del presidente della Repubblica Scalfaro, accompagnato dal capo della Polizia Parisi, nel loro percorso si trovarono al centro di una folla immensa che si era riversata sulla piazza, quando ad un certo punto dalla folla iniziò a levarsi contro di loro - massimi rappresentanti dello Stato - il grido ‘Assassini!’ e la situazione sembrò poter degenerare”. A distanza di 30 anni “dobbiamo riconoscere che quel grido, che in sostanza accusava lo Stato di essere complice della strage, quel grido che allora sembrò un atto incomprensibile, assurdo e irrazionale, conteneva un seme scandaloso e profondo di verità”.
Paolo Flores d'Arcais © Paolo Bassani
“Abbiamo tutti gli elementi oggi per poter dolorosamente ammettere la tragica verità che la strage di via d’Amelio fu una strage che chiama doppiamente in causa lo Stato - continua Scarpinato -. Soggetti appartenenti agli apparati istituzionali sono ripetutamente intervenuti prima per far sparire l’agenda rossa e poi per sviare le indagini della magistratura mediante la costruzione a tavolino di un falso collaboratore di giustizia. E poiché questa duplice attività di depistaggio non fu certo finalizzata a coprire la responsabilità dei mafiosi, esecutori materiali della strage, è il gioco forza per venire alla conclusione che il depistaggio di Stato fu finalizzato a coprire responsabilità statali nella stessa esecuzione della strage”. Quella di Paolo Borsellino è la figura di “un uomo dello Stato” che “stava per compiere un gesto di portata enorme ma non vi fu consentito: svelare il volto segreto di uno Stato assassino”.
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Ancora troppe domande disattese...
L’ex procuratore generale di Palermo, prima di passare la parola agli altri relatori, ha voluto concludere il suo intervento con una serie di domande: “Se lo Stato fu complice della strage di via d’Amelio potrà mai lo stato processare sé stesso? E com’è possibile che lo Stato sia complice ad una strage? Riusciremo mai a pervenire ad una verità giudiziaria completa che dia un volto ai mandanti e ai complici eccellenti della strage di via D’Amelio?”.
“Sino a qualche anno fa residuava una significativa speranza che qualcuno dei boss stragisti condannati all’ergastolo e a conoscenza dei segreti che si celano dietro le stragi del ’92 e ’93 decidessero di collaborare con la giustizia - ha continuato Scarpinato -. Ma questa speranza è stata ridotta ai minimi termini dalla prossima riforma dell’ergastolo ostativo, ormai in dirittura di arrivo, che accogliendo le richieste ininterrottamente formulate dei boss stragisti sino alla seconda metà degli anni ’90, consentirà a costoro di uscire dal carcere senza collaborare con la giustizia solo dimostrando di aver deposto definitivamente le armi”.
Pif © Paolo Bassani
Una soluzione che il boss Pietro Aglieri aveva definito “una soluzione concreta e intelligente”, che “prevedeva lo scambio tra il silenzio dei boss stragisti e i complici eccellenti della strage e la loro fuoriuscita dal carcere”. “Non è un caso che, come hanno riferito i vari collaboratori di giustizia, i fratelli Graviano benché condannati a più ergastoli (depositari di segreti scottanti) hanno sempre nutrito una granitica fiducia che nonostante le loro condanne all’ergastolo usciranno dal carcere - ha aggiunto il procuratore -. Bisognerebbe chiamare questa riforma dell’ergastolo ostativo per quello che è: un’amnistia mascherata per i boss stragisti ai quali sarà riservato lo stesso trattamento premiale che è stato riservato in passato ad altri esecutori di stragi in cambio del loro silenzio, come ad esempio Valerio Fioravanti e Francesca Mambro ammessi alla liberazione condizionale e usciti dal carcere dopo 26 anni”.
“Cala così un pluvio silenzio di Stato sulle stragi del 1992 e del 1993 e il grido ‘Assassini’ lanciato dalla folla in quel lontano 24 luglio ’92 credo che continuerà ad echeggiare nel tempo come una triste e dolorosa verità rimossa”, ha concluso Scarpinato.
Sigfrido Ranucci © Paolo Bassani
Ranucci e le resistenze per censurare l’intervista di Borsellino ai giornalisti di Canal Plus
È stata la volta poi di Sigfrido Ranucci, conduttore del programma Report (Rai3), il quale ha ricordato quando il suo direttore Roberto Morrione, “ai tempi in cui lavoravo per RaiNews24, mi chiese di commemorare gli otto anni dalla strage” e per farlo si imbetté in depistaggio, ostruzioni e censure di varia natura. “E leggendo i documenti mi imbattei nella famosa intervista che Paolo Borsellino rilasciò ai due giornalisti francesi per Canal Plus - ha continuato il giornalista -. Di quell’intervista video non c’era traccia in quel momento se non un’anticipazione su ‘L’Espresso’. Quando scesi a Palermo per verificare il materiale video con i miei occhi rimasi folgorato sentendo e vedendo il giudice che con le sue parole parlava di Silvio Berlusconi, di Marcello Dell’Utri, di Vittorio Mangano, di canali di riciclaggio e inchieste, faceva un suo effetto. Chiamai il mio direttore per avvisarlo di ciò che trovai a Palermo. Feci una copia conforme del materiale e riconsegnai il materiale originale nelle mani di Fiammetta Borsellino (figlia di Paolo, ndr)”.
Stefania Limiti e Andrea Purgatori © Paolo Bassani
“Pubblicando quel materiale fummo accusati di manipolazione, attentati politici al cittadino e falsificazione - ha aggiunto Ranucci -. Quest’intervista che doveva andare in onda il 19 luglio in Rai non andò in onda. La offrimmo al Tg1, al Tg2 e al Tg3. Ma non andò in onda. All’epoca anche il Tg1 decise di aprire il telegiornale con la notizia della guarigione di Silvio Berlusconi dal tumore alla prostata. E ricordo le pressioni di una Rai a trazione centrosinistra. Con il direttore Morrione facemmo tanta fatica a pubblicare questa intervista. Arrivammo a settembre quando decidemmo di mandarla in onda, avevamo il canale satellitare RaiNews24, e anticipammo i contenuti di quell’intervista esclusivamente all’Ansa. Ci aspettavamo che il giorno dopo sarebbe scoppiato il putiferio trattandosi di una vicenda grave che coinvolgeva il presidente del consiglio con più voti, e invece non successe assolutamente nulla. L’Ansa tenne bloccata la pubblicazione di quell’intervista, scoprimmo più tardi che secondo voci all’interno dell’Ansa fu addirittura Mario Ciancio (responsabile e vicepresidente dell’Ansa di Palermo) a bloccarla. Ci fu un tentativo di sequestro da parte della procura di Caltanissetta che tentò di impossessarsi della cassetta prima della messa in onda. Scoprimmo addirittura dopo che quel tentativo di sequestro era stato inspirato dall’avvocato di Dell’Utri perché quell’intervista rischiava pesantemente di condizionare l’opinione pubblica ma anche la magistratura perché di lì a poco ci sarebbe stato il rinvio a giudizio di Dell’Utri per l’imputazione in concorso esterno alla mafia (successivamente condannato)”.
© Paolo Bassani
L’intervista mandata in onda il 17 settembre del 2000 “era semplicemente una parte di uno speciale di 50 minuti che non ha mai visto luce in Rai, proprio perché subimmo censura dagli amministratori della Rai. Dentro c’era un’intervista esclusiva a Salvatore Cancemi che parlava della trattativa, del papello e dei contatti tra Cosa nostra, Dell’Utri e del coinvolgimento di Silvio Berlusconi affinché scendesse in politica”. “Ora mettete insieme la testimonianza di Cancemi, quei fatti e la voce viva di Paolo Borsellino che diceva del ruolo di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e lo faceva da giudice notoriamente vicino alla destra - dice Ranucci al pubblico -. Per quest’ultimo aspetto non poteva essere accusato di motivazioni politiche, perché non si sapeva che Berlusconi e Dell’Utri sarebbero scesi in politica (ai tempi in cui si realizzò l’intervista, ndr). Quindi l’unica strada percorribile per accusare il sottoscritto e RaiNews24 era di manipolazione e falsificazione. A salvarmi fu la testimonianza di Fiammetta Borsellino che aveva il documento originale”. Ranucci ha voluto commemorare Paolo Borsellino e gli agenti di scorta in questo modo, “perché la politica può fare tanto in questo momento, a partire dal mettere mano alla legge sul conflitto di interessi sui mezzi di comunicazione. Perché oggi la mafia, che sembra apparentemente sparita, agisce attraverso altre maniere, attraverso la delegittimazione. Si può intanto approvare quella che da due anni è in un cassetto del Parlamento sulle querele temerarie. La Rai deve essere liberata dalla politica”.
Andrea Purgatori © Paolo Bassani
Purgatori: “Un Paese di scarsa memoria e di segreti inconfessabili non ha davvero nessuna eredità da consegnare alle nuove generazioni”
“Uno dei grandi difetti che hanno a che fare con la mafia è stato lo smembramento delle inchieste e dei fatti, perché così facendo non si riesce mai a capire che esiste invece un filo molto preciso che parte dalla strage di Portella della Ginestra”. Così Andrea Purgatori, giornalista e conduttore di Atlantide su La7. “Sono 30 anni che ascoltiamo belle parole e non siamo andati molto lontani. Penso che francamente ci dobbiamo dire tre cose. La prima è che dopo 30 anni siamo ancora qui a domandarci, a fare ipotesi e a capire cosa sia successo prima, durante e dopo la strage di via d’Amelio. Quelle risposte sarebbero i contenuti che darebbero un senso compiuto a queste commemorazioni. Noi ancora non sappiamo fino a che punto quella zona grigia che ha attraversato quella stagione di vuoti a perdere, ovvero tutte le persone che hanno combattuto la mafia e hanno perso la vita, a cui lo Stato aveva delegato la lotta alla mafia isolandoli e poi abbandonandoli, essendo quindi complice della loro morte, quella zona grigia fatta di politici, uomini delle istituzioni, servizi segreti, affaristi che ad ogni livello e ogni delitto e strage hanno aumentato il loro potere e la loro impunità intrecciando questa impunità con quella delle organizzazioni criminali”, ha detto il giornalista.
© Paolo Bassani
E ancora: “Se l’eredità di Falcone e Borsellino è quella solo delle belle parole o delle commemorazioni credo che ci troviamo di fronte ad un fallimento culturale e politico. Chiedetevi perché la parola mafia è sparita dall’agenda dei governi e dai programmi dei partiti. Oggi è vero che c’è una crisi di governo in corso ma è anche vero che ci sono gli aerei. E per un gesto istituzionale doveroso per dimostrare che lo Stato c’è e si impegna, penso che sarebbero bastate tre ore nelle quali mettere da parte il mal di pancia dei partiti per venire qui a mostrarsi, a dire qualcosa di serio e a non evitare la retorica da lontano che possiamo anche trascurare perché piena di parole vuote che da trent’anni sentiamo pronunciare”.
“Quel poco che è rimasto dell’informazione in questi anni ha messo sul tavolo una quantità di elementi sconcertanti nel tentativo di scavare in quella zona grigia di connivenze che anche io sono convinto garantisce molte cose, tra cui la latitanza di Matteo Messina Denaro - ha detto Purgatori -. La sensazione però è quella di essere tornati indietro di 30 anni. Agli anni in cui chi indagava era visto come un fastidio da isolare. Per questo penso che per commemorare le vittime della strage di via d’Amelio, non possiamo più accettare certe prescrizioni così come l’omertà che si perpetua e le giustificazioni raffazzonate”.
“Un Paese di scarsa memoria e di segreti inconfessabili non ha davvero nessuna eredità da consegnare alle nuove generazioni e questo è il delitto più grave che noi possiamo commettere”, ha concluso.
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In foto di copertina: Roberto Scarpinato © Paolo Bassani
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