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Il consigliere togato del CSM intervistato nello speciale di Sky Tg24 sul mutamento delle mafie a 30 anni dalle stragi

Io non credo che oggi noi dobbiamo parlare di ‘Cosa Nuova’ come di un’altra Cosa Nostra, ma come di un’ennesima evoluzione di un’organizzazione che è sempre rimasta la stessa”. A dirlo è il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo, in un’intervista in diretta rilasciata ieri sera a Sky Tg24 per lo speciale “Cosa nuova”, un approfondimento sul trentesimo anniversario della strage di via d’Amelio in cui si racconta come gli uomini delle cosche siano cambiati nel tempo, come si siano inseriti nella finanza, nel mondo degli affari, come siano passati dal kalashnikov al colletto bianco. Da questo punto di vista il magistrato Di Matteo ha spiegato la peculiarità, in particolare della mafia siciliana, di saper alternare momenti di attacco violento “all’istituzione pubblica a momenti di sommersione”. Per questo, ha affermato Di Matteo, “io non sono sicuro che noi abbiamo chiuso con la mafia delle stragi”. Del resto è lui stesso ad essere stato più volte oggetto di minacce, addirittura con avviati progetti di morte organizzati dai vertici di Cosa nostra nelle persone di Totò Riina e Matteo Messina Denaro, “principale artefice della strategia stragista che è ancora in libertà”, come ha ricordato il magistrato considerandolo tuttora “il capo di Cosa nostra”. “Le contingenze di questi ultimi decenni hanno indotto Cosa Nostra ad un approccio meno violento ma ugualmente pericoloso”, ha ribadito Di Matteo analizzando l’evoluzione di Cosa nostra che, ha detto, “muta pelle come un serpente”. “E non è detto che questa approccio rimanga tale sempre per il futuro”.


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Paolo Borsellino diceva nel 1987, come ha ricordato il conduttore del programma Fabio Vitale, che molto spesso la mafia ricorre alla violenza quando si trova “in momenti di crisi”, altrimenti predilige il profilo basso. “Borsellino aveva capito già allora che la vera forza della mafia è quella di saper adattare le proprie strategie alle esigenze e alle contingenze del momento”, ha commentato le sue parole Di Matteo annotando, inoltre, come Borsellino fosse solito a partecipare al dibattito pubblico, cosa che oggi viene rinnegata e impedita agli attuali pm. “Ci sono stati momenti nei quali, Cosa nostra e le mafie in genere hanno capito che per ottenere i propri obiettivi economici, finanziari e imprenditoriali dovevano far in modo che i riflettori si abbassassero e quindi hanno preferito, in quei momenti, non attaccare direttamente alle istituzioni e ricorrere alla violenza solo quando strettamente necessario con omicidi e stragi. Questo è un momento che stiamo vivendo in Italia da almeno 25 anni”, ha sottolineato l’ex sostituto procuratore di Palermo. Di Matteo ha quindi parlato della strategia stragista di Cosa nostra nella quale rientrava anche la bomba di via d’Amelio del 19 luglio ’92 che uccise Borsellino e gli uomini della scorta.


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Noi oggi abbiamo capito che la strategia stragista venne decisa da Riina e altri nell’ottica di una ricostituzione dei rapporti col potere: ‘Facciamo la guerra e per poi fare la pace’, diceva Riina. Queste stragi sono state fatte per ricattare lo Stato e indurlo a creare nuove condizioni di alleanze nascoste con le mafie”. Successivamente, dopo il fallito attentato all’Olimpico del 1994 per cui, ha osservato Di Matteo, la strategia stragista “venne improvvisamente abbandonata”, - vicenda, questa, ancora da chiarire - “in Cosa Nostra prevalse la fazione più moderata facente capo a Provenzano”. Evidentemente, riflette Di Matteo, “ci sono state ragioni di scelta politica di cosa nostra che in quel momento hanno fatto sì che venisse abbandonata una strategia che stava correndo avanti come un treno: fare stragi per rinegoziare nuovi rapporti di potere nelle istituzioni e costringere lo Stato a confrontarsi con Cosa nostra”. “Se capissimo cosa c’è dietro quel repentino mutamento - ha spiegato il magistrato - probabilmente sapremmo di più su eventuali ed ulteriori compartecipi con Cosa nostra della strategia stragista”. Una strategia che porta la firma anche di Messina Denaro insieme a quella di altri del gotha di Cosa nostra, come ha ricordato Roberto Scarpinato, già procuratore generale di Palermo, anche lui intervistato da Sky Tg24. La primula rossa, infatti, “ha fatto parte di una struttura di potere collegata ai servizi deviati che nella zona di Trapani ha avuto un suo epicentro, si è occupato di traffici di armi e uranio non a caso è stato uno dei protagonisti della strategia stragista e proprio perché fa parte di questa sovrastruttura è stato finora imprendibile. E’ una super struttura, trasversale alla mafia, ai servizi deviati, alla massoneria. E’ il vero potere”.


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La mafia che si è fatta sistema
Scarpinato ha quindi parlato anche lui dello stato di Cosa nostra e della sua evoluzione, tema cardine dello speciale del programma del direttore Giuseppe De Bellis. L’ex magistrato, in particolare, sostiene che la mafia si sia fatta sistema. “La mafia è sempre stata la componente organica del sistema paese ed è mutata in perfetta sincronia al mutamento del sistema paese”, ha esordito Scarpinato sul punto. “Ora siamo nella fase in cui, finita la prima Repubblica, non è più la politica che governa l’economia ma è l’economia che governa la politica. E il potere diventa sempre più oligarchico. E la stessa cosa accade alla mafia”, ha spiegato il magistrato oggi in pensione. “La mafia ha capito che in un mondo in cui quello che conta è il profitto non c’è più bisogno di usare la violenza come una volta. E’ la nuova mafia mercatista che si trasforma in un’agenzia che offre a milioni di cittadini normali beni per i quali è esplosa una richiesta di massa: stupefacenti, gioco d’azzardo, prostituzione. E questo ha cambiato anche i rapporti con il territorio, non più un rapporto di violenza ma un rapporto collusivo. Ed è cambiato anche l’atteggiamento delle persone nei confronti di questa mafia definita, non a caso, silente”. “L’Ue da alcuni anni ha stabilito che nella contabilizzazione del PIL dei paesi membri vadano messi anche il fatturato della droga e della prostituzione che sono una prestazione di un bene a fronte della quale c’è una contro-prestazione monetaria che alimenta il PIL globale”. “Questa - ha aggiunto - è la cultura neoliberista, tutta una visione economico-centrica. Quindi abbiamo uno Stato schizofrenico che da una parte dice che la mafia è un crimine e bisogna perseguirla e dall’altra dice che la mafia ci aiuta a stare nel patto di stabilità europeo perché i fatturati delle mafie valgono 1-2% di PIL”.


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Del tema è intervenuto anche Franco Gabrielli, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla sicurezza nazionale. “La mafia è un fenomeno criminale e purtroppo è anche un fenomeno sociale. Da questo punto di vista, per chi la pratica e per chi ne è partecipe, c’è poco di nuovo. Nel senso che l’uso della prevaricazione, il controllo del territorio, la ricerca del consenso, l’approfittare di strumenti più o meno leciti per conseguire un illecito profitto, credo che da questo punto di vista è veramente cambiato poco”. Sul versante sociale, invece, secondo Gabrielli “abbiamo vissuto una stagione di consapevolezza che ahinoi, in questi ultimi frangenti, non hanno lo stesso coinvolgimento emotivo e la stessa consapevolezza di anni fa”. A parlare di mafia e affari è stato anche Gianfranco Donadio, capo della procura di Lagonegro.
Negli anni’70, ’80 e ’90 i mafiosi, soprattutto quelli che avevano portato al nord i loro interessi criminali, avevano assoluta necessità di cercarsi dei partner soprattutto nel mondo bancario, perché all’epoca il riciclaggio transitava prevalentemente attraverso le banche. Ora non hanno più bisogno di cercarsi dei partner ma hanno la possibilità di cercare delle risorse proprie. Questo è vero. Oggi - ha spiegato - abbiamo una simbiosi, cioè lo scambio tra mondo legale e mondo illegale che diventa molto raffinato, ed è questa l’immagine molto meno netta e visibile della mafia di oggi”.


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Questione di responsabilità politica
Alle considerazioni di Donadio, Di Matteo ha aggiunto un’altra considerazione: “La mafia è sempre stata un problema nazionale. Alcuni processi passati in giudicato, come quello contro Andreotti e Dell’Utri, dimostrano come in vari momenti della nostra storia repubblicana Cosa Nostra sia stata in grado di condizionare la politica a livello nazionale. Oggi probabilmente noi avremmo bisogno di qualcosa di ulteriore e di diverso, intanto l’espansione della mafia a nord è un fenomeno molto antico. Per vincere la guerra contro la mafia è necessario che la politica, quella con la ‘P ‘maiuscola, stabilisca che la lotta alla mafia è una priorità, lo stabilisca a tutti i livelli”. Tuttavia, il problema della lotta alla mafia, ha osservato Di Matteo, “non è stata una priorità per i governi che si sono succeduti negli ultimi anni e, mi dispiace, dirlo nemmeno per questo lo è stata”. Il magistrato ha poi aggiunto che la questione mafia è un “problema che viene delegato essenzialmente alla repressione della magistratura e delle forze dell’ordine. Non basta. Noi abbiamo bisogno di una politica che sia in grado di anticipare la magistratura nella recisione di ogni legame sospetto o pericoloso”. “La politica, invece, va a rimorchio, anzi quando c’è qualche tipo di indagine che riguarda un rapporto tra un mafioso e un politico, assistiamo a due reazioni: da una parte si dice che è un complotto della magistratura contro una parte politica e dall’altra si dice di aspettare le sentenze definitive. Ci sono dei fatti accertati e dei rapporti che qualora accertati dovrebbero essere sanzionati politicamente a prescindere e prima delle sanzioni eventuali della magistratura”, ha concluso.

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