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E’ stata una delle firme più prestigiose d’Italia, ma ebbe una grande caduta quando attaccò i pm che indagavano sullo Stato-mafia

E’ morto, all’età di 98 anni, il giornalista e scrittore Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano La Repubblica. Lo diciamo subito. Di Scalfari va riconosciuto, senza ombra di dubbio, il titolo di firma tra le più prestigiose della stampa italiana. Così come gli vanno riconosciute alcune inchieste contro determinate consorterie di potere e l’intuizione nell’aver messo in piedi un nuovo giornale, poi tremendamente caduto di stile e incisività con l’avvicinarsi a certi potentati, per il quale negli anni hanno scritto giornalisti dalla lunga esperienza e cronisti giovanissimi e volonterosi. Di Scalfari però ci sono anche alcuni demeriti, diversi in realtà, che, da colleghi, non possiamo dimenticare. Ma iniziamo ricordando la sua lunga carriera professionistica. Nato a Civitavecchia il 6 aprile 1924, Scalfari cominciò nella rivista ufficiale del Gruppo Universitario Fascista, Roma fascista, divenendo nel 1942 caporedattore. Venne però espulso dal Guf e dal partito per aver scritto articoli sulla costruzione del quartiere Eur a Roma e sulle speculazioni di alcuni gerarchi.
Nell'immediato dopoguerra si avvicinò al Partito Liberale Italiano. Nel 1950 entrò in Banca Nazionale del Lavoro collaborando con Il Mondo e poi L'Europeo. Anche qui venne licenziato da Bnl per una serie di articoli su Federconsorzi che non piacevano alla direzione.
Nel 1955 partecipò alla fondazione del settimanale l'Espresso e del Partito Radicale. Nel 1963 assunse la direzione del settimanale per il quale si era occupato principalmente di economia.
Ricoprì già l'incarico di direttore amministrativo del giornale che in cinque anni arriva a vendere più di un milione di copie. A contribuire questo successo, furono le grande inchieste a sua firma.
Il 1967, infatti, è l'anno dell'inchiesta sul Sifar, che Scalfari condusse assieme a Lino Jannuzzi.
L'aver svelato il piano Solo costò ad entrambi la condanna a 15 mesi di reclusione per diffamazione, dopo la querela del generale De Lorenzo. I due, però, evitarono il carcere perché il Partito Socialista offrì a entrambi un seggio in Parlamento.
Scalfari, nelle elezioni del 1968, venne eletto come indipendente sia a Torino, sia a Milano, come deputato, carica che manterrà fino al 1972, lasciando la direzione de L'Espresso. Nel 1971 sottoscrisse la lettera aperta a L'Espresso da altri 756 intellettuali, politici, giornalisti contro il commissario Luigi Calabresi.
Una scelta che lo stesso Scalfari definirà "un errore" nel 2016. Nel 1974 pubblicò il libro-inchiesta con Giuseppe Turani, "Razza Padrona", sulla gestione di Eugenio Cefis di Eni e Montedison. Due anni dopo cominciò l'avventura di La Repubblica.
Il 14 gennaio 1976 uscì in edicola il primo numero. Il giornale stravolse le regole editoriali, anche nella grafica e nell'impaginazione. In poco tempo superò l’imbattibile Corriere della Sera, nel frattempo finito nel mirino di Licio Gelli. La proprietà di La Repubblica è del gruppo L'Espresso e Arnoldo Mondadori Editore e negli anni 80 subirà il tentativo di acquisizione, non riuscito, da parte di Silvio Berlusconi, che tentò una scalata alla Mondadori.
Una vicenda che porterà il Cavaliere a rispondere della corruzione di uno dei tre giudici nel giudizio civile, noto come il Lodo Mondadori, con Carlo De Benedetti. Il rapporto con l'Ingegnere si ruppe anni, più tardi, nel 2018. E nel 1994 cominciò la battaglia contro Silvio Berlusconi, ormai entrato in politica. Scalfari lasciò la direzione di Repubblica due anni dopo, nel 1996, conservando la firma da editorialista dell'edizione domenicale, mentre su L'Espresso teneva la rubrica 'Il vetro soffiato'.


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Il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari e l'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano


La caduta di “nonno” Scalfari sulla Trattativa
Da quell’anno Scalfari, divenne un po’ il padre, o meglio il nonno del giornale, nel frattempo affidato ad Ezio Mauro. Da lui non andavano per consulti o pareri solo ex colleghi giornalisti, ma anche parlamentari. Era infatti considerato il “padre” politico di Walter Veltroni e del Partito Democratico (del resto già in passato aveva sostenuto campagne elettorali come quella per Carlo Azeglio Ciampi o quella di Giuliano Amato, suggerito a Scalfaro). E ancora. Nel 2017, in piena campagna elettorale per le elezioni del 2018, Scalfari disse di considerare Matteo Renzi suo “nipotino”. “Sono suo nonno”, affermò a “Di Martedì”. “Nell’ultimo periodo ha seguito i consigli del nonno, che è contento, perché ha aperto il Pd alla sinistra dissidente”, aveva detto a Giovanni Floris aggiungendo addirittura di preferire Berlusconi a Luigi Di Maio, mandando in vacca anni di lotte mediatiche del suo giornale contro l’acerrimo Cavaliere di Arcore. Insomma, Scalfari, di boutade ne ha sparate diverse, specie negli ultimi anni. Spesso si esprimeva con pareri non richiesti e altrettanto spesso gli capitava di seccarne alcuni, come quello sulla Trattativa Stato-mafia. Un’inchiesta, questa, di fondamentale importanza proprio in virtù di quella lotta alla mafia che Scalfari, affidandosi alla grande penna di Attilio Bolzoni, ha giustamente combattuto per anni con inchieste. Ed è qui che, a nostro modo di vedere, avvenne la più grande scivolata del fondatore di La Repubblica. L’anno è il 2012, la procura di Palermo aveva iniziato ad indagare sulle bombe di mafia del ’92 e del ’93 dopo le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza alle quali vanno aggiunte quelle di Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso Vito, e quelle di altri collaboratori di giustizia. L’inchiesta sulla trattativa avviata dallo Stato, cioè dal Ros dei Carabinieri, tramite Vito Ciancimino, per chiedere a Totò Riina cosa volesse in cambio dello stop alla campagna stragista, stava toccando alcuni nervi scoperti. Nervi che arrivavano fino al Quirinale. Infatti, nell’estate di quell’anno i magistrati di Palermo Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Francesco del Bene, Lia Sava e il loro procuratore capo Francesco Messineo, avevano fatto intercettare l’ex ministro degli Interni Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza. Inaspettatamente, a fine 2011, nel pieno della crisi dell’ultimo governo Berlusconi, vennero intercettate alcune telefonate tra Mancino e il consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio. Telefonate che per gli inquirenti sono rilevanti, dato che Mancino chiedeva aiuti istituzionali per essere “coperto” da un’eventuale indagine. Mancino però parlava anche con Napolitano. E quelle chiamate tra il capo dello Stato e l’indagato sulla Trattativa Stato-mafia rimasero incise sulle bobine della Dia. La notizia dell’esistenza di quelle intercettazioni finì sui giornali scandalizzando l’opinione pubblica. La reazione del Colle non si fece attendere con la decisione clamorosa di trascinare la Procura di Palermo davanti alla Corte Costituzionale per conflitto d’attribuzione. Contro i magistrati di Palermo e il procuratore capo si cagliò anche Repubblica, o meglio, Scalfari in persona andando contro i cronisti del giornale che aveva fondato che, diversamente, avevano denunciato l’“affare di Stato”, come lo descrisse Bolzoni. Vestendosi di ridicolo e ignorando palesemente le più elementari norme giudiziarie in materia di intercettazioni, Scalfari scagliò la sesta flotta contro la procura tanto da provocare la reazione quasi imbarazzata del procuratore capo di Palermo Messineo lanciandosi in una campagna protezionista delle presunte “ragioni di Stato”. Una vera e propria caduta di Scalfari. A seguire l’ex direttore, insieme a un’altra cloaca di potenti, fu lo stesso presidente del Consiglio Mario Monti che con dichiarazioni al limite dell’eversione ha accusato un altro potere dello stato di abuso nell’esercizio delle proprie funzioni senza averne nemmeno le prove.
Furono mesi di fuoco tra Palermo e Roma. A difesa dei pm si schierò il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelski con un editoriale in cui invitava il Colle a ripensare al conflitto di attribuzione sollevato con la Procura del capoluogo siciliano. L’indomani, dopo che Ingroia si difese dagli attacchi di Monti dicendo di aver rispettato le regole, fu sempre Scalfari a ribattere a Zagrebelski e sempre sul suo giornale.
“Ci sarebbe da distinguere tra trattativa e trattativa”, aveva scritto riferendosi alla trattativa per la liberazione di Aldo Moro, per la quale Scalfari era tra i più fervidi oppositori. “Quando è in corso una guerra la trattativa tra le parti è pressoché inevitabile per limitare i danni. Si tratta per seppellire i morti, per curare i feriti, per scambiare ostaggi”, scrisse. Il parallelismo Trattativa Stato-mafia e Trattativa Stato-Br è forzato e completamente fuori luogo. Ma tant’è. Scalfari con quella sequela di spallate, delegittimazioni, ed editoriali trasudanti di livore contribuì a salvare la faccia a Napolitano e Mancino. Mesi dopo, infatti, la Corte Costituzionale decise di tombare definitivamente le telefonate dello scandalo ordinando la distruzione delle intercettazioni in cui, sappiamo, oltre alle indagini su Mancini, si parlava di Silvio Berlusconi, di Nino Di Matteo e poi della tanto temuta inchiesta sulla Trattativa. Tanti saluti alla verità e alla trasparenza, capisaldi del giornalismo, che Scalfari, avrebbe, invece, dovuto cercare di tutelare quantomeno per dovere di cronaca.

Foto © Imagoeconomica

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