Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

“In questo momento oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto tante sue confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, devo per prima cosa riassemblarli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili”. Era da giorni che Paolo Borsellino voleva essere sentito come testimone sulla strage di Capaci dalla procura di Caltanissetta. Quella volta esprime quella richiesta in pubblico e pone l’accento su quella parola, la parola “testimone”: ma testimone di cosa? Che cosa sa Borsellino sulla strage di Capaci? Queste domande sono rimaste appese poiché Borsellino non verrà mai chiamato a dire quello che sapeva.
"In quel lasso temporale del 1992 (tra la strage di Capaci e via D'Amelio n.d.r) i vertici di Cosa nostra ricevettero un segnale istituzionale, consistito nell’avvio di una trattativa da parte di esponenti delle istituzioni (ufficiali del Ros). Nella prospettiva dei mafiosi, suonava come una conferma che la loro attività stragista, proiettata a colpire lo Stato minacciandolo per ottenere benefici, fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico-istituzionali. Se fosse stato informato dei negoziati in corso, Borsellino si sarebbe certamente opposto. La strage inghiottì l’agenda rossa dell’arma dei Carabinieri che il magistrato portava con sé, ove annotava i dati rilevanti, che venne fatta scomparire dopo l’attentato, ma non da Cosa nostra". Così ha scritto sul 'Fatto Quotidiano' il Procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli. La strage di via D'Amelio era stata "un attacco terroristico ed eversivo diretto al cuore delle istituzioni, capace di generare panico e sgomento tra i cittadini, idoneo a intervenire sui poteri giudiziario e legislativo e di compromettere la sicurezza dello Stato, attuato con un’autobomba imbottita da circa 90 chilogrammi di esplosivo di tipo militare che Cosa nostra aveva già impiegato". La strage a livello istituzionale aveva portato anche delle conseguenze a livello politico: la "conversione in legge il 7 agosto del decreto dell’8 giugno 1992" cioè quel decreto che "aveva varato misure repressive di contrasto alla criminalità mafiosa, fra le quali l’estensione del regime del carcere duro ai mafiosi di cui all’art. 41 bis (che in molti oggi intendono eliminare) e un inasprimento della regolamentazione dell’ergastolo ostativo per i mafiosi che impediva loro l’ottenimento dei benefici penitenziari, fra i quali la liberazione condizionale e i permessi premio (che, nel 2019 e nel 2021, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale)".
"A distanza di trent’anni - ha scritto il magistrato sul 'Fatto' - si è provato il coinvolgimento di Cosa nostra nell’ideazione ed esecuzione della strage. Sono state individuate le ragioni dell’eccidio: la vendetta di un acerrimo nemico, protagonista del maxiprocesso; l’esigenza di natura preventiva dell’uccisione, derivante dal pericolo per quanto Borsellino stava facendo e avrebbe potuto effettuare, che possiedono una specificità rispetto al più ampio progetto criminale aperto, attuato nel triennio 92-94, in cui l’evento delittuoso si inserì tanto da comportare un’accelerazione della strage e di stoppare l’attività preparatoria in corso volta a colpire un altro obiettivo. Rimangono spunti investigativi e interrogativi che impongono di continuare a indagare". Di sicuro c’è che in quei 57 giorni Paolo Borsellino aveva iniziato ad interrogare pentiti importanti come Gaspare Mutolo, detto il barone, l’ex autista di Totò Riina. Parlando con il giudice Mutolo aveva accusato Bruno Contrada di contiguità con Cosa nostra. L'ex poliziotto e all’epoca numero 3 dei servizi segreti, nei mesi successivi verrà arrestato e poi nel 2007 condannato a dieci anni per concorso esterno. Una condanna che verrà revocata dopo una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo: secondo i giudici di Strasburgo, l’Italia non avrebbe potuto condannare l’agente segreto per concorso esterno perché all’epoca dei fatti contestati quel reato non esisteva ancora.
L’interrogatorio di Mutolo era diventato oggetto d’indagine negli ultimi anni perché era quello che Borsellino a un certo punto aveva interrotto per una chiamata al Viminale. Era l’1 luglio del 1992 e quel giorno si era insediato il nuovo ministro dell’Interno, Nicola Mancino. Al Viminale c’era anche il capo della Polizia, Vincenzo Parisi, ma secondo Mutolo c’era pure Bruno Contrada.
L’apporto dei servizi di Contrada sarà fondamentale per indirizzare le indagini su Vincenzo Scarantino, un balordo della Guadagna, individuato come l’organizzatore della strage. Grazie a una nota dell’intelligence, infatti, lo status criminale di Scarantino era stato elevato da semplice spacciatore di sigarette di contrabbando a mafioso di rango, imparentato col potente clan dei Madonia. A quel punto era partito il depistaggio, quello che i giudici della corte d’Assise di Caltanissetta avevano definito il più grande della storia giudiziaria italiana.
Anche altri collaboratori erano stati sentiti da Paolo Borsellino: Leonardo Messina "il quale aveva iniziato a collaborare con lui a seguito della strage di Capaci, spiegando, fra l’altro, come funzionava il meccanismo spartitorio degli appalti pubblici tra Cosa nostra, esponenti politici e imprenditori, e delle correlate tangenti pagate da questi ultimi; Gioacchino Schembri, appartenente alla stidda di Palma di Montechiaro, che conosceva le dinamiche sottese all’assassinio del giudice Rosario Livatino".
"Borsellino - ha scritto il magistrato - aveva manifestato il proposito di individuare i responsabili della strage di Capaci e, nel corso di un’intervista a due giornalisti francesi Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo, aveva fatto riferimento a Vittorio Mangano, e sostenuto di essere a conoscenza di rapporti tra mafiosi ed esponenti del mondo imprenditoriale, citando l’esistenza di una indagine nei confronti di Marcello Dell’Utri”, condannato poi con sentenza definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (pena scontata).

Fonte: ilfattoquotidiano.it

Foto © Imagoeconomica

ARTICOLI CORRELATI

''Falcone e Borsellino: Uccisi, Traditi, Dimenticati. Trent'anni dopo le stragi''
di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari

Falcone e la memoria tradita
Le parole di Scarpinato, Lombardo, Di Matteo, Moro, Ardita e Tescaroli al convegno "Uccisi, traditi, dimenticati"

Traditi, uccisi, dimenticati
di Saverio Lodato

''Falcone e Borsellino: due simboli della giustizia per il mondo intero''
di Lorenzo Baldo

Chi ha ucciso Giovanni Falcone
di Giorgio Bongiovanni

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos