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La Germania approva la spesa di 100 miliardi in difesa. Buona parte dei soldi verranno usati per comprare armi MADE IN USA

La NATO bussa, l’Europa annuisce e spende e Washington si ingozza compiaciuto. E’ questo il film, in sequenza, al quale si assiste negli ultimi mesi. La guerra in Ucraina, sanguinosa, terribile, ingiusta, sta scatenando le reazioni più disparate. Da un lato la società civile - giustamente - si indigna, chiede il cessate il fuoco, la fine delle ostilità. Dall’altro, gli uomini di palazzo e rappresentanti di holding e lobbies spingono per convincere l’opinione pubblica, via tv e giornali, che da questa situazione se ne esce solo a zar caduto e cavalcano l’onda emotiva per fare leva sulle casse di Stato, per spendere ancora di più in difesa. Il gioco è tutto sull’instabilità, sull’incertezza, sulla paura. E - tralasciando il fatto che alla pace non si arriva cercando di eliminare Vladimir Putin, né spendendo l’inverosimile per armi che probabilmente nemmeno arriveranno agli ucraini - questo è un gioco vincente. A vincere sono i soliti businessmen delle armi e i loro colossi industriali. La prova è, per esempio, il via libera della Camera bassa tedesca, il Bundestag, alla modifica della Costituzione per consentire l'istituzione di un fondo speciale da 100 miliardi di euro per rafforzare l'esercito del Paese, facendo in modo che il fondo non ricada nel cosiddetto 'freno' che limita il debito. Sono pacchetti di armi pensati per “ammodernare” le forze armate tedesche. E’ dal 27 febbraio che il cancelliere Olaf Sholz aveva annunciato questa misura storica facendo schizzare le quotazioni in Borsa: “Viviamo una svolta epocale. Il mondo non è più quello di prima”, aveva affermato aggiungendo che la Germania “deve investire molto di più nella sicurezza”. Detto, fatto. Venerdì scorso ecco arrivare - con 593 a favore, 80 contrari e 7 astenuti - l’ok per la nuova misura. La Germania si impegna inoltre ad aumentare entro il 2024 lo stanziamento annuale per la difesa al 2% del Pil (finora Berlino spendeva l’1,53% con un Pil di 3.564 miliardi) come chiede la Nato (cioè gli Stati Uniti). Il fatto, però, è che solo una parte dei soldi che verranno investiti (meno della metà) saranno utilizzati per comprare armi prodotte da aziende tedesche o europee, in quanto troppo piccole per assorbire l’intera domanda di acquisto. Tutto il resto, circa il 60% delle commesse, andrà all’estero.


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Lorenzo Mariani © Imagoeconomica


La Germania aumenta gli stanziamenti, ma manderà l’80% dei soldi altrove”, ha detto Lorenzo Mariani, manager del gruppo Leonardo, che è Ad di Mbda Italia e direttore vendite del gruppo missilistico. Ma altrove dove? Sicuramente negli Stati Uniti dove si trovano i primi cinque colossi di armamenti mondiali. E’ qui che Germania e Ue faranno capolino per acquistare armamenti e adempiere agli impegni presi con la NATO. Solo circa due mesi fa, Berlino, ha deciso di comprare 35 cacciabombardieri F-35 prodotti da Lockheed, la prima azienda bellica al mondo, per sostituire i vecchi Tornado europei, perché sono gli unici in grado di trasportare bombe atomiche. Oltre ai velivoli (un F-35 di listino costa da 94 a 101 milioni di dollari) ci sono le spese per armarli e la manutenzione, si può stimare una spesa di almeno 8-10 miliardi. La Germania intende comprare anche 60 elicotteri pesanti da trasporto CH-47F Chinook, prodotti dall’industria statunitense Boeing per una spesa di circa 5 miliardi. Si è parlato anche di elicotteri d’attacco Apache, prodotti sempre da Boeing. Dagli Usa verranno comprati anche missili made in USA della Raytheon, la terza azienda bellica al mondo.

Sulla lista della spesa del governo, secondo Reuters, è scritto: 40,9 miliardi per l’Aeronautica anche con l’acquisto di Eurofighter, F-35 ed elicotteri Chinook; 19,3 miliardi per la Marina con corvette, fregate, sottomarini; 16,6 miliardi per l’Esercito, compresa la sostituzione dei carri armati Marder; 2 miliardi per uniformi, elmetti e visori notturni; 20,7 miliardi per apparecchiature radio e comunicazioni satellitari. Dice la ministra degli Esteri Annalena Baerbock (Verdi): “Abbiamo radio analogiche non affidabili per i nostri soldati in un’emergenza; e su 350 carri armati Puma solo 150 sono operativi”.

I cento miliardi stanziati dovranno essere spesi nei prossimi tre-quattro anni. A vederseli incassare saranno, ovviamente, anche la Rheinmetall, colosso degli armamenti terrestri tedesca che è interessata ad espandersi in Italia, che ha presentato una proposta per l’acquisto del 49% di Oto Melara da Leonardo (che però preferisce vendere a Knds, franco-tedesca). Il giorno dopo l’annuncio di Scholz, il 28 febbraio, le azioni di Rheinmetall sono salite da 107 a 133,6 euro, ora sono a 208,5 (+145,6% quest’anno). Rheinmetall prevede di ottenere cospicui contratti, la fornitura dei nuovi carri armati Lynx (già comprati dall’Ungheria), bombe, elmetti. Anche Hensoldt, che produce sensori elettronici per i caccia Eurofighter, ha visto schizzare le azioni, il 28 febbraio da 14,80 a 21,10 euro: adesso sono a 24,30 (+93,5% da inizio anno). Cosa che fa contenta Leonardo, che ha comprato il 25,1% della società, controllata dallo Stato, per 606 milioni.


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Annalena Baerbock © Imagoeconomica


I colossi delle armi
Secondo i dati del Sipri, l’istituto di ricerca di Stoccolma, i primi 100 produttori nel mercato mondiale delle armi hanno totalizzato vendite per 531 miliardi di dollari nel 2020. Un +1,3% rispetto al 2019 in termini reali (esclusa l’inflazione), nonostante una contrazione dell’economia globale del 3,1% nel primo anno di pandemia. I dati si inseriscono in una spesa militare mondiale che nel 2021 ha superato per la prima volta i 2.000 miliardi di dollari (2.113 miliardi, +0,7% in termini reali sul 2020) tenendo conto di tutte le voci (ad esempio il personale). Il Paese che spende di più sono gli Usa (801 miliardi), seconda la Cina (293 miliardi), terza l’India (76,6 miliardi), quindi Gran Bretagna e Russia. In questo quadro, le aziende americane dominano. 41 nelle prime 100. I dati elaborati dal Sipri sono riferiti al 2020 e solo ai ricavi nelle “armi e servizi militari”, salvo diversa indicazione.

Al primo posto, come detto, c’è Lockheed Martin, nota per la produzione dei cacciabombardieri F-35, 58,2 miliardi di dollari di ricavi su 65,4 miliardi del gruppo. Lockheed possiede anche uno dei maggiori costruttori mondiali di elicotteri, Sikorsky. Nel bilancio 2021 i ricavi del gruppo sono aumentati a 67 miliardi, l’utile netto è più che triplicato, da 2,05 a 6,31 miliardi. La seconda, Raytheon, con 36,78 miliardi di ricavi, è il primo produttore mondiale di missili, i più noti sono i Patriot. Raytheon fabbrica anche gli Stinger e, con Lockheed, i Javelin anticarro forniti anche a Kiev. La terza, invece, è la Boeing, 32,1 miliardi di ricavi nella difesa, conosciuta soprattutto per i jet da trasporto passeggeri. Produce caccia, aerei da trasporto e rifornimento (B767) ed elicotteri.

Questione di costituzionalità
Nel frattempo in Italia non cessa il dibattito sulla questione della legittimità e costituzionalità circa l’invio di armamenti in Ucraina. L’art. 11 della Costituzione, che disciplina il comportamento del Paese in situazioni belligeranti, recita, come noto, che “l’Italia ripudia la guerra, come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Sull’articolo della Carta Costituzionale si era espresso il presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, che tornando a parlare in pubblico a Torino del conflitto e i profili giuridici delle scelte italiane ha detto che “per l’articolo 11 l’Italia ripudia la guerra come mezzo per risolvere le controversie, ma non la ripudia in assoluto”, secondo Amato. “La Costituzione - ha affermato - prevede il sacro dovere di difendere la patria. E poi ci sono i vincoli assunti in sede europea e internazionale: il dovere alla solidarietà verso i membri dell’Unione europea aggrediti da altri e la clausola di solidarietà tra i Paesi membri della Nato”. Una lettura netta: l’Ucraina va aiutata con le armi, sebbene questa non sia membro né dell’Ue né dell’Alleanza atlantica, anche in virtù del principio della “solidarietà umana”, che non può essere stabilito solo “dai trattati”, ma “dalla coscienza”. Questa posizione, però, trova in completo disaccordo alcuni tra i più autorevoli giuristi italiani, che, sentiti da Il Fatto Quotidiano, ne hanno sottolineato gli aspetti critici. Per Michele Ainis, ad esempio, è difficile contemplare l’idea che “una condizione di cobelligeranza - come è di fatto quella dell’Italia che rifornisce di armi un paese in guerra - possa essere coperta dall’ombrello dell’articolo 11, soprattutto se si vuole interpretare lo spirito e la mentalità dei costituenti che hanno scritto quella norma”. Ainis entra nello specifico. “Credo che le letture evolutive dell’articolo 11 siano lecite, ma deformanti. Amato dice la nostra non è una Costituzione pacifista: è vero, la guerra è disciplinata in 6 norme costituzionali e la Carta ammette la guerra difensiva. Ma l’equivoco è sul perimetro di questa guerra difensiva. Evidentemente i costituenti si riferivano a una guerra condotta sul territorio italiano contro un aggressore esterno. L’idea che invece si possa giustificare l’intervento italiano in un conflitto tra altri due contendenti non regge: a quel punto, se intervenissimo ogni volta che uno Stato ne aggredisce un altro, dovremmo entrare in guerra con mezzo mondo. Per le norme costituzionali, l’unica difesa legittima è quella del territorio e della popolazione italiana”.


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Lorenza Carlassare © Imagoeconomica


La lettura di Ainis è condivisa pienamente da Lorenza Carlassare, che la traduce in un principio chiaro e semplice: “L’articolo 11 impedisce il commercio di armi con paesi in guerra. La guerra difensiva è contemplata, sì, ma esclusivamente in difesa del proprio territorio, non dei territori altrui in giro per la terra. Altrimenti dovremmo partecipare ai conflitti in tutto il mondo. L’articolo 11 è uno dei meno rispettati della nostra Costituzione, lo spirito dei costituenti è stato tradito”.

Gaetano Azzariti affronta la questione da un’altra angolazione: “La vera domanda che io mi porrei è se inviare la armi all’Ucraina possa essere lo strumento per raggiungere il fine costituzionale del ripudio della guerra, così come prescritto dall’articolo 11”. I fatti sembrano dimostrare il contrario. “A me pare ovvio che la risposta sia negativa. Bisogna quindi che si affermi la solidarietà internazionale come obiettivo strategico e si ricerchino tutte le vie possibili per un accordo diplomatico. Lo dice il diritto e lo dice anche il Papa”.

Massimo Villone ha un’interpretazione differente: “Io non ho mai pensato che la Costituzione italiana fosse pacifista a prescindere, né ritengo che ci sia una preclusione all’invio di armi. Ci sono però due problemi delicati: il primo è la sostanziale emarginazione del Parlamento nelle decisioni su questo punto, che considero inaccettabile. Il secondo è che bisogna porre molta attenzione affinché il diritto di difendersi non si traduca in un diritto di attaccare. L’aiuto a uno Stato aggredito non deve diventare strumentale a un attacco allo Stato aggressore”.

Rielaborazione grafica by Paolo Bassani

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