L’avvocato commenta la sentenza di condanna per mafia di Cattafi in cui vengono anche riportate le sue responsabilità morali sulla morte dell’urologo
Personaggio della Barcellona bene, il sedicente avvocato Rosario Pio Cattafi, è stato ritenuto, dopo un iter processuale tortuoso, quale membro della cosca mafiosa del paesello in provincia di Messina dall'ottobre del 1993 ad almeno marzo del 2000. Un mese fa sono uscite le motivazioni della sentenza di condanna a 6 anni per associazione di stampo mafioso della corte d’appello di Reggio Calabria. Ce le siamo fatte commentare da Fabio Repici, avvocato (lui sì) che da lungo tempo difende numerosi familiari di vittime di mafia. I giudici inseriscono Cattafi ai vertici di una rete che lo vede come uomo cerniera tra Cosa nostra, massoneria, servizi segreti, politica e istituzioni più o meno deviate. Uno spaccato che Repici denuncia da anni. Tra le varie cose, valorizzando il dichiarato di pentiti di primo calibro, la corte si esprime, nei limiti della sua competenza, anche sul caso di Attilio Manca riportando le confessioni, tra gli altri, del collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, sentito in dibattimento, al quale venne confessato che Cattafi è “responsabile morale della morte” dell’urologo, il cui caso è stato archiviato come suicidio. Di Manca si occupa da anni diligentemente anche Repici, legale della famiglia, che ci dà una notizia: “Abbiamo raccolto elementi. Entro un mese presenteremo denuncia alla procura di Roma per riaprire l’inchiesta”.
Sono state depositate le motivazioni della sentenza di condanna a Rosario Pio Cattafi. I giudici della corte d’appello di Reggio Calabria riconoscono Cattafi quale boss di mafia di Barcellona pozzo di Gotto, almeno fino al marzo 2000. Qual è l’importanza da attribuire a questa affermazione.
E’ un’importanza rilevantissima perché rimette in sesto un processo che era un po’ deragliato a partire dalla sentenza della corte d’Appello di Messina del 24 novembre 2015 e infatti la Corte d’Appello di Reggio Calabria, nelle motivazioni di questa sentenza, spiega che non può andare oltre nel riconoscimento di mafiosità a carico di Cattafi oltre il marzo del 2000 per la semplice ragione che per il periodo successivo, la sentenza di assoluzione della corte d’Appello di Messina, a causa della declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto dalla procura generale, è passato in giudicato e quindi l’unica possibilità per la corte di Reggio Calabria era stabilire la mafiosità di Cattafi nel periodo fra il 1993 e il 2000. E per quel periodo, quindi, infliggergli la condanna. Cosa che ha fatto. L’importanza di questa sentenza è per il ruolo che viene riconosciuto a Cattafi all’interno della famiglia barcellonese di Cosa nostra. Viene espressamente stabilito dalla corte d’Appello che il ruolo precipuo di Cattafi all’interno della famiglia barcellonese era quello di fare trait d’union fra i capi della famiglia mafiosa e organi e rappresentanti istituzionali. E quindi espressamente riconosce a Cattafi, un ruolo particolarmente rilevante, ruolo che, invece, era stato del tutto erroneamente sminuito dalla precedente sentenza emessa dalla corte d’Appello di Messina. L’assegnazione a Cattafi di questo ruolo si collega a tante altre risultanze processuali di altri processi che avevano già assegnato a Cattafi quel ruolo particolarmente importante, anche per ciò che accadde a Barcellona fra il 1992 e il 1994, in particolare per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano. Ma la sentenza aggiunge un ulteriore dettaglio importantissimo, e cioè riconosce l’attendibilità delle dichiarazioni di Carmelo D’Amico, il più importante collaboratore di giustizia barcellonese, anche in relazione a quanto egli riferì in ordine all’omicidio di Attilio Manca e sul coinvolgimento di Cattafi.
La corte però si spinge anche oltre. Parla di Cattafi come uomo di mafia, ma anche uomo avente contatti e vicinanze con soggetti delle istituzioni, di servizi segreti. E dicono addirittura fosse a capo di una potente loggia massonica.
Anche questa parte della sentenza fa riferimento alle dichiarazioni rese da D’Amico che riferì di avere appreso da un altro boss barcellonese, Salvatore Di Salvo, del ruolo di vertice di Rosario Cattafi in un’ampia e pericolosissima loggia deviata che avrebbe avuto competenza e operatività tra la Sicilia Orientale e la Calabria. E aveva indicato due personaggi di vertice all’interno di questa loggia in Rosario Cattafi e in un ex importante esponente politico di Barcellona pozzo di gotto, il Senatore Domenico Nania. Se si guarda alla biografia di Cattafi, in realtà le dichiarazioni di Carmelo D’Amico convergono in modo assolutamente nitido con delle risultanze investigative, alle volte perfino documentali, che erano già emerse a carico di Cattafi. Segnalo che nell’informativa del GICO di Firenze del 3 aprile del 1996 su Cattafi erano già documentate in modo inequivocabile le sue relazioni con ampie fasce di organizzazioni segrete ed esplicitamente massoniche e addirittura la loggia P2. Erano riportati i suoi rapporti con l’ex segretario del PSDI Pietro Longo, iscritto alla P2. Con il parlamentare Renato Massari, iscritto alla P2 e altri. E, per altro, D’Amico, nel parlare dell’omicidio Alfano in altre sedi processuali aveva fatto riferimento anche ad un importante sodalizio associativo della storia di Barcellona Pozzo di Gotto nominato Corda Fratres indicato, sempre da D’Amico, come una vera a propria loggia massonica espressione del potere di Barcellona Pozzo di Gotto. Guarda caso, nel circolo Corda Fratres erano iscritti anche Rosario Cattafi, il capo mafia di Barcellona mandante condannato come organizzatore dell’assassinio del giornalista Beppe Alfano, Giuseppe Gullotti, lo stesso senatore Nania, l’ex procuratore generale di Barcellona Pozzo di Gotto Franco Cassata. Le dichiarazioni di D’Amico su quest’aura massonica in capo a Rosario Cattafi non sono altroché l’ultimo tassello di un ruolo di Cattafi che non è esattamente di un semplice mafioso ma di un mafioso di alto rango che si relazionava - e non è difficile immaginare continui a relazionarsi - con ambienti del potere anche all’interno di sodalizi massonici.
Quello che pare emergere, dunque, è che siamo davanti a un personaggio inserito in diversi mondi, quello della criminalità organizzata, quello dei poteri occulti e anche quello dei poteri ufficiali. Eppure all’opinione pubblica il nome di Cattafi non dice molto e nemmeno ai principali organi di stampa. Come è possibile che un soggetto avente così potenti facoltà e amicizie goda di questo velo di semi-invisibilità. Di cosa gode Cattafi? c’è qualcuno che lo tutela, che lo protegge? E chi?
Rosario Cattafi ha goduto, tra le altre cose, oltre a protezioni istituzionali, anche di un cono d’ombra che ha avvolto e avvolge da decenni l’intera storia mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto. Ed è un cono d’ombra che ha coperto di silenzi difficili da scalfire, sia l’omicidio di Beppe Alfano che quello di Attilio Manca. Il ruolo di Cattafi è centrale nel biennio stragista e trattatista di Cosa nostra. C’è un elemento documentale risultante nel procedimento a carico di Cattafi che io avrei dato per scontato che sarebbe divenuto centrale perfino nella ricostruzione della strategia di Cosa nostra, e non solo, che portò alle stragi del 1992 e del 1993. Seppure le intenzioni syrtagiste di Cosa nostra e di Totò Riina erano già iniziate prima, sappiamo che il vero e proprio detonatore fu la sentenza della corte di Cassazione del 30 gennaio 1992, che fece passare in giudicato il lavoro del Pool antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo. Si è detto correttamente che da quel momento in poi si ufficializzò, anche se era già stata ampiamente valutata, la decisione da parte di Riina di procedere al cambio di passo e alla stagione delle stragi per ricontattare col potere dei nuovi equilibri per una nuova fase della vita di Cosa nostra, che alla luce del poi noi sappiamo sarebbe stata gestita da Bernardo Provenzano e non più da Riina che forse anche in esecuzione di accordi fra poteri ufficiali e sotterranei venne sacrificato il 15 gennaio 1993. Ma c’è un dato. L’indomani della sentenza della Cassazione, il 31 gennaio 1992, Cattafi, che fino a quella data per lo più trascorreva la sua vita in mezzo a opulenti affari a Milano, stipula un contratto di locazione con il quale riceve in consegna una villa a Taormina che gli viene messa nella sua disponibilità a partire dal 1° febbraio 1992. Ci fu un’importante dichiarazione resa dal collaboratore di giustizia Filippo Malvagna il quale in varie sedi affermò che fra la fine del ’91 e l’inizio del ’92 aveva ricevuto incarico, insieme a Salvatore Grazioso, da Aldo Ercolano, reggente del clan Santapaola al tempo, per individuare un immobile a Taormina che doveva diventare sede di incontri tra emissari dei Santapaola dal colletto bianco, esponenti della massoneria, della politica e dell’alta imprenditoria. Queste riunioni indicate da Malvagna dovevano sostanzialmente diventare una sorta di cenacolo nel quale individuare un nuovo equilibrio che consentisse a Cosa nostra di traghettarsi dalla prima alla seconda Repubblica. Malvagna dichiarò che nel gennaio ’92 Aldo Ercolano revocò l’incarico a Malvagna e Grazioso allorché i due avevano anche individuato un immobile che rispettasse le caratteristiche richieste da Ercolano il quale disse loro di non cercare più quell’immobile perché era già stata trovata una soluzione da Cattafi che aveva messo a disposizione un immobile che corrispondeva esattamente alle caratteristiche richieste. E quindi, sostiene Malvagna, in quella villa trovata da Cattafi si sarebbero svolte le riunioni necessarie per questa nuova fase di relazioni fra mafia, massoneria, imprenditoria, politica e apparati. Qual è la circostanza clamorosa? La villa era di proprietà di un magistrato. Quindi era la soluzione più garantita per poter svolgere delle riunioni che non dovessero essere disturbate da investigazioni e perquisizioni. Con la sentenza della Cassazione, quindi, Cattafi torna in Sicilia esattamente nel periodo in cui si cominciano a mettere in opera le fasi esecutive per le stragi e torna in questo quadro che è descritto alla lettera da Malvagna. Questa circostanza, che a mio modo di vedere avrebbe dovuto essere destinataria di occhiuta menzione della procura di Caltanissetta titolare delle indagini sulle stragi del ’92, è rimasta curiosamente trascurata.
Attilio Manca insieme ai suoi genitori, Angela e Gino Manca
Nella sentenza i giudici reggini valorizzano il dichiarato di numerosi collaboratori di giustizia quali Carmelo D’Amico e utilizzano la sua testimonianza sulla vicenda di Attilio Manca per corroborare la sua attendibilità, parlano, citando le parole di pentiti attendibili, di Cattafi quale “responsabile, in via morale, della morte del dott. Manca”
Preciso che responsabilità morali non vuol dire responsabilità non giuridiche, nel senso che anche il concorso morale può implicare una responsabilità penale. Riguardo al caso Manca, noi possiamo definirlo come omicidio perché è il mafioso dei vertici della mafia barcellonese Carmelo D’Amico che lo ha qualificato in questi termini. D’Amico riferì di aver appreso del fatto che Attilio Manca era stato ucciso da un medico barcellonese, Salvatore Ruolo, che era il cognato del boss Giuseppe Gullotti, quindi una fonte più che autorevole. In questo quadro D’Amico riferì di aver appreso da Ruolo che fra i responsabili della morte di Attilio Manca c’era Rosario Cattafi che si era prima adoperato in favore di Bernardo Provenzano per trovare un urologo che potesse fornire a Provenzano la assistenza della quale necessitava a causa del tumore alla prostata che gli era stato diagnosticato. In questo scenario Cattafi sarebbe stato il tramite tra la mafia barcellonese e il circuito di tutela di Provenzano ma nella sua operatività avrebbe avuto anche il sostegno di esponenti istituzionali come un generale dei carabinieri del quale parla Carmelo D’Amico indicandolo come personaggio operante vicino al circolo Corda Fratres e questa circostanza riferita da D’Amico è particolarmente importante, perché io sono certo di aver capito chi è il generale dei carabinieri a cui allude D’Amico e sono certo fosse un generale iscritto alla loggia P2. E quindi far rientrare anche questa storia in uno scenario in cui i mafiosi camminano quasi trasportati per mano da soggetti estranei a Cosa nostra e con grosso rilievo istituzionale. Qual è il punto importante nel dichiarato di D’Amico? Nel 2009 D’Amico viene arrestato e non uscirà fino alla sua collaborazione con la giustizia. Nel 2012 si trova detenuto al 41bis al carcere di Milano Opera dove si trovava assieme a un importantissimo esponente della Cosa nostra palermitana cioè Antonino Rotolo che è uno dei due soggetti che alla cattura di Provenzano assunse il ruolo di reggente di Cosa nostra. Rotolo riferì a Carmelo D’Amico una circostanza che ulteriormente combacia con quanto egli aveva appreso da Salvatore Rugolo, e cioè che Attilio Manca effettivamente era stato assassinato e al suo omicidio aveva provveduto un soggetto legato ai servizi segreti, addirittura Rotolo fece riferimento alla responsabilità di una persona indicata come il direttore del Sisde, e nell’indicare l’esecutore materiale dell’omicidio Manca fa riferimento a un esponente dei servizi segreti di origine calabrese e con il volto particolarmente brutto.
Giovanni Aiello?
Esattamente. Si tratta proprio dell’ex poliziotto legato a Bruno Contrada che nell’agosto 2017 morì in un curioso infarto sulla spiaggia di Montauro in Calabria. Di questo quadro la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha rilevato che il riconoscimento del ruolo di alto rilievo assegnato a Cattafi nel 2004 da Salvatore Rugolo, vale già di per sé per dimostrare come Rosario Cattafi fino al 2004 aveva un ruolo di alto rilievo nella famiglia mafiosa barcellonese. Questo al di là dell’approfondimento dell’omicidio di Attilio Manca che naturalmente non è reato di competenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria che pertanto non ha potuto dire nulla di più oltre che della alta attendibilità riconosciuta a Carmelo D’Amico.
L'ex poliziotto Giovanni Aiello alias "Faccia da Mostro"
Restando sul tema di Attilio Manca, lei che da anni difende la famiglia in aula, può dirci a che punto siamo, processualmente parlando?
Processualmente parlando possiamo dire che siamo a zero. Nel senso che nel 2018 fu archiviata dall’autorità giudiziaria di Roma la denuncia che noi, insieme ad Antonio Ingroia con i familiari di Attilio Manca, avevamo proposto appunto alla procura di Roma, competente per i reati di mafia compiuti nel territorio di Viterbo (dove Manca è stato ucciso, ndr). In realtà dopo l’archiviazione di quel procedimento aperto dalla nostra denuncia si sono verificati numerosi avvenimenti e sono stati individuati da me numerosi elementi che ci consentiranno in tempi brevi, non oltre un mese, di depositare una nuova denuncia alla procura di Roma. Questo perché abbiamo raccolto molti elementi che dimostrano l’erroneità di quella archiviazione richiesta dai magistrati di Roma nel 2018. E si tratta di elementi rilevantissimi che riguardano fonti dirette sull’omicidio di Attilio Manca, in particolare abbiamo raccolto le dichiarazioni di un ulteriore collaboratore di giustizia le cui dichiarazioni non furono prese in esame nel procedimento archiviato che tirano in ballo uno dei soggetti più legati a Cattafi, Angelo Porcino, che aveva avuto già una visibilità o una centralità nell’omicidio di Attilio Manca in base alle circostanze a noi note in precedenza. Ci sono poi degli ulteriori elementi che derivano da risultanze di altri procedimenti in particolare dall’operazione “Grande Mandamento” di Palermo che dava per l’appunto il circuito di protezione della latitanza di Bernardo Provenzano e una intercettazione che in quel procedimento fu raccolta del boss Francesco Pastoia di Belmonte Mezzagno che parlò di un urologo siciliano che aveva fatto visita a Bernardo Provenzano e inoltre degli ulteriori elementi che probabilmente di qui a poco troveranno una pubblica notorietà. Noi riteniamo che sulla scorta di questi elementi l’autorità giudiziaria di Roma, che per altro aveva fondato il proprio convincimento erroneo che aveva portato all’archiviazione della nostra denuncia sul presupposto che Manca non era morto perché assassinato ma perché curiosamente nel febbraio 2004 aveva deciso di porre termine alla sua vita iniettandosi due dosi potenti di eroina accompagnandole con l’assunzione di dosi imponenti di sedativi e in più l’ingestione di alcol. Naturalmente un medico qualificato come era Attilio Manca sapeva bene che le assunzioni di queste sostanze li avrebbero condotto a morte per questo la qualificazione della morte di Manca, ricostruita prima dalla procura di Viterbo e poi da quella di Roma è in sé la descrizione di un suicidio. Noi riteniamo che con gli elementi che abbiamo raccolto e che porteremo alla procura di Roma in tempi brevi nessuno più potrà negare che quello di Attilio Manca è un omicidio. Anche perché, e questa è una grave omissione della procura di Roma, ancora aspetto di capire che cosa pensino quei magistrati delle dichiarazioni di tanti collaboratori di giustizia e in particolare modo di Carmelo D’Amico, che in tutti i processi nei quali ha deposto ha ottenuto il riconoscimento di assoluta attendibilità, sia quando ha parlato dei propri delitti, circa una trentina, di cui l’autorità giudiziaria non aveva mai fatto alcuna contestazione perché non ne aveva notizie. Poiché quindi c’è questo collaboratore di giustizia, insieme ad altri, assolutamente attendibile che parla della morte di Attilio Manca vorrei capire come possano i magistrati di Roma almeno per il futuro rifiutare l’idea che Manca sia stato vittima di un omicidio.
Cambiamo argomento. Qualche giorno fa il Gip di Caltanissetta Graziella Luparello ha respinto la richiesta di archiviazione della storica, quanto travagliata, inchiesta contro ignoti sui mandanti occulti delle stragi del ’92 disponendo nuove indagini da svolgere entro i prossimi sei mesi. Una notizia importantissima, come la legge?
Nell’unico modo in cui si può leggere: c’è stata un’evidente lacuna nei risultati raggiunti dalla procura di Caltanissetta sulle stragi del 1992. Sappiamo tutto, o quasi, delle responsabilità interne a Cosa nostra. E sappiamo quasi niente delle responsabilità che ci sono state di soggetti esterni a Cosa nostra. In particolare modo questo provvedimento del gip di Caltanissetta che in realtà tratta varie questioni e pone attenzione su vari possibili filoni di indagini il dato più importante a mio modo di vedere è che finalmente, come avevo segnalato nel mio intervento conclusivo al processo a carico dei tre poliziotti imputati al tribunale di Caltanissetta per le false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, viene individuato un elemento secondo me fondamentale e cioè che una componente necessaria se si vuole accertare la verità sulle stragi del ’92 e del ’93, va individuata all’interno di due apparati istituzionali: la Polizia di Stato e il Sisde. Naturalmente non in soggetti di basso rango ma in soggetti in posizione di vertice dei due organismi. Questo è sicuramente l’aspetto che più di tutti dovrebbe essere oggetto di attenzione di indagini da parte della procura di Caltanissetta perché è lì la verità. Il golpe, non propriamente bianco, perché ci sono state delle stragi che hanno portato a una torsione dell’unità democratica del paese, di quel biennio ha avuto sicuramente una centralità in un palazzo che potremmo definire il Viminale. Paradossalmente si tratta del palazzo nel quale il 19 luglio 1994 Giovanni Tinebra e Ilda Bocassini utilizzarono per la conferenza stampa in cui furono celebrati i risultati raggiunti con gli arresti sulle dichiarazioni false di Vincenzo Scarantino.
Strage di Capaci © Shobha
Per l’appunto, riguardo alla sua analisi su Sisde e Questura di Palermo nel periodo a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, il Gip scrive che “potrebbe essere stato allevato un nucleo operativo trasversale e occulto che potrebbe avere avuto un ruolo importante sia nella morte di Agostino (Nino, ndr) e di Piazza (Emanuele, ndr) sia nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio”. Una sorta di anticamera segreta ed eversiva insomma…
E infatti a questo punto conclusivo la Gip arriva dall’omicidio di Nino Agostino e Ida Castelluccio. E su questo va dato atto al lavoro fatto dalla procura Generale guidata da Roberto Scarpinato (oggi in pensione, ndr) che proprio da lì è riuscito ad alzare il velo su vicende sulle quali nessuno aveva mai voluto indagare.
Non a caso Vincenzo Agostino, padre del poliziotto Nino, proprio a Scarpinato aveva detto che la vicenda delle stragi affondava le proprie radici a casa sua, a Villagrazia di Carini dove il 5 agosto ’89 suo figlio venne ammazzato.
Esattamente, possiamo dire che le stragi del 1992 erano partite nei loro eventi genetici nel 1989 in relazione a due delitti che ebbero vittime Giovanni Falcone, in quel caso vittima illesa con l’attentato all’Addaura, e il secondo il duplice omicidio Agostino-Castelluccio.
Per concludere. A proposito di Falcone, oggi l’Italia ricorda il trentesimo anniversario della strage di Capaci e tra 57 giorni la ricorderà la strage di via D’Amelio. Siamo degni di ricordare e commemorare quanto accaduto alla luce delle scelte politiche nel mondo antimafia degli ultimi anni e dell’assopimento dell’opinione pubblica in merito al contrasto alla criminalità organizzata e alla pretesa di verità su quanto successe quel 23 maggio e nei mesi a seguire?
Io penso ci sia un fatto di una gravità inaudita. E cioè che nello stesso momento in cui tanti piangono lacrime di coccodrillo sulla memoria di Giovanni Falcone il Governo e il Parlamento italiano stanno abbattendo gli strumenti normativi che erano stati ideati da Falcone per contrastare le organizzazioni mafiose. C’è un principio di non contraddizione che dovrebbe muovere le nostre azioni e naturalmente le azioni degli organi istituzionali. Questo principio di non contraddizioni è vittima di uno stupro quotidiano per cui sui giornali, e alle volte purtroppo perfino nelle aule di giustizia, si riesce, da un lato a elevare a “osanna” personaggi che stanno calpestando la eredità lasciata da Falcone e al contempo mettere tutto in un racconto propagandistico per cui ciò che è accaduto in questi trent’anni diventa una specie di soap opera per cui i meriti sono i personaggi ai quali in realtà io attribuirei solo delle gravissime responsabilità e invece, per puro paradosso, i demeriti sono spesso attribuiti alle poche personalità che si sono spese per ricercare la verità anche quando la verità su quelle vicende che hanno creato una torsione alla storia d’Italia tiravano in ballo non solo esponenti di Cosa nostra ma anche responsabilità istituzionali.
In foto di copertina: rielaborazione grafica by Paolo Bassani
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