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Il procuratore De Luca in aula: “Coperti interessi estranei a Cosa nostra”. Luciani: “Anomalo coinvolgimento del Sisde”

Condanna a 11 anni e 10 mesi per Mario Bo e nove anni e mezzo per Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei e l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Sono queste le richieste che i magistrati di Caltanissetta hanno chiesto per i poliziotti del “Gruppo Falcone e Borsellino” accusati di concorso in calunnia aggravata dall'avere favorito Cosa nostra nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio. Nel corso della requisitoria, giunta oggi alla fine, la procura nissena ha parlato di un depistaggio "gigantesco" e "inaudito" che "ha coperto alleanze mafiose di alto livello". A sollecitare le condanne, altissime, è stato il Procuratore capo in persona, Salvatore De Luca, con accanto i pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso, subentrato da pochi mesi nel pool. De Luca, che ha ribadito come l’intera procura di Caltanissetta condivida le conclusioni del processo, ha chiesto la condanna per tutti e tre gli imputati. E' il pm Stefano Luciani a chiudere la requisitoria, prima delle richieste del Procuratore, parlando di Bo, Ribaudo e Mattei: "Hanno avuto molteplici condotte e tutte estremamente gravi che rendono tangibile il grado di compenetrazione nelle vicende - ha detto il pm Luciani rivolgendosi al Tribunale - avete ulteriori elementi che provano la sussistenza di questo elemento, la condotta che caratterizza l'illecito". "Non è una condotta illecita di passaggio ma che dal primo momento fino all'ultimo si ripete e si reitera", ha detto ancora il magistrato. "E' la pietra tombale al discorso che stiamo facendo". "E' dimostrato in maniera assoluta il protagonismo del dottor Mario Bo sulle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e nella illecita gestione di Scarantino nella località protetta", ha aggiunto il magistrato. "C'era una fiduciarietà del rapporto tra i tre imputati e Arnaldo La Barbera, che rende concreta l'ipotesi che abbiano avuto la reale rappresentazione degli scopi sottesi delle condotte poste in essere". E ancora: "A parere della Procura ci sono elementi che dimostrano convergenze che certamente ci sono state nella ideazione della strage di via D'Amelio tra i vertici e gli ambienti riferibili a Cosa nostra e ambienti esterni ad essa", ha spiegato il pm. E parlando dell'agenda rossa del giudice Borsellino sottratta negli attimi immediatamente successivi alla strage, il magistrato ha detto: "La sparizione dell'agenda rossa, se sparizione c'è stata, non fu di interesse di Cosa Nostra ma da collegare a interessi estranei". Luciani ha anche ricordato, sempre sulla sparizione dell’agenda rossa, che quando la figlia del magistrato, Lucia Borsellino, si è accorta, nel novembre del 1992, che nella borsa del padre l’agenda non c'era ”uscì dalla stanza in cui c'era l'allora dirigente della Squadra mobile Arnaldo La Barbera sbattendo la porta. E La Barbera disse alla madre di Lucia, la signora Agnese Piraino, che la figlia avesse bisogno di un supporto psicologico, perché delirava. Ma l'agenda rossa era scomparsa davvero".
In mattinata era stato il Procuratore capo di Caltanissetta, Salvatore De Luca, a intervenire per primo. “I plurimi e gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze, delle cointeressenze, di alto livello, di Cosa nostra che in quel momento riteneva di vitale importanza", ha affermato. E parlando dell'ex pentito Vincenzo Scarantino, che con le sue false dichiarazioni, ha fatto condannare all'ergastolo degli innocenti accusati di avere fatto parte della strage di via d’Amelio, De Luca ha detto: "Tutti sapevano che Vincenzo Scarantino alla Guadagna era un personaggio delinquenziale di serie C. Parlare di questo gigantesco, inaudito, depistaggio solo per motivi di carriera del dottor La Barbera (l'ex dirigente della Squadra mobile di Palermo, ndr) è la giustificazione aggiornata e rimodulata classica di Cosa Nostra". Il pm Stefano Luciani nel corso della requisitoria ha puntato la lente di ingrandimento su una "anomala accelerazione per la strage di via D'Amelio, che non era funzionale agli interessi di Cosa nostra". "I tempi erano invece funzionali ad ambienti esterni ai boss mafiosi", ha spiegato Luciani. "Siamo tutti in condizione di comprendere che la strage è avvenuta in un momento storico che ha prodotto effetti assolutamente devastanti per l'organizzazione mafiosa - ha affermato il magistrato - se, quindi, i tempi di realizzazione della strage sono tempi che non coincidevano con gli interessi di Cosa nostra, se è un dato oggettivo e incontestabile che i tempi non coincidevano con gli interessi dei boss, allora i tempi erano funzionali ad ambienti esterni a Cosa nostra". Ma chi? Per l’accusa "la strage di via D'Amelio presenta degli elementi che ci inducono a ritenere cointeressenze di queste collusioni". "Se si vuole avere una chiave per cercare di comprendere le motivazioni che sottostanno a questo depistaggio è utile partire dal confronto tra il prima e il dopo - ha spiegato Luciani nella requisitoria - Qual è il narrato che arriva dalle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e quello arrivato poi da Gaspare Spatuzza? La versione che dà Vincenzo Scarantino e quella che rende Gaspare Spatuzza, sulla fase esecutiva della strage di via d’Amelio sono pressoché sovrapponibili. Ciò che non troverete nella versione di Scarantino è la presenza dell'individuo all'interno del garage di via Villasevaglios non conosciuto da Gaspare Spatuzza e dallo stesso individuato come possibile soggetto esterno all'associazione mafiosa. Cosa persuade che questo sia uno dei punti focali della vicenda? Faccio riferimento alle dichiarazioni rese recentemente dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola, che sono un altro depistaggio e che dispiace non siano state introdotte in questo processo".


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L'ex capo della Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera © Imagoeconomica


Capitolo La Barbera e servizi segreti
Nel corso della requisitoria il pm Luciani ha parlato a lungo della figura di Arnaldo La Barbera, descritto dal pm come “una sorta di Giano bifronte”, che era a capo del 'Gruppo Falcone e Borsellino’ di cui facevano parte i tre poliziotti imputati, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Secondo l'accusa, La Barbera e i suoi poliziotti avrebbero indottrinato, con minacce e pressioni, l'ex pentito Vincenzo Scarantino di rendere false dichiarazioni per depistare le indagini sulla strage di via D'Amelio. "La familiarità di Arnaldo La Barbera con i Servizi segreti emerge in maniera chiara attraverso i suoi rapporti con il Prefetto Luigi De Sena", ha detto il pm Stefano Luciani. "Rapporti particolarmente stretti tra De Sena e La Barbera - ha detto il magistrato - ma come dice l'avvocato Gioacchino Genchi in aula, De Sena era una sorta di mentore di la Barbera". L’accusa ha ricordato che "il Sisde era solito erogare somme di denaro verso i funzionari che si occupavano di eversione o criminalità organizzata". E poi ha spiegato ancora che La Barbera, morto 20 anni fa, avrebbe ricevuto i soldi dal Side "in nero". "Che un ufficiale di Polizia giudiziaria prenda fondi riservati in nero per soddisfare sue esigenze di vita privata, rende quel soggetto più o meno compromesso rispetto a quegli apparati che lo foraggiano?". E poi ha aggiunto: "E' assolutamente provato in questo processo, ma lo era già al processo ‘Borsellino quater' di un, a dir poco, anomalo coinvolgimento del Sisde nelle primissime attività di indagini che hanno riguardato la strage di via D'Amelio". "La genesi di questo coinvolgimento viene ricostruita - ha dichiarato ancora Luciani - le dichiarazioni rese da questi soggetti sono interessati ad edulcorare la natura di questi rapporti, ma quello che emerge dalle carte è un dato non edulcorabile". Il magistrato ha quindi ricordato le deposizioni di Lorenzo Narracci e di Bruno Contrada.
Poi, parlando ancora dei servizi segreti, di cui La Barbera era componente, e del ruolo svolto dal falso pentito di mafia Vincenzo Scarantino nell'indagine sulla strage di via D'Amelio, il pm Luciani, ha spiegato: "O i Servizi segreti non hanno saputo fare il proprio mestiere, oppure c'era dell'altro...", lasciando la frase aperta. Il magistrato ha parlato, in particolare, di una nota datata 10 ottobre del 1992. "Una nota del Sisde che ha due particolarità - ha detto Luciani - quello che dice e quello che non dice". E poi ha rincarato la dose: "E' impensabile che i Servizi di informazione, facendo il loro mestiere, cioè acquisire informazioni sul territorio, non avessero saputo o compreso o capito che Scarantino era, per dirla alla dottor Fausto Cardella, uno 'scassapagliaro' di modestissimo spessore criminale o eravamo nelle mani di persone che non sapevano fare il proprio mestiere. Visto che non hanno dato alcun apporto di tipo informativo su fatti gravissimi come le stragi o, ripeto, c'era dell'altro...". Nel corso della lunga requisitoria, il pm Luciani ha più volte ribadito che "questo processo ci pone in linea di continuità con il processo Borsellino Quater che ci ha consegnato una verità e cioè che quelle condanne erano state comminate sulla base di prove manipolate che consistevano essenzialmente, ma non solo, in prove dichiarative. Era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e, infine, quella di Vincenzo Scarantino". Sottlineando che "in questo processo ci sono stati testimoni chiamati dalla procura, appartenenti al gruppo d'indagine sulle stragi Falcone e Borsellino, che non hanno fatto onore alla divisa che indossavano: si sono trasformati in testi della difesa in maniera grossolana. Spero che questi comportamenti siano segnalati a chi di dovere...''. In chiusura il pm Stefano Luciani, visibilmente commosso, rivolgendosi al Tribunale ha detto: "E' stato un lavoro duro e faticoso, ma pensiamo di avervi dato quantomeno una traccia che vi possa aiutare di a fare finalmente luce. Questa è una delle ultime spiagge rispetto alle quali potere continuare a fare luce su fatti cosi gravi che hanno segnato la storia di questo paese". Martedì prossimo sarà il turno delle parti civili.

Foto © Shobha

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