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Fabio Repici sull’assassinio del giornalista: “Diedero il loro apporto esponenti di apparati deviati dello Stato"

La Corte d'assise d'appello di Reggio Calabria, presidente Filippo Leonardo, ha rigettato la richiesta di revisione del processo a carico del rappresentante di Cosa nostra a Barcellona Pozzo di Gotto Giuseppe Gullotti condannato in via definitiva il 22 marzo 1999 a 30 anni come mandante dell'omicidio di Beppe Alfano, il giornalista ucciso l'8 gennaio 1993 da tre proiettili calibro 22 proprio a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. La richiesta era stata avanzata dal legale di Gullotti, l'avvocato Tommaso AutruRyolo, il 7 gennaio 2016.
Il Collegio ha anche disposto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (duemila euro) in favore delle parti civili, ovvero la moglie Mimma Barbaro, i figli Sonia, Francesco e Fulvio Alfano. Nell'istanza di revisione vi sarebbe stato un memoriale scritto dall'ex pubblico ministero Olindo Canali in cui si esprimevano forti dubbi sulla colpevolezza di Gullotti per la morte di Alfano, e in cui scriveva che "occorreva chiedere ed ottenere la revisione della sua condanna". L'ex magistrato, per quella vicenda, è adesso imputato con il rito abbreviato, per corruzione in atti giudiziari, insieme al collaboratore di giustizia Carmelo D'Amico dinanzi al gup del Tribunale di Reggio Calabria, Vincenza Bellini.
Secondo il capo d’imputazione l'ex pm avrebbe “accettato per sé la promessa della consegna di denaro di trecentomila euro, della quale riceveva una prima parte di cinquanta mila euro" da Carmelo D’Amico, oggi collaboratore di giustizia, per cercare di “ammorbidire” la posizione del boss Gullotti scrivendo quel famigerato memoriale che ‘piombò’ letteralmente in aula durante il maxiprocesso “Mare Nostrum“. Sul punto D'Amico aveva raccontato davanti ai giudici nel 2021 che Salvatore Rugolo (cognato di Pippo Gullotti e figlio di Ciccio Rugolo) gli aveva detto espressamente che "300mila euro servivano per pagare Cassata  (l'ex procuratore generale Franco Cassata) e 300mila euro per pagare Canali". E tempo dopo, nel 2008, avrebbe dato anche una prima somma da consegnare ai due.
L'avvocato Fabio Repici, dopo la sentenza, afferma che "era l'unico esito ragionevole in un giudizio di revisione sul quale grava l'ombra della corruzione in atti giudiziari nel processo a carico dello stesso Gullotti, del magistrato Olindo Canali e del collaboratore di giustizia Carmelo D'Amico. Ora auspichiamo passi avanti nel procedimento della Dda di Messina e negli accertamenti fra Messina e Reggio Calabria sui gravissimi depistaggi coi quali si è tentato di occultare quello che ormai è evidente: l'omicidio del giornalista Beppe Alfano fu un delitto fondamentale nel biennio stragista di Cosa Nostra 1992/93, al quale diedero il loro apporto esponenti di apparati deviati dello Stato".
Inoltre Sonia Alfano figlia del giornalista Beppe ha detto all'Agi: "Ribadisco a Gullotti ciò che già gli dissi in carcere quando lo andai a trovare nel 2012: deve pentirsi". "È arrivato il momento che Gullotti la smetta di ricorrere a certi mezzi, si penta. Non può fare altro, se non dire tutta la verità sull'omicidio di mio padre e chi lo ha commissionato. Stasera, grazie al nostro Avvocato Fabio Repici - conclude - è stato messo un punto fermo rispetto all'ennesimo tentativo di attacco alla verità".

Morto per aver condotto inchieste su mafiosi, politici e massoneria
Parlare di Giuseppe Aldo Felice Alfano - per tutti "Beppe" - sarebbe ipocrita se non si mettesse l’accento su a che cosa stava lavorando prima di essere ucciso, sui depistaggi che seguirono il processo, sulle rivelazioni del pentito Carmelo D'Amico e su quei patti inconfessabili tra mafia e massoneria deviata da sempre presenti nel territorio di Barcellona Pozzo di Gotto, 'rifugio' dell'eminenza grigia Rosario Pio Cattafi - “zio Saro” per il capo dei capi Totò Riina - su cui è stato riconosciuto il sigillo della mafia almeno fino a marzo del 2000. Le cause dell'omicidio  di Beppe Alfano sono ancora oggi oggetto di indagine nonostante la celebrazione di ben quattro processi. Una delle ipotesi si orienta verso la latitanza nel barcellonese del boss catanese Nitto Santapaola: Alfano, in base agli atti del processo trattativa stato - mafia sarebbe venuto a conoscenza della presenza del capomafia in quei luoghi. Ma anche in questo caso la macchina del depistaggio si era attivata e le indagini ne erano state profondamente danneggiate. La storia giudiziaria ebbe tuttavia una nuova svolta nel novembre 2021 quando nell'ambito dell'inchiesta "ter" - rivolto all'individuazione di "possibili ulteriori mandanti dell'omicidio" - Stefano Genovese, la cui posizione era stata archiviata nel dicembre 2020 assieme a Basilio Condipodero, è nuovamente tornato ad essere iscritto dalla Dda di Messina nel registro degli indagati. Nello specifico Genovese era accusato di essere uno degli esecutori materiali dell'omicidio del giornalista ma al tempo, secondo il gip di Messina Valeria Curatolo, non c'erano prove sufficienti contro la sua persona. Era stato il collaboratore di giustizia Carmelo D'Amico a definire Genovese e Condipodero rispettivamente sicario e basista dell'omicidio. Dichiarazioni poi confermate dal fratello Francesco D'Amico che aveva riferito in merito notizie "de relato". Ed anche un altro pentito, Nunziato Siracusa, aveva tirato in ballo Genovese. Inoltre a supportare le dichiarazioni del pentito D’Amico, ci sarebbero anche quelle del collaboratore Biagio Grasso che ha raccontato di aver saputo da Antonino Merlino (che gli confessò la propria innocenza) il nome del vero responsabile dell’omicidio, e cioè il killer barcellonese Stefano Genovese. Merlino, occorre ricordare, era stato imputato assieme ad Antonino Mostaccio, ex presidente dell’Aias e al boss Giuseppe Gullotti durante il primo processo per la morte di Beppe Alfano, iniziato nel 1995. Gullotti venne condannato in via definitiva come mandante e Antonino Merlino come esecutore materiale dell’agguato mentre per Mostacchio era stato assolto. Ma sul caso sono rimasti aperti tanti aspetti, a cominciare dai motivi che hanno portato Cosa nostra a compiere questo omicidio eccellente.

I buchi neri ancora irrisolti
Resta in primo piano la vicenda della mancata cattura del boss Nitto Santapaola a Terme Vigliatore, con il boss catanese che avrebbe trascorso l'ultima fase della sua latitanza proprio nel messinese.
Di questo aspetto Alfano sarebbe venuto a conoscenza e, secondo quanto sostenuto dalla figlia Sonia Alfano, il padre era stato ucciso proprio per aver rivelato al pm Olindo Canali la presenza di Santapaola a Barcellona. Sempre la Alfano ha raccontato di documenti spariti riguardanti traffici di armi e uranio sui quali il padre stava indagando.
Quegli appunti - ha ricordato in più occasioni - sono spariti da casa la sera stessa dell’omicidio, dopo la perquisizione delle forze dell’ordine. Alle 22.45 dell’8 gennaio 1993 piombarono a casa nostra oltre 50 agenti di vari corpi che portarono via numerose carte ed effetti personali, ma non tutto ci è stato restituito. Tante cose, anzi, non sono state neanche verbalizzate”.
Tra i buchi neri ancora irrisolti, vi è inoltre il mistero della Colt 22, l'arma usata per l'omicidio, mai sottoposta a perizia balistica, le cui tracce sono state scoperte dall’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia Alfano. In un verbale del 28 gennaio ’93, acquisito agli atti del processo, veniva riportato che 20 giorni dopo l’assassinio di Alfano, Olindo Canali (allora titolare dell’inchiesta) aveva scoperto che l’imprenditore Mario Imbesi possedeva una Calibro 22 e se l’era fatta consegnare con un iter quantomeno insolito. Il magistrato, infatti, invece di sequestrare l’arma, aveva atteso un’ora e mezza che l’imprenditore fosse andato a casa a prelevare la pistola per poi prenderla in consegna. Dopo otto giorni, il 5 febbraio, il revolver era stato restituito al proprietario, ma agli atti del processo non risulta alcuna perizia balistica sull’arma. Solo diciassette anni dopo la morte di Alfano, nel 2011, la Scientifica dimostrerà che quell’arma, con l’omicidio del cronista, non c’entra niente.
La fitta coltre che è stata sollevata attorno all’omicidio Alfano è indice che qualcosa di inconfessabile si è verificato nel 1993. Qualcosa che ha come protagonisti la “Cosa Nostra”, i “fratelli” Barcellonesi e la latitanza di Nitto Santapaola. Ora dopo la sentenza che ha rigettato la revisione rimangono ancora l’indagine su Stefano Genovese e il processo a Olindo Canali. Alla fine riusciremo ad avere la verità?

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