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Sono ormai passati 29 anni da quel 15 gennaio 1993, giorno dell'arresto di Salvatore Riina. "Non sarà questa corte né altre corti che potranno stabilire la vera entità di questo signore" aveva detto Tommaso Buscetta riferendosi a Riina durante il confronto tenuto davanti al giudice Gioacchino Agnello. Con il senno di poi possiamo tranquillamente dire che le parole di Buscetta ancora una volta corrispondevano a verità. Riina, l'uomo 'trattino' tra lo Stato e la Mafia, è rimasto una cassaforte di cui solo pochissimi ne conoscevano (e ne conoscono) i contenuti.
Ma se il capo dei capi è morto nel 2017 i suoi segreti godono ancora di ottima salute.
Tra questi vi sono sicuramente quelli finanziari la cui pista investigativa porta ancora una volta in Sudafrica, dimora del manager siciliano Vito Roberto Palazzolo soprannominato il “tesoriere di Cosa Nostra”.
La procura di Palermo aveva in passato definito Palazzolo “una delle più importanti e oscure figure dell'associazione Cosa Nostra”. Inserito “da oltre vent'anni nelle dinamiche associative mafiose, con funzioni rilevanti di cerniera tra il mondo imprenditoriale internazionale e l'associazione criminale, con lo scopo precipuo di consentire a Cosa Nostra la gestione e il reimpiego dei capitali assunti illecitamente".
Uno dei primi che aveva tentato di svelare i segreti di Robert Von Palace Kolbatschenko (nome da lui stesso inventato) era stato proprio l’allora giudice istruttore Giovanni Falcone: nel 1988, come raccontato oggi su ‘la Repubblica’, aveva chiesto di arrestare il finanziere originario di Terrasini poiché ritenuto artefice di quella colossale operazione di riciclaggio messa in piedi in Svizzera, per ripulire i soldi della Pizza Connection, il traffico di droga gestito da Cosa nostra fra il Medio Oriente, la Sicilia e gli Stati Uniti. Oltre a essere confermato all’unanimità da tutti i collaboratori di giustizia, questo ruolo era stato già raccontato nei dettagli da Vito Roberto stesso a Franco Oliveri, suo amico e compagno di detenzione.
La conferma era arrivata anche dalla terza sezione penale del tribunale di Palermo: “L’intero traffico era gestito dai vertici di Cosa Nostra e prevedeva l’acquisto di morfina dalla Turchia (da tale Musullulu), la successiva raffinazione e la vendita in pizzerie e ristoranti statunitensi. L’enorme ricavato gli veniva affidato (a Palazzolo) per essere rinvestito in operazioni apparentemente lecite ovvero veicolato in banche svizzere prima di fare ritorno in Sicilia”. I giudici di Palermo, sempre nella sentenza si condanna, avevano scritto che Roberto Palazzolo “in Sudafrica ha goduto di forti coperture politiche, essendo stato in stretto contatto con il partito nazionalista e subito dopo avendo sostenuto l’Africa National Congress e cioè il partito dell’ex presidente Mandela che avrebbe poi preso il potere. Oltretutto - continuano i giudici - Palazzolo risulta essere uno dei più influenti uomini d’affari dell’intero Sudafrica, proprietario di numerose miniere di diamanti, di estese aziende agricole, di un’industria per l’imbottigliamento dell’acqua minerale, di allevamenti di struzzi e di cavalli da corsa, di svariate concessioni per l’estrazione di preziosi e di un consistente patrimonio immobiliare e finanziario”. A fornire ulteriori informazioni riguardo a “Vituzzo” era stato il pentito Giovanni Brusca, il quale, durante una deposizione nell’ambito del processo a Salvatore Riina come mandante della strage del Rapido 904 a Firenze (23 dicembre 1984), aveva riferito che era stato proprio Palazzolo a fornire ai corleonesi l’abbondante partita di esplosivo Semtex utilizzata prima nella strage del rapido 904 e poi in quella di via D’Amelio. “Tale materiale - aveva detto Brusca - e anche la droga, proveniva tutto dalla Thailandia tramite il medesimo canale, ovvero Vito Roberto Palazzolo”.
I pm Domenico Gozzo e Gaetano Paci avevano scoperto anche che Palazzolo aveva corrotto persino il capo dell’unità speciale, appositamente costituita dal governo per indagare su di lui, l’allora generale Andre Lincoln. Il “tesoriere si Cosa Nostra” ha conosciuto le manette solo nel 2012 a Bangkok, successivamente estradato in Italia per scontare la condanna a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, era rimasto in cella fino al 2019 per poi sparire nuovamente dopo aver ottenuto l’affidamento in prova ai servizi sociali.
Volendo avanzare un’ipotesi potrebbe essere tornato in Thailandia. Una cosa è certa: il suo tesoro è ancora lì, al sicuro.
Solo tre anni fa sembrava essersi aperto uno spiraglio per i magistrati di Palermo, grazie ad un percorso di cooperazione giudiziaria fra l’Italia e il Sudafrica. Gli investigatori del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo guidati dagli inquirenti potevano arrivare a consultare alcuni documenti riguardanti il patrimonio del Palazzolo, nello specifico si parlava di società e miniere di diamanti in Namibia. Ma quei documenti non sono mai arrivati davanti agli investigatori. Inoltre i pm hanno riportato anche l’esistenza di numerosi ostacoli che le autorità sudafricane hanno posto in essere durante le indagini. Cosa fa oggi Vito Roberto Palazzolo? Secondo le ultime attività di cooperazione giudiziaria coordinate dal pm Dario Scaletta e dai colleghi Roberto Tartaglia (oggi vice capo del Dap) e Francesco Del Bene (oggi alla Dna) il manager siciliano ha continuato a gestire molte società in Sudafrica attraverso i familiari.
Certo è che Palazzolo è uno che conosce tanti segreti. Come aveva già fatto nel 1984, pur non considerandosi un collaboratore di giustizia, anche dopo l'estradizione del 2013 si era lasciato andare ad alcune dichiarazioni messe a verbale dai pm di Palermo e dall'Fbi. “Per potermi difendere dall’accusa di essere un mafioso devo raccontare chi sono e cosa ho fatto nella mia vita di finanziere” avrebbe detto al tempo ai pm. E in tante parole mai una è stata riferita sul suo immenso "tesoro". Eppure se un giorno dovesse parlare certamente farebbe tremare non solo i capimafia, ma anche tanti colletti bianchi che a quel "mondo" erano vicini.

Foto © Shobha

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