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20211215 dimatteo nino pres adinolfi roma

Presentato a Roma il libro sul giudice ''ammazzato'' 27 anni fa. All'evento anche il figlio Lorenzo Adinolfi

Paolo Adinolfi è un magistrato romano scomparso il 2 luglio 1994. Da allora e per i 27 anni che verranno, la moglie Nicoletta e i figli Giovanna e Lorenzo non hanno mai più avuto alcuna notizia di lui. Nel mezzo ci sono state inchieste della magistratura, testimonianze reticenti e ipotesi tutt'altro che rassicuranti. Adinolfi si è occupato di alcuni casi decisamente scottanti: dagli affari della Banda della Magliana alle sentenze aggiustate per compiacere il potere politico e criminale. Oggi un libro dal titolo “La scomparsa di Adinolfi” (ed. Castelvecchi), scritto da Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno, cerca di raccogliere i cocci facendo luce sulla sua misteriosa e inspiegabile scomparsa ricostruendo tutte le tappe delle inchieste sul giallo aperte e archiviate. Quando scompare, Adinolfi è un giudice della Corte d'Appello in servizio da venti giorni, ma è nella sua vita precedente, quella di magistrato alla Sezione Fallimentare, che si riscontrano ombre e segreti. E’ nella sua posizione di osservazione sulle sorti delle aziende che a Roma e in Italia facevano gli interessi di tanti, e sui loro fallimenti, che si anniderebbe l'origine di queste ombre durate quasi tre decenni. Ombre che ieri, a Roma, gli autori del libro hanno cercato di dipanare insieme a ospiti come il consigliere togato del Csm Nino Di Matteo, l’avvocato Lorenzo Adinolfi (figlio del magistrato) e la giornalista Rai Alessandra Forte.

Un libro per non dimenticare e per aprire un argine
A prendere parola per primo è stato l’autore Raffaele Guadagno. “Quando abbiamo tentato di rimettere a posto i fatti che mano a mano emergevano dai documenti, abbiamo pensato che era il caso di fare un libro e dedicarlo alla memoria di Paolo Adinolfi, un uomo dello Stato e che lo Stato aveva dimenticato”, ha esordito Guadagno. “Un uomo che per lo Stato è stato ammazzato, noi pensiamo questo”, ha affermato. “E lo Stato si è dimenticato di un suo servitore. Nessuno ne aveva mai parlato, noi abbiamo provato a ricordarlo. Speravamo e pensiamo che una persona perbene come lui non possa essere dimenticata da tutti. Nemmeno i suoi colleghi lo hanno ricordato e questa cosa ci ha fatto pensare tanto. E quindi abbiamo detto dobbiamo fare un libro. Abbiamo riscontrato delle cose che ci hanno lasciato pensieri, e abbiamo messo in campo delle ipotesi”. Lo scopo primario del libro, ha spiegato, “è far in modo che non fosse più dimenticato da nessuno". A seguire, è stato il turno del giornalista e co-autore del libro Alvaro Fiorucci.
Noi abbiamo ricostruito un contesto che era rappresentato dalla sezione fallimentare del Tribunale di Roma, abbiamo raccolto testimonianze su quello che avveniva in tribunale prima e dopo la scomparsa di Adinolfi”, ha detto l’autore. Quel che viene fuori - ha spiegato - è un “quadro in cui prima e dopo in quella sezione c’era un commercio di sentenze e affidamenti di fascicoli fallimentari che arrivava presumibilmente a un commercio di decisioni”. “I fallimenti dei quali si è occupato Adinolfi erano fallimenti che coinvolgevano masse finanziarie enormi ai tempi, parliamo di decine di miliardi di lire”. "Fallimenti che per come erano costituite le società, erano società importanti che avevano caratteristche che, direttamente o indirettamente, avevano tutte a che fare con personaggi della finanza non proprio pulita, imprenditori pregiudicati, ambienti della criminalità organizzata: dalla Banda della Magliana alle mafie”. “E poi ripercorrendo il filo rosso che lega queste società ci imbattiamo più volte in Enrico Nicoletti, conosciuto come il cassiere della Banda della Magliana ma ci ritroviamo anche a dover citare ambienti legati ai servizi segreti”. “Non sappiamo se erano ufficiali o deviati. Secondo noi Adinolfi è stato attratto in una sorta di tranello, è stato poi sequestrato ucciso e il cadavere fatto scomparire. Tutto questo per quello che Adinolfi aveva fatto, scoperto, reso pubblico o forse ancora da rendere pubblico nei suoi fascicoli alla Sezione Fallimentare”.


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Per quanto riguarda quello che gli autori definiscono un omicidio, “il fatto che non è stato ammazzato per strada probabilmente è dovuto al fatto che non si voleva avere un’attenzione maggiore che probabilmente avrebbe spinto gli inquirenti a condurre un’indagine molto più serrata di quella che è stata condotta”. “All’inzio - ha ricordato il giornalista - la sua scomparsa è stata considerata per un lungo periodo come una scomparsa volontaria”. Quindi, secondo Fiorucci, Adinolfi “non è stato ammazzato per strada per non fare rumore”. “Per noi la sequenza è questa, non siamo riusciti a scoprire però che cosa Paolo Adinolfi avesse scoperto, abbiamo ricostruito i terminali del potere sui quali si era imbattuto. Noi sappiamo che lui un giorno che era in vacanza a Spoleto disse a un amico “io se apro i miei cassetti al tribunale c’è il terremoto”. "E poi c’è una telefonata che ha fatto a un magistrato milanese che si era occupato dell’aspetto penale di una compagnia assicuratrice che poi Adinolfi aveva trattato come situazione fallimentare. Una assicurazione legata a quella galassia di società alle quali ho accennato”. “Se mettiamo insieme questi due racconti - ha spiegato l’autore - sicuramente abbiamo la conferma che Paolo Adinolfi aveva toccato o stava per toccare i fili dell’alta tensione”.
Probabilmente, secondo Fioruci, “negli ambiti della criminalità organizzata qualcuno sa o ha sentito dire perché Paolo Adinolfi è stato ammazzato”. “Quindi la speranza è questa, che qualcuno si decida a dire ciò che sa. Se arrivasse soltanto, anche in forma anonima, un’indicazione per trovare i resti del magistrato, già sarebbe un grande risultato. E da qui può avvenire la rottura di un argine e si ottiene qualcosa in più per poter investigare a fondo sulla scomparsa di questo magistrato”.

Le parole del figlio Lorenzo
Insieme agli autori è intervenuto anche il figlio del magistrato, Lorenzo Adinolfi, oggi avvocato. “Avevo sedici anni quando mio padre uscì di casa dicendoci ‘torno più tardi, ci vediamo a pranzo’. Questi 27 anni sono stati molto complicati”, ha ricordato Adinolfi. “Di fronte a un lutto elabori le motivazioni ma noi abbiamo a che fare con il nulla”. L’avvocato ha quindi voluto ringraziare gli autori, il pubblico e il dottor Nino Di Matteo presente in sala tra i relatori. “E’ la prima volta che ho il piacere di avere un collega di papà accanto che mi sostiene dal punto di vista personale essendo qui e già questo è motivo per scavare”. “Raffaele e Alvaro hanno ricostruito perfettamente lo spirito di mio padre grazie alle carte e alle testimonianze”. “Però oltre al carattere di memoria c’è anche un profilo di indagine che è importante non dimenticare”. “Sono passati 27 anni e probabilmente questo è un momento fondamentale per cercare di raccogliere le idee e soprattutto per stimolare quelle persone che sanno qualcosa sulla sua scomparsa che non hanno parlato”. Lorenzo Adinolfi ha detto di tenere così particolarmente all’aspetto di indagine "perché è vero che in Italia si pensa alle indagini come risolutive di tutto, ma io penso anche che quando in questa storia sono state fatte le indagini, tutte queste hanno portato a qualcosa”. “Io mi aspetto che lo Stato sia al nostro fianco perché mio padre, nonostante avesse lasciato la sezione fallimentare negli anni ’90, ha continuato a seguire da cittadino le vicende da giornali e si voleva far parte attiva. A me piacerebbe - ha concluso - che questo desiderio di verità e giustizia che mio padre continuava a perseguire fino al giorno della sua scomparsa non fosse dimenticato da nessuno”.

La speranza per la verità e il “mea culpa” della magistratura onesta
Durante l’incontro la giornalista Alessandra Forte, che ha moderato l’incontro, ha chiesto a Lorenzo Adinolfi se la sua famiglia intende richiedere l’apertura delle indagini. “Essendo un avvocato in presenza di assenza di elementi formalmente oggi non lo posso richiedere sennò l’avrei già chiesta”, ha risposto Adinolfi. “Però, come accennavo, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica è fondamentale”. “L’ultima richiesta di archiviazione va in un’unica direzione: quella di cercare all’interno del suo lavoro. Il problema è che sono 25 anni di lavoro e la carne al fuoco è tantissima. Io sono anni che insieme alla mia famiglia chiedo verità. A noi basta sapere un luogo dove piangerlo, innanzitutto, e quindi mi rivolgo a tutti coloro che in questi anni, anche deliberatamente o superficialmente, sono intervenuti sparando notizie e informazioni senza darci consigli per arrivare a poter dare un fiore o piangere in un posto. Io e la mia famiglia siamo disposti a tutto per arrivare alla verità e non molleremo di un centimetro”. Su questo specifico aspetto è quindi intervenuto il magistrato Nino Di Matteo, l’altro ospite della serata.
Sono intervenute due richieste di archiviazione del gip, ma non acquisiscono carattere di definitività”, ha esordito Di Matteo. “Questo nel nostro sistema processuale comporta e consente in ogni momento, in presenza di qualsiasi elemento dotato di minima concretezza, nuovo e successivo rispetto al meccanismo di archiviazione, un meccanismo della riapertura delle indagini preliminari”.


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Di Matteo, dopo la spiegazione tecnica, ha voluto correlare qualche esempio.
Molte volte e in molti casi, altrettanto complessi e anche all’inizio misteriosi, si è arrivati poi a delle verità processuali dopo molte archiviazioni e in esito alla riapertura delle indagini. L’esempio è quello dell’omicidio dell’agente di polizia Antonino Agostino e della moglie che in quel momento si trovava in stato di gravidanza, del quale per molti anni non si è saputo nulla nonostante le testimoniante di decine e decine di collaboratori di giustizia anche di livello, di Cosa Nostra”. “Non eravamo mai arrivati a nulla di concreto, anzi sembrava proprio che gli stessi mafiosi, perfino lo stesso Riina, interpellato dai suoi, tra virgolette collaboratori più stretti, non sapessero perché era stato ucciso quel poliziotto. Soltanto molti anni dopo, degli spiragli di verità si sono aperti, proprio nella ennesima riapertura delle indagini. C’è stata una richiesta di rinvio a giudizio per tre imputati. Due hanno scelto il rito ordinario quindi attualmente il processo è appena iniziato in corte di assise, uno ha scelto il rito abbreviato ed è stato condannato in primo grado a trent’anni di reclusione. Con gusto cosa voglio dire: che il trascorrere del tempo non impedisce la scoperta della verità. Quello che deve caratterizzare l’opera degli inquirenti e dei magistrati è soprattutto la perseveranza, il non considerare mai, rispetto a delle soluzioni che non ci sono, definitivamente archiviato un caso come questo”. Di Matteo, poi, ha umilmente voluto rivolgere le proprie scuse da rappresentante della magistratura per via del disinteresse di quest’ultima rispetto alla vicenda Adinolfi. “Io pur essendomi molto occupato, ed essendo un appassionato per quanto si possa essere appassionati, di ricerca della verità soprattutto di tutto quello che è avvenuto in Italia nei primi anni 90’, non avevo contezza prima di leggere questo libro della complessità del caso e della gravità del silenzio che, io devo dire, anche la magistratura, anche gli organismi rappresentativi della magistratura, l’Anm e il Csm, hanno molto colpevolmente tenuto in tutti questi anni”, ha affermato. “E noi ci dobbiamo vergognare di questo”.
Entrando poi nel merito del libro Di Matteo ha osservato che nella prefazione il giornalista Giovanni Bianconi solleva alcuni dubbi che, in realtà, “sono in parte risolti”.
Primo dubbio che è arieggiato per anni: non si è trattato di un allontanamento volontario. Non ci sono le condizioni, non c’è il contesto che possa giustificare un allontanamento volontario. Il secondo dubbio è che evidentemente il giudice Adinolfi è stato sequestrato e molto probabilmente ucciso. Il terzo dubbio, che è quello legato al movente, secondo me ci porta su una strada molto dritta e molto lineare: è stato ucciso per il suo lavoro, è stato ucciso forse più che per vendetta, allo scopo di prevenire quello che il giudice Adinolfi non più appartenente alla sezione fallimentare avrebbe potuto e mi pare voluto rappresentare anche a colleghi diversi da quelli che lavoravano al tribunale o alla procura di Roma, tanto che aveva preso contatti con un magistrato della procura di Milano”.
E allora - ha affermato il magistrato palermitano - se questi dubbi sono risolti io credo che lo Stato in tutte le sue componenti debba assumersi il dovere morale, prima ancora che istituzionale e giuridico, di non lesinare sforzi per cercare di arrivare anche ad una verità processuale”.

L’isolamento di Adinolfi
Di Matteo ha poi confessato che alcune testimonianze riportate nel volume lo hanno particolarmente impressionato. "In queste si dice che molti magistrati, subito dopo la scomparsa del dottore Adinolfi, hanno detto che ‘aveva un brutto carattere’ e quindi a voler in qualche modo ipotizzare che questi fatti, cioè che la scomparsa potesse essere collegata ad un motivo caratteriale o ad un motivo di natura personale”. Questo, ha affermato Di Matteo, accade molte volte “prima dell’uccisione di un magistrato”. “Parliamo dell’isolamento e della delegittimazione anche all’interno da parte delle istituzioni”.
Io mi chiedo - ha continuato il consigliere del Csm - come questo Paese abbia digerito, e io per primo nonostante sia appassionato di queste cose, non soltanto studiavo i fascicoli processuali ma tutto quello che riguardava queste vicende, come abbia digerito la scomparsa del giudice Adinolfi". "Oggi quando il mio collega Sebastiano Ardita mi ha proposto di partecipare alla presentazione di questo libro, io ho accettato con grande entusiasmo perché da una parte sento, questa è una frase mia, che io da magistrato sento il bisogno di chiedere scusa alla famiglia di Adinolfi per la scarsa attenzione che la magistratura nel suo complesso, soprattutto nei suoi organismi rappresentativi, ha mostrato in questi anni". "Però sento anche il bisogno di incoraggiarvi perché non tutto è perduto. Innanzitutto perché la ricostruzione dei fatti e la loro diffusione dà meritato onore alla memoria di suo padre, un magistrato con la schiena dritta, e poi perché comunque dalla memoria può essere sempre stimolata la ricerca della verità. La memoria non può essere uno sterile esercizio retorico, la memoria deve essere conoscenza dei fatti. E la conoscenza dei fatti può senz’altro sviluppare un approfondimento degli stessi anche in sede investigativa e processuale. Quindi questo è quello che mi viene spontaneo dirvi e rappresentarvi”. “Questo - ha concluso il magistrato - mi auspico non sia un libro che rimarrà solo come testimonianza". Di Matteo ha quindi fatto un’ultima considerazione: “Alcune volte gli argini si rompono improvvisamente a distanza di tanti anni”. “Bisogna cercare la verità. Anche i libri servono a capire che non c’è rassegnazione. Così come certe volte anche da un libro si può riaprire un’indagine e già il far sapere che l’indagine c’è può essere da stimolo nei confronti di chi sa e finora ha taciuto”.

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