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A Torino la prima presentazione del libro di Beccaria, Repici e Vaudano con Caselli e Mattiello

La dottrina cardine di Giovanni Falcone, giudice palermitano assassinato da Cosa nostra il 23 maggio 1992, era quella che negli anni, specie dopo l’inchiesta della FBI “Pizza Connection” alla quale il magistrato diede una spinta, passò alla storia come “follow the money”, in inglese “segui i soldi”. Ed è seguendo i soldi che la giornalista Antonella Beccaria, l’avvocato Fabio Repici e il magistrato, oggi in pensione, Mario Vaudano, hanno ricostruito alcune delle dinamiche che hanno riguardato Licio Gelli nel libro di recente uscita “I soldi della P2” (ed. Paper First). Spulciando carte, documenti, sentenze e deposizioni - tutti documenti pubblici ma mai approfonditi - gli autori, seguendo la “scia che porta a Gelli”, come suggerisce il titolo del volume, hanno scoperto, mettendo in correlazione date, nomi e misfatti, un’altra faccia della Loggia P2 e dei suoi finanziamenti e ramificazioni nel mondo criminale: dai sequestri di persona, ai casinò, passando per le organizzazioni mafiose e neofasciste. Un lavoro certosino durato anni e reso possibile anche e soprattutto grazie al magistrato Mario Vaudano il quale, nonostante i suoi problemi di salute che lo accompagnano da qualche anno, ha fornito un apporto fondamentale, oltre che una testimonianza diretta da protagonista di quegli anni frenetici passati in rassegna nel libro. Sabato pomeriggio a Torino, città storicamente importantissima sul fronte della lotta all’eversione nera e al terrorismo politico, si è tenuta la prima presentazione nazionale de “I soldi della P2”. Insieme agli autori, sono intervenuti il magistrato Gian Carlo Caselli, ex procuratore della Repubblica di Torino e Davide Mattiello, consulente della Commissione parlamentare Antimafia. “I soldi della P2” è un libro che vuole “mantenere viva - ha detto Vaudano in un video proiettato in sala a inizio evento - la fiammella della speranza”.

Oggi è possibile ricostruire la verità sull’85% degli anni di Piombo
A prendere parola per prima tra gli autori, è stata la giornalista Antonella Beccaria, che ha parlato del contenuto del libro presentato presso la Fabbrica delle ‘E’ a Torino. “Noi raccontiamo fatti che sembrano lontani tra loro, nel nostro lavoro però abbiamo riscontrato ricorrenze di nomi che tornano in questo lungo decennio di storia che raccontiamo. Fu un sistema ampio perché la storiografia di questo paese a lungo ha tenuto separati fenomeni criminali ingabbiandoli all’interno di alcune specificità”, ha detto Antonella Beccaria. “Qui non stiamo parlando di un grande disegno criminale tenuto da un grande vecchio, ma pariamo di camere di conversazione che hanno interessi comuni e che nel corso del tempo li perseguono questi interessi adattando le pratiche criminali adattandole al momento contingente”, ha spiegato. E ancora. “Se guardiamo solo alla storia dello stragismo neofascista che va dal 1969 al 1980, ma credo come sostiene Davide Mattiello, che dovremmo arrivare al 1994, noi riusciamo a ricostruire almeno l’85% di quello che è successo”, ha affermato. “Non credete a chi vi dice che la storia delle stragi resterà sempre un mistero”.


vaudano mario


Il delitto Occorsio
Nel corso del suo intervento al pubblico, l’autrice ha parlato anche della storia di uno dei magistrati trattati nel libro, Vittorio Occorsio, ex sostituto procuratore a Roma. Durante il periodo della Strategia della Tensione “Occorsio si era occupato del “Piano Solo”, ovvero il tentato golpe del 1964, che, come i tentativi golpisti che accompagneranno l’Italia fino alla metà degli anni ’70, dovevano costituire la minaccia di un golpe e di conseguenza un tentativo di condizionare il governo di centro sinistra contenendo le spinte riformatrici. “Proprio le indagini sul 12 dicembre condussero Occorsio - ha spiegato l’autrice - a occuparsi di Ordine Nuovo, definitivamente associata alla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, e ad accorgersi che dietro l’eversione di destra e in particolare Ordine Nuovo, ma anche Avanguardia Nazonale di Stefano Delle Chiaie o il Fronte Nazionale del principe Junio Valerio Borghese, c’erano degli aspetti che andavano al di là del tentativo di restaurare mani militari o regimi dittatoriali in Italia”. Occorsio conosceva, dunque, molto bene il mondo di destra, tanto che nel novembre 1973 è riuscito ad ottenere le condanne, come ha ricordato l’autrice, “per i vertici e fondatori di Ordine Nuovo, alcuni dei quali scapperanno anche in Francia, nelle zone che raccontiamo in questo libro”. E da un esponente di Ordine Nuovo, Pierluigi Concutelli, verrà assassinato il 10 luglio 1976, condannato in via definitiva per il delitto. “Concutelli si è autoproclamato capo militare di Ordine Nuovo, così da poter aver autonomamente deliberato l’eliminazione di un magistrato che, non solo aveva fatto condannare vertici della sua organizzazione ma aveva anche decretato, una settimana dopo le condanne, lo scioglimento di Ordine Nuovo”. Questa, ha affermato la giornalista, “è la verità giudiziaria del delitto Occorsio”, “Concutelli è sicuramente assassino di Occorsio, ciò che invece andiamo a raccontare nel libro è che la strada che conduce all’omicidio è molto più ampia”. “Innanzitutto Concutelli non è un soldato politico come si autodefinisce, duro e puro, nasce politicamente nella Palermo della fine anni 60 e entra in contatto con famiglie di Cosa nostra siciliana di primo livello”. Un excursus criminale, quello di Concutelli, “che lo porta ad essere presente, nel 1969, nelle settimane precedenti alla strage di Piazza Fontana a un importante summit di ‘Ndrangheta. Mentre a Roma vediamo la compresenza di Concutelli con Stefano Delle Chiaie e uomini della ‘Ndrangheta. Recenti indagini giudiziarie come Mammasantissima e ‘Ndrangheta stragista - ha ricordato la Beccaia - dicono che criminali così diversi non potevano trovarsi in contesti criminali come la Roma del 1975-1976 se non avevano obiettivi criminali comuni”.


beccaria antonella pres soldi p2


I soldi nei casinò
E’ sempre in questo entourage che, ha ricordato la scrittrice, troviamo gli uomini di Albert Bergamelli, fondatore del clan romano dei Marsigliesi, “coloro che ricavano dai sequestri di persona 6 milioni di dollari che vengono utilizzati per l’acquisto di un edificio a Roma che sarà la sede dell’OMPAM, una organizzazione massonica, una sorta di meta-P2 a livello mondiale che nelle sue velleità voleva porsi sullo stesso livello delle organizzazioni internazionali come l’UNESCO e che doveva essere una possibile alternativa ai tentativi di scioglimento della P2 consumati all’interno della fine del 1974 e 1975”. Un anno, quello, in cui rinasce una parte della P2 “anche attraverso il beneplacito di uomini come l’avvocato Minghelli che noi ritroviamo come uomo della gestione finanziare della P2”. Ma non finisce qui. “Nel seguire le tracce finanziare sulle quali stava indagando Occorsio noi vediamo che questi soldi si allontanano da Roma e dall’OMPAM perché era chiaro che la P2 sarebbe risorta più forte di prima con un progetto autoritario diverso rispetto alla prima metà degli anni ’70 e questo flusso finanziario conduce in particolare a dei casinò di Nizza, casinò Le Ruhl, che viene gestito da un personaggio importantissimo che poi ritroveremo nelle indagini di Bruno Caccia, che si chiama Jean Dominique Fratoni, che veniva chiamato “il napoleone” dei tavoli da gioco d’azzardo e riuscirà in una politica di accaparramento di altri casinò”. Inoltre, ha aggiunto, “ci siamo trovati a un certo punto di fronte a un tentativo di acquisto, attraverso pratiche criminali e corruttive, e abbiamo trovato tra gli atti del crack del Banco Ambrosiano di Calvi, cioè il cuore finanziario della P2 dopo l’uscita di scena di Michele Sindona, certificati che dimostrano che non solo i casinò della Costa Azzurra, quelli comprati, almeno in parte, con il riciclaggio dei sequestri di persona, erano soldi della P2 ma c’erano addirittura certificati di proprietà. Questo spiega come questi fenomeni fossero assolutamente liquidi, laddove c’era una convergenza di interessi”, ha concluso Antonella Beccaria.


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I buchi neri
Dopo Antonella Beccaria, è stato il turno dell’altro autore, Fabio Repici, parlare del libro “I soldi della P2”. “Il percorso che ha portato al libro è stato davvero faticoso”, ha esordito Repici. Il libro - che l’avvocato annuncia avrà un seguito con l’autobiografia di Mario Vaudano con il quale l’autore ha detto di aver avuto l’onore di collaborare nella realizzazione del libro - nasce sulla scia della vicenda giudiziaria dell’omicidio Caccia e sulla percezione degli episodi importantissimi della storia d’Italia “che definire ‘damnatio memorie’ era troppo poco”. “Cosa ci ha portato a concludere le ricerche fatte da questo libro? Ci porta a concludere che in realtà anche la storia della Loggia P2 nel racconto pubblico fatto è molto lacunosa, pagando dazio a un modo imperfetto del nostro giornalismo di fermarsi a ciò che è stato accertamento giudiziario senza svilupparsi oltre”. “Antonella - ha raccontato Fabio Repici - ha trovato nei bilanci del Banco Ambrosiano, somme utilizzate da Gelli per far comprare casinò ai mafiosi. E’ una cosa mai vista né oggetto di riflessione per arrivare ai motivi per cui ci fossero anelli di congiunzione davvero impressionanti tra il mondo di Gelli e due fenomenologie criminali, i casinò e sequestri di persona. Il discorso, questo, non molto lontano, persino nelle pratiche criminali, da quello che era stato scoperto nell’inchiesta ‘finanze e petroli’ dal giudice istruttore Mario Vaudano”. “Perché noi mettiamo insieme i sequestri e i casinò? Il filo finanziario è unico, è lo stesso, i soldi passavano dai riscatti per i sequestri di persona ai casinò come quelli di Saint Vincent, della Costa Azzura e Campione d’Italia. Raccontiamo vari sequestri e segnaliamo anche la lettura profetica fatta da un commissario di Polizia nel 1977 a Trapani nella quale spiegava l’esistenza di cointeressenze criminali che partivano dai sequestri persona, che passavano all’eversione neofascista, che passavano a ambienti massonici che erano la nervatura della parte nera del potere di questo Paese”. Uno di questi sequestri raccontati nel libro era quello avvenuto nel 1975 nella provincia di Como di Cristina Mazzotti, una diciottenne.


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Uno degli episodi più amari mai visti nella mia storia di avvocato”, lo ha definito Repici. “Mi vergogno di essere cittadino nel leggere cosa è stata la trattazione del sequestro, con omicidio, di quella povera ragazza. Una settimana fa ho presentato denunciato alla Dda di Milano sul sequestro di Cristina perché ci sono responsabili per i quali ci sono prove assolutamente insuperabili della loro responsabilità e mi auguro che almeno nell’anno 2021 non ci siano più insabbiamenti sul cadavere della Mazzotti”. Di buchi neri ci sono stati anche nell’azione giudiziaria sui casinò, come ha ricordato l’autore del libro. Questi buchi riguardano Jean Dominique Fratoni, che diventò padrone di tutti i casinò della costa azzurra al tempo. “Quando l’11 novembre 1983 c’è il blitz di San Martino con gli arresti per le scalate mafiose ai casinò di Saint Vincent, Campione d’Italia e Sanremo, alcuni soggetti si rendono latitanti”, ha ricordato Repici. “Vennero trovati a Lugano nel cosiddetto palazzo dei latitanti insieme a Fratoni, il quale, la notte successiva al sequestro disposto dalla procura di Bruno Caccia al casinò di Saint Vincent, un mese prima dell’omicidio, si precipitò guarda caso al casinò per vedere cosa stava succedendo e in quel momento era latitante perché ricercato per la gestione del casinò di Nizza. Accade che nonostante tutte le prove del coinvolgimento, in quell’associazione a delinquere di tipo mafioso che si è impadronita dei casinò, uno degli uomini principali è l’uomo di Licio Gelli Fratoni”. Secondo Fabio Repici, in quell’occasione avvenne “un’esfiltrazione processuale”. “Cioè - ha spiegato il legale -  vengono imputati molti, ma non Jean Dominique Fratoni. E così, raccontiamo nel libro, attraverso questa esflitrazione processuale di Fratoni, Licio Gelli e i soldi della P2 non sono entrati nel processo sui casinò”.


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Capitolo Caccia
Le inchieste sui casinò non finiscono molto bene nel tempo, e il 26 giugno 1983 venne ucciso il procuratore della repubblica di Torino Bruno Caccia che Fabio Repici, legale della famiglia Caccia, ha voluto ricordare. “Un delitto dimenticato”, lo ha descritto Repici, “anche se un po’ meno dimenticato dal 2013”.
Caccia, fra il 1967 e il 1970 fu tenuto sotto controllo dal SID”, ha ricordato Repici. “Le indagini sulla morte di Caccia sono state svolte ufficialmente dai servizi segreti, un esponente chiamato Ferretti. Io non so chi sia stato che controllava, non proprio per simpatia, Bruno Caccia, certo è che nel 1971 e 1973, quel Ferretti era nel SID. E anche il procuratore Caselli, qui presente, era controllato”. “Ma i servizi segreti - ha sottolineato Repici - non possono collaborare con la magistratura perché è vietato dalla legge, eppure le indagini sull’omicidio del procuratore della Repubblica di Torino furono fatte con quel canone vietato dalla legge”. “Le indagini, tra l’altro, sono delegate dai servizi segreti a un mafioso, e lo fece con un registratore datogli dai servizi segreti. E’ il mafioso quindi che decide l’indirizzo delle indagini. Il mafioso diventò collaboratore di giustizia il 27 ottobre 1984, si chiama Francesco Miano, a quel punto non c’è remora di investigatore sotto copertura in carcere fatta a Miano. E accade il 30 ottobre 1984, nella stanza del procuratore aggiunto della procura, un incontro, il funzionario Sisde Pietro Ferretti, un dirigente della Digos, e il procuratore aggiunto. Davanti al magistrato l’ufficiale dei servizi segreti consegna all’ufficiale di polizia giudiziaria le bobine delle registrazioni di Francesco Miano. La verità sarà urticante ma quella è. E allora ci possiamo arrendere al fatto che c’è un soggetto, Demetrio Latella, che fu indicato come il primo killer di Bruno Caccia, il conducente della 128 che quella tarda serata del 26 giugno 1983 portava i due killer, su di lui non si è mai voluto investigare, è inoltre uno dei responsabili del sequestro e della morte della Mazzotti. E’ rimasto impunito per l’uno e per l’altro omicidio”.
L’omicidio di Bruno Caccia - ha concluso Repici - ha costituito una cesura nella storia della procura della Repubblica di Torino, ciò che era fino al 26 giugno, non lo è stato dal 27 giugno e non lo è stato per molti anni”.


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Caccia, Occorsio e Selis. Tre magistrati “integerrimi

Dopo Fabio Repici ha preso parola il magistrato, oggi in pensione, Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo di Torino. “Questo libro si può leggere anche come una storia della magistratura italiana”, ha esordito. “Una storia dai prezzi terribili pagati quando sono stati interpretati i ruoli, non in modo burocratico, ma con l’etica della responsabilità, con voglia, impegno, passione”. Nel libro, infatti, si narra la storia di tre magistrati “che di etica e responsabilità ne avevano in misura esemplare al punto di non arretrare mai di fronte agli ostacoli più rischiosi o ai pericoli più evidenti che il loro lavoro potesse comportare”. Si tratta di Vittorio Occorsio, Bruno Caccia e Giovanni Selis. “Magistrati integerrimi colpiti a causa della loro integrità ed etica della responsabilità che nel nostro Paese emerge abbastanza raramente”. Per quanto riguarda Occorsio, “nel libro emerge la sua solitudine, a tutto tondo, ricordando gli attacchi da lui subiti di natura eterogenea. Una solitudine, però, da contestualizzare, proiettando sulla magistratura del tempo. Era l’epoca in cui la procura di Roma insieme al tribunale di Roma erano allegramente, e non per caso chiamate, ‘porto delle nebbie’. Un esempio per tutti: il golpe Borghese. Nel golpe erano coinvolti, oltre funzionari pubblici di ogni grado con un gran numero di iscritti alla P2, anche uomini dell’eversione fascista e uomini della mafia siciliana. I mafiosi avevano il compito di uccidere il capo della Polizia, mentre Licio Gelli avrebbe dovuto occuparsi del rapimento del presidente della Repubblica. Tutto ciò che era successo, secondo le sentenze che avevano assolto tutti e 46 gli imputati per il fatto non sussiste, era stata motivato con la motivazione che tutto ciò che era successo non era altro che il parto di un concidiavolo di quattro o cinque sessantenni e allora si capisce quando fosse difficile e contro corrente l’attività di Occorsio in un contesto di solitudine affollato però da personaggi pronti ad affossare a vario titolo e in vari modi”.


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L’altro magistrato era Giovanni Selis, del quale Caselli ha detto di avere molti ricordi personali e oltre che a ottimi rapporti intimi. “Quando Selis investiga ad Aosta la sua solitudine nel libro viene disegnata con una efficacia impressionante insieme all’ostilità ambientale che persiste nel tempo. Se è vero che ancora 40 anni dopo la bomba Etienne Andrione, figlio del presidente della regione il cui nome ricorre spessissimo nel libro, osa dire di Selis ‘non mi esprimo sulla santificazione di un personaggio che forse non meritava, gli avevano finalmente dedicato qualche cosa in Aosta. Andrione non sa di essere secondo soltanto a Giulio Andreotti, il quale dopo l’omicidio Ambrosoli, ucciso da un killer di mafia, che non tollerava che Ambrosoli non fosse sdraiato sull’interesse di Sindona, Andreotti intervistato a ‘La storia siamo noi’, dice simpaticamente che in sostanza Ambrosoli se l’era cercata”.
E poi Bruno Caccia, maestro di Caselli. “Anche Caccia viene isolato, leggendo il libro e partendo dalla solitudine di Occorsio e Selis, sono giunto a questa conclusione: l’isolamento di Caccia nasce quando si conclude l’istruttoria con il rinvio a giudizio delle BR in corte d’Assise di Torino. Al tempo Caccia era sostituto procuratore generale presso la corte d’Appello di Torino, la procura generale aveva avocato l’inchiesta togliendola alla procura della Repubblica. Come procuratore generale avocante poteva fare l’inchiesta, ma una volta disposto il rinvio a giudizio, cessava completamente la competenza della procura generale, doveva intervenire per legge la procura della Repubblica. Succede però che nessun pm della procura di Torino vuole andare in Corte d’Assise. Era questa una mancanza di rispetto verso Caccia, in quanto ex titolare dell’accusa. Una sorta di delegittimazione obliqua ma piuttosto evidente. Questa en passe di nessun pm che voleva andare in udienza presentando il più anziano che era Moschella, sostanzialmente costretto ad accettare perché il più anziano. Dunque, anche qui abbiamo un intreccio di burocrazia in assenza di etica e responsabilità che si doveva sentire nei confronti di Bruno Caccia. Quindi questa situazione che sovraespone Caccia quando diventa procuratore della Repubblica una volta lasciata la procura generale. Quando Caccia diventa procuratore la capacità della procura cresce in misura esponenziale, i magistrati acquistano sempre più entusiasmo e efficenza e viene creato un pool efficiente anti terrorismo. Era uno scatto evidente in avanti percepito anche all’esterno. Un esempio formidabile dell’etica della responsabilità. Un cambio di passo radicale rispetto alla gestione precedente, che provoca una sovraesposizione pesantemente aggravata dal tradimento di alcuni, troppi, colleghi, disponibili a intrallazzi con il malaffare. Un contesto molto scomodo per certi interessi”. Caselli ha quindi infine ricordato come insieme a Caccia, nel libro si parla anche di Vaudano, “che possiamo indubbiamente affiancare a Caccia, Selis e Occorsio”.


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Cosa farebbe oggi la P2?
Nella presentazione del libro è intervenuto anche l’ex deputato e consulente della Commissione Antimafia Davide Mattiello secondo il quale esiste una similitudine tra le vicissitudini narrate ne “I soldi della P2” e la storia di Carlo Palermo. “Le storie illuminate in questo libro - ha esordito Mattiello - mi rimandano a un’altra storia, che per me è indissolubilmente legata a quegli anni, quella del magistrato Carlo Palermo che doveva morire nel 1985 a Trapani per l’inchiesta cominciata a Trento nel 1981 che aveva avuto la capacità di evidenziare una connessione impressionante tra movimentazione transnazionale di morfina base, denaro e armi che passavano da Trento. Inchiesta sepolta, lui costretto a allontanarsi a Trapani e a Trapani avrebbe dovuto morire ma invece così non fu perché l’attentato sterminò una famiglia innocente. La Storia di Palermo credo sia profondamente legata alle storie che gli autori illuminano”. Mattiello, intervenuto per primo all’evento, ha affidato agli autori una domanda “che a me arrovella”. “Noi siamo tutti qui perché siamo innamorati di democrazia liberale costituzionale fondata su un presupposto: la fiducia nella libertà delle persone. Se siamo qui a fare a cazzotti con queste storie non solo di mafia, è perché qualcuno in questo Paese non s’è mai fidato della democrazia, né della libertà delle persone e ha sempre pensato che tutto dovesse meglio essere governato, controllato e indirizzato. Costi quel che costi. La domanda allora è questa: se Gelli fosse vivo ancora oggi , con le tecnologie di cui disponiamo oggi, come si organizzerebbe? E’ una domanda e un modo per dirci che con grande fatica cavalchiamo il passato per capire come quarant’anni fa quei poteri hanno dirottato la libera informazione della decisione democratica usando mafie, terrorismi, bombe ecc. Ma cosa farebbero oggi questi personaggi e cosa userebbero, dove interverrebbero per orientare, condizionare e silenziare?”. “Io credo che uno sforzo titanico come questo debba lasciarci questa domanda aperta, perché tanto vale studiare il passato e in tanto ci consente di capire la sfida del presente e come oggi difendiamo un’idea di democrazia senza tutele che non siano quelle della nostra Costituzione Repubblicana”, ha concluso.

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