Nelle motivazioni della sentenza di condanna in Appello a 6 anni i rapporti consolidati coi Messina Denaro
“D’Alì ha manifestato la propria disponibilità verso (o vicinanza a) Cosa Nostra dai primi anni ’80 del secolo scorso fino agli inizi dell’anno 2006 e comunque non vi è prova di una condotta di desistenza dell’imputato incompatibile con la persistente disponibilità ad esercitare le proprie funzioni ed a spendere le proprie energie in favore del sodalizio mafioso”. A scriverlo, nero su bianco, sono i giudici della corte d’Appello di Palermo, nelle motivazioni della sentenza del processo svolto in abbreviato con cui, il 21 luglio scorso, l’ex senatore berlusconiano è stato condannato a sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. In 138 pagine la corte ha riassunto in maniera tranciante i rapporti consolidati con i Messina Denaro di Castelvetrano, dal vecchio “don Ciccio”, campiere dei terreni della famiglia D’Alì, alla ‘vicinanza‘ al figlio Matteo, boss stragista ancora oggi latitante. D’Alì, eletto tra le fila dei forzisti nel 1994 ha seduto al Senato per vent’anni, “intrattenendo relazioni” con Cosa nostra, anche durante i cinque anni in cui è stato Sottosegretario agli Interni del governo di Silvio Berlusconi, dal 2001 al 2006. “D’Alì ha certamente assunto degli impegni seri e concreti a favore dell’associazione mafiosa e ciò lo si può desumere sia dalla sua già stabile, affidabile, comprovata e ventennale disponibilità a spendersi in favore di Cosa Nostra”, si legge nella sentenza.
Secondo i giudici “D’Alì ha concluso nel 2001 (dopo una inverosimile già ventennale disponibilità verso il sodalizio mafioso) un patto (l’ennesimo) politico/mafioso con Cosa Nostra in forza del quale il sodalizio gli ha garantito l’appoggio elettorale che ha consentito all’imputato di essere nuovamente eletto al Senato (elezione che poi ha costituito da viatico per l’acquisizione dell’incarico di Sottosegretario al Ministero dell’Interno)”. Sulla base di questo assunto, secondo la corte presieduta dal giudice Antonio Napoli (consigliere Fabrizio Anfuso, consigliere relatore Gaetano Scaduti), “deve ritenersi che il reato in oggetto è stato commesso dal D’Alì fino al 2006 e quindi, la permanenza è cessata dopo l’entrata in vigore della legge 251/2005”, cioè l’ex Cirielli. Inoltre, nelle motivazioni depositate in questi giorni in cancelleria, si arriva alla conclusione che “essendo cessato il reato nel 2006, esso non era prescritto quando in data 11 maggio 2012 è stato disposto il rito abbreviato (evento interruttivo della prescrizione), con la conseguenza che da quel momento iniziava a decorrere un ulteriore ventennale prescrizionale che non può ritenersi spirato al momento della presente decisione”.
Una valutazione importante, se si pensa alle varie tappe del processo all’ex senatore di Trapani. Nel primo processo il gup di Palermo, infatti, lo aveva assolto per i fatti successivi al 1994, dichiarando prescritti quelli compiuti un periodo precedente a quella data, tra cui la compravendita fittizia di un terreno in contrada Zangara, “diretta da Matteo Messina Denaro”, come raccontato dal pentito Francesco Geraci. Già nel 1996, durante un processo a Trapani per diffamazione, l’ex amico del boss stragista, raccontava di aver intrattenuto rapporti con D’Alì “il banchiere… forse ora è Onorevole”, per ottenere la restituzione in contanti dei pagamenti che aveva ricevuto con degli assegni. Un dettaglio confermato anche dal fratello di Geraci, Tommaso, rispetto alla riconsegna del denaro ad uno dei D’Alì, “uno con la barba che forse fa il senatore”. La Dda di Palermo, tuttavia, archiviò l’inchiesta ritenendo di non poter identificare il D’Alì indicato dai due fratelli. La vicenda salterà fuori nel nuovo processo, per cui il politico era stato assolto anche in Appello. Una decisione infine annullata dalla corte di Cassazione, che riconoscendo “cesura illogica” tra i due periodi, prima e dopo il 1994, aveva rinviato il fascicolo ai giudici palermitani, per un nuovo processo d’Appello.
I giudici della Cassazione avevano anche dato delle particolari indicazioni, tra cui un elenco di testimoni da ascoltare in aula. Due su tutti: il collaboratore di giustizia Antonino Birrittella e l’ex economo della Diocesi di Trapani, don Ninni Treppiedi. Entrambi secondo i giudici hanno fornito delle testimonianze credibili e vengono considerati attendibili. Tra i nuovi episodi, ricostruiti durante il processo d’Appello bis, e riportati in sentenza, ci sono il trasferimento del prefetto Fulvio Sodano, voluto dal senatore D’Alì, e il tentativo di frenare il rilancio della Calcestruzzi Ericina, l’azienda confiscata al boss Vincenzo Virga che la mafia trapanese voleva portare al fallimento. “(Il boss Francesco, ndr) Pace voleva fare ‘terra bruciata’ attorno alla Calcestruzzi Ericina, facendo in modo che tutti i suoi (di tale impresa) clienti storici la lasciassero per rivolgersi ad altre imprese del settore”, ha raccontato Birrittella. Infine, però, bisognava trasferire quel prefetto scomodo, spostato ad Agrigento nel luglio 2003. Nel corso del processo la corte ha ascoltato la vedova di Sodano, Maria Augello, “la quale ha dichiarato di aver personalmente presenziato al dialogo tra Cuffaro e Sodano”, in cui “Cuffaro era stato chiarissimo nel riferire che il trasferimento del prefetto Sodano era esclusivamente additabile alle insistenze dell’allora Sottosegretario D’Alì, che aveva ‘fatto una testa così al Pisanu”. I giudici hanno ricostruito la vicenda in aula, ascoltando Cuffaro, l’ex ministro dell’Interno Beppe Pisanu e il suo ex capo di gabinetto Carlo Mosca, che hanno fornito versioni discordanti: i loro verbali sono stati trasmessi in Procura per falsa testimonianza.
“Era stato il Pace a dare indicazioni alla famiglia mafiosa di Trapani (che allora già governava) circa l’appoggio elettorale in favore di D’Alì in relazione alle elezioni politiche nazionali del 2001”, ha raccontato il collaboratore Birrittella, riferendo quello che per la corte è l’ultimo accordo dell’ex senatore con Cosa Nostra. Un abbraccio perverso, proseguito fino alla fine della legislatura, avvenuta nel 2006. Agli inizi del 2006 il D’Alì ha rassicurato lo stesso Tommaso Coppola (imprenditore edile arrestato per mafia) - che aveva stretti legami sia con l’imputato che col Pace, a sua volta, in stretti rapporti con l’ex politico D’Alì - sul fatto che grazie all’intervento del medesimo imputato, il detenuto ‘per mafia’ non avrebbe perso le commesse già in precedenza promessegli”. Il costruttore aveva chiesto informazioni al sindaco di Valderice. “Non ti preoccupare che quando le cose partono voi sarete tenuti in considerazione”, avrebbe detto l’ex senatore, aggiungendo che “non so se è il caso di aspettare che si calmino le acque”. Per i giudici, però, una posizione “più ‘prudente’ può essere il frutto di una valutazione di opportunità mentre non è certamente da ricondurre ad una decisione del D’Alì di non favorire più il sodalizio mafioso ed i soggetti collusi con esso”.
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