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Su L'Espresso l'intervento dello storico giornalista

Condividiamo e riportiamo qui di seguito un articolo scritto dall’editorialista de La Stampa, Francesco La Licata, pubblicato su L’Espresso.




Quello che Ilda non dice: reticenze e confidenze superflue

di Francesco La Licata

L’autobiografia di Boccassini parla troppo di Falcone e troppo poco di collusi e potenti. E sembra avere l’unico scopo di riaccendere i riflettori sull’autrice. Dal nuovo blog de L’Espresso su mafia, antimafia e dintorni


Con questo articolo inizia la pubblicazione di un nuovo blog, “Il conTesto”, coordinato da Tano Grasso e animato da persone che a vario titolo, nei rispettivi ambiti, si sono occupate di mafia, antimafia e dintorni. Uno spazio di servizio per conoscere, analizzare, criticare ciò che intorno a questo tema viene scritto e prodotto: libri – come l’autobiografia di Ilda Boccassini e “Fare giustizia” di Giuseppe Pignatone – ma anche film, serie Tv, documentari. Un luogo virtuale per accendere il dibattito, nella convinzione che opporsi alla mafia non significa limitare la libertà delle idee. Anzi.

Il punto di vista di Ilda Boccassini, sia sui fatti pubblici che su quelli privati, non può essere né banale né trascurabile. Per questo la lettura della sua autobiografia richiede uno sforzo di concentrazione maggiore e un tempo di riflessione solitamente non concesso agli sforzi letterari che in stagioni come la presente ci vengono propinati. Abbiamo perciò letto con l’attenzione dovuta il lungo racconto del magistrato (ma forse Ilda preferirebbe magistrata) più "divisivo" della nostra recente storia giudiziaria e perciò politica. Una lettura per molti versi istruttiva: anche se non sempre fatti e retroscena narrati appaiono del tutto inediti, viene offerta quella angolazione particolare che li rende ancora appetibili.

La storia di Ilda Boccassini è indissolubilmente legata al suo percorso professionale che, per sua stessa ammissione, l’ha portata ad essere avversata, quando non addirittura odiata, dall’intero mondo in cui è stata costretta a muoversi per via del proprio mestiere. Contestata persino per la sua "fisicità" (non le hanno perdonato neppure il rosso dei suoi capelli o i tailleurs che indossava in udienza), considerata propedeutica all’aggressività che metteva nelle sue indagini e nella difesa della propria autonomia anche rispetto all’invasività dei poteri e della sua stessa corporazione. Avversione che assumeva evidenza plastica nelle "contromisure istituzionali" che tradivano la voglia di normalizzare un elemento destabilizzante del quieto vivere paludato della politica. Basti pensare a quando il ministro Claudio Scajola, con sospetta sollecitudine, le tolse la scorta.

Tutto questo tragico "teatrino" è un racconto interessante e riavvolge il nastro di un film che non va dimenticato: la stagione dei grandi processi alla corruzione (Tangentopoli milanese), la ricerca spasmodica dei misteri legati allo stragismo mafioso, la battaglia con Berlusconi e col sottobosco economico e finanziario del capitalismo nordico. E poco importa che il filo della narrazione scorra sui binari di un eccessivo protagonismo della principale attrice. Un filo più di qualche volta incompleto quando non addirittura reticente.

Oggi, per esempio, racconta della indebita intromissione dell’allora capo della Polizia, Gianni De Gennaro, in favore del Silvio Berlusconi indagato. Confessione tardiva che sarebbe stata più appropriata nel momento in cui il fatto avveniva. Evasiva la vicenda della sua uscita di scena dalle indagini sulla strage di Capaci nel momento in cui maturava il depistaggio affidato al falso pentito Scarantino, che a Ilda non piaceva. Boccassini andò via lasciando due relazioni negative sul pentito che, però, rimasero saldamente nelle mani di chi non aveva interesse a denunciare quel depistaggio.

Ed è reticente, Ilda la Rossa quando non parla del suo rapporto privilegiato col compianto giornalista Beppe D’Avanzo di cui ricorda solo le «liti furiose». Ma tradisce tutta la sua frustrazione nel momento in cui ammette di essere stata sottostimata dal potere: «Nessun parlamento ha mai chiesto una mia consulenza».

Eppure non è tutto ciò finora scritto che ha segnato la overdose di visibilità della "Stanza numero 30" di Ilda Boccassini, appena uscito e già su tutte le prime pagine. Il libro è famoso ormai esclusivamente per la "rivelazione" sull’"amore perduto" dell’autrice: Giovanni Falcone. È difficile pensare che la linea editoriale scelta non abbia preso in considerazione la certezza che l’interno racconto si sarebbe ridotto al solo "capitolo Falcone", come dimostrano le recensioni di giornali e siti on line, per non parlare dei "tribunali social". E allora viene da pensare: ma quanto sarebbe stato meglio tenersi dentro gelosamente il gran segreto?

Ma evidentemente Ilda la Rossa, nella sua infinita ansia da ego, tra le mille puntualizzazioni e piccole vendette, aveva anche da precisare al mondo il privilegio, a suo dire, di una storia, una tenera storia d’amore con Falcone. Una esperienza che ancora la prende, tanto da farle scivolare la penna senza che nessun intervento di editing sia riuscito a frenarla. E allora si lascia andare a particolari anche imbarazzanti, persino dal punto di vista della scrittura. Difficilmente le potrà esser perdonata la descrizione di un momento d’intimità con Giovanni, nel mare dell’Addaura: «Giovanni prima mi prese la mano, poi la lasciò e cominciammo a nuotare verso l’ignoto...». Per non parlare del «lusso rilassante» della prima classe del boeing che li portava in Argentina a chiedere l’estradizione di Tanino Fidanzati. Forse sarebbe stato meglio rivelare tutte le confidenze di lavoro che dice di aver ricevuto da Falcone e tenersi dentro tutto il resto.

Falcone non amava raccontarsi nel pubblico, figurarsi nel privato. Sposò Francesca quasi in clandestinità e rimandava al mittente ogni tentativo di sapere di più della sua vita privata. E non soltanto per questioni di sicurezza. Resisteva alla tentazione delle dichiarazioni eclatanti, insomma non amava la pubblicità. Rimproverò a Borsellino il clamore provocato da una sua intervista in favore dell’amico Giovanni "bocciato" dal Csm per il ruolo di consigliere istruttore. E arrivò a firmare le conclusioni dell’inchiesta sui delitti politici, che non condivideva, solo per senso istituzionale e avversione ai gesti clamorosi «buoni solo per i giornali». Ma non c’è più e non possiamo chiedergli cosa pensi del racconto privato di Ilda Boccassini.

Tratto da: espresso.repubblica.it

Foto © Imagoeconomica

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