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E' il nuovo bavaglio all'informazione. E alla memoria che rende liberi

Qualche anno addietro ho letteralmente divorato una serie tv: Il Trono di Spade (Game of Thrones), ispirato al ciclo di romanzi Cronache del ghiaccio e del fuoco (A Song of Ice and Fire) di George R. R. Martin.
La consiglio per chi ama il genere fantasy, le trame con intrecci politici e le evoluzioni di personaggi complessi. Senza fare “spoiler” posso dire che tra i “villain” in quella serie ve ne è uno che vuole “cancellare il mondo”, annientando la vita, ma anche il suo ricordo. E per riuscirci, deve eliminare la coscienza dell'esistenza. Perché, come si dice ad un certo punto “in fondo la morte è questo, dimenticare, cadere nell’oblio, chi dimentica dove è stato e cosa ha fatto, non è più un uomo”.
Tranquilli, non voglio parlare delle storie dei Sette Regni, della Regina dei Draghi, degli Estranei o dei Dothraki. Ma voglio puntare il dito contro ciò che sta avvenendo nel mondo reale, in Italia, sotto i nostri occhi, mentre il Paese è ancora alle prese con la pandemia.
Perché mai come ora, forse, il mondo dell'informazione e quel sacrosanto diritto sancito dall'articolo 21 della Costituzione è in pericolo.
Nei giorni scorsi abbiamo raccontato come in Commissione giustizia sia in discussione un decreto legislativo sulla presunzione di innocenza, approvato dal Consiglio dei ministri il 5 agosto 2021 e sviluppato in sei articoli.
Una vera e propria legge bavaglio che lega le mani ai cronisti ed i magistrati, forse anche più di quel ddl sulle intercettazioni che dal 2009 in poi è stato sempre contrastato dai vertici della stampa italiana, proprio perché non permetteva di raccontare la verità dei fatti ai cittadini.
Inutile dire che anche questo provvedimento sta passando con il solito mantra del “ce lo chiede l'Europa”. Esattamente come la riforma della giustizia in materia di prescrizione, o i pareri sull'ergastolo ostativo, il 41 bis e tante altre “finezze” politiche ed economiche.
E pensare che l'Italia, nel mondo, è uno degli Stati più garantisti in assoluto, non solo per i tre gradi di giudizio previsti, ma per il fatto che la presunzione di non colpevolezza è garantita dalla Costituzione fino, appunto, a una condanna definitiva.
La commissione Giustizia, alla Camera, è impegnata in questi giorni in alcune audizioni e già la prossima settimana il decreto sarà votato.


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La ministra della Giustizia, Marta Cartabia © Imagoeconomica


All'articolo 2 si legge che “è fatto divieto alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.
Ciò significa che i magistrati non devono dunque indicare come colpevoli i loro indagati prima che arrivi una condanna definitiva. E se lo faranno, oltre al dovere di rettifica pubblica, rischiano sanzioni penali, disciplinari o anche economiche.
Nell'articolo 3 si stabilisce che i magistrati potranno parlare “esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa”. Ma non finisce qui, perché anche la stampa verrà condizionata. Infatti i giornalisti non potranno più parlare con i magistrati, né tantomeno con ufficiali di polizia giudiziaria, salvo note ufficiali o autorizzazione del Procuratore capo.
La conseguenza è ovvia: i cittadini non potranno più conoscere correttamente procedimenti che riguardano personaggi pubblici, politici, membri del governo, uomini delle istituzioni, imprenditori e protagonisti del potere economico e finanziario.
Non c'era bisogno di questa normativa per regolamentare i rapporti con la stampa. Per i magistrati è già prevista l'obbligatorietà di non diffondere elementi oggetto di indagini in corso.
E' per questo che viene posto il segreto sugli atti investigativi. Una volta che sono depositati, e quindi diventano pubblici, avere una corretta comprensione degli stessi è una questione di trasparenza e garanzia per i cittadini.
Nell'articolo 4 si dice che “la persona sottoposta a indagini o l’imputato non possono essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. E per la compilazione degli atti giudiziari si definisce che “nei provvedimenti che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi di colpevolezza (...) l’autorità giudiziaria limita i riferimenti alla colpevolezza della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato alle sole indicazioni necessarie a soddisfare i presupposti, i requisiti e le altre condizioni richieste dalla legge per l’adozione del provvedimento”.
Insomma se si commette un reato grave, sempre meglio mantenere un certo garbo e un'adeguata misura anche per non rischiare punizioni o correzioni che, ovviamente, possono essere chieste dall'indagato o imputato di turno.
Altri interventi sono previsti sull'acquisizione dei tabulati, dei dati telefonici e telematici che dovrà sempre avere o un decreto motivato o una convalida del giudice.


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Come se nulla fosse, tutto nell'oblio
Ma a preoccupare più di ogni cosa è la scandalosa “norma” inserita all'interno della riforma dell'ingiustizia Cartabia, già ampiamente criticata per i nuovi termini di improcedibilità penale e per la possibilità data al Parlamento, alla faccia del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, di dettare ai magistrati le priorità nei reati da perseguire.
Perché in uno degli articoli, di cui si è poco parlato, si prevede la possibilità di far scomparire dal web le tracce di tutte quelle storie che non siano finite con le condanne in una sentenza definitiva.
Parliamo dell'articolo 25 del disegno di legge “per l’efficienza del processo penale”.
Vi è scritto: “Prevedere che il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa dell’Unione europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati o imputati”.
Qui siamo ben oltre il “diritto all'oblio”, o diritto di essere dimenticati, che è espressione del diritto alla riservatezza (o privacy), inteso come il diritto di ottenere la cancellazione dei propri dati personali che sono stati resi pubblici (Cass. civ., Sez. III, 09/04/1998, n. 3679).
Nella norma non vi sono distinzioni tra le persone comuni e quelle pubbliche.
I termini sono generici ed assoluti. Così chiunque abbia avuto una sentenza di assoluzione, un’archiviazione, un non luogo a procedere, o anche una prescrizione o improcedibilità, potrà far deindicizzare dai motori di ricerca gli articoli che riguardano il suo procedimento.
Come se nulla fosse accaduto. Come se i fatti, già sbiaditi dal trascorrere del tempo, potessero essere completamente rimossi dalla memoria.
Così nel web potremmo trovare la descrizione di un fatto realmente avvenuto, in cui non viene citato in alcun modo il soggetto che è stato assolto o prescritto.
Ovviamente capiamo perfettamente la necessità del diritto all'oblio per le persone comuni che sono uscite totalmente scagionate da determinati processi e che si trovano in grandi difficoltà proprio nel momento in cui cercano di andare avanti nella propria vita.
Non dimentichiamo che il diritto all’oblio nacque per proteggere le vittime di violenza sessuale di cui, giustamente, non si devono diffondere identità o, peggio, contenuti.
Ma se si tratta di storie che hanno a che fare con la storia del nostro Paese, con fatti gravi che hanno riguardato determinati momenti della nostra Repubblica, che hanno riguardo personaggi che volente o nolente hanno fatto parte di essa e che si sono inseriti all'interno di accadimenti di interesse collettivo, una norma simile non possiamo né comprenderla, né accettarla.
Perché è come se si passasse con il bianchetto su quelle “righe scomode” di un libro di storia.
Oggi il collega Gianni Barbacetto, sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, lo ha ricordato in maniera chiara ed ha evidenziato come a rischio di “oblio” possano esserci storie come quella del generale Mario Mori, recentemente assolto nel processo d'appello sulla trattativa Stato-mafia, così come in altre sentenze, perché “il fatto non costituisce reato”, ma che proprio certe sentenze mostrano come il “modus operandi” sia stato tutt'altro che eroico.
Secondo la legge Cartabia Mario Mori ora potrebbe far sparire dal web la sua presenza processuale e impedire ai lettori, ai cittadini e agli storici di ricostruire il suo ruolo nella trattativa, ovvero l'interlocuzione avuta con l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino.


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Giulio Andreotti © Imagoeconomica


E magari avrebbe potuto fare lo stesso il sette volte Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, se fosse stato in vita, dal momento in cui fu salvato dalla prescrizione nonostante la sentenza d'appello, confermata in Cassazione, abbia stabilito che il reato fu “commesso fino alla primavera del 1980”.
Quella stessa prescrizione che in qualche maniera ha salvato tanti politici e potenti di turno che hanno compiuto reati di corruzione e affini.
Con il diritto all'oblio chi potrebbe mai sapere questi delicati passaggi, fondamentali nel momento in cui potrebbe anche esserci la possibilità, per taluni soggetti, di diventare amministratori comunali, provinciali, regionali o parlamentari.
Delle difficoltà ci sarebbero anche per raccontare le vicende processuali di Berlusconi, un imprenditore che pagava la mafia (così come è scritto nella sentenza definitiva di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa a danno del suo braccio destro, Marcello Dell'Utri), e che nonostante sia finito indagato ed imputato in svariati procedimenti ha subito una sola condanna definitiva per frode fiscale.
E che dire di fatti storici come la strage di piazza Fontana dove, nonostante i processi, ancora oggi non c'è un colpevole anche a causa di assurde assoluzioni.
E pensare che, come ha ricordato Barbacetto, “una sentenza della Cassazione del 2005 afferma che i responsabili dell’attentato sono Franco Freda e Giovanni Ventura, che però non possono più essere condannati perché definitivamente assolti per lo stesso reato nel 1987”. E tra gli esempi ha citato anche Pino Rauti, che fu indagato per la strage di piazza Fontana, ma poi prosciolto.
Ciò significa che andrebbe deindicizzato il suo nome dagli articoli, ma la storia dice che lui è il fondatore del gruppo fascista di Ordine nuovo.
Ovvero quel gruppo implicato, secondo una sentenza definitiva, nelle stragi di piazza Fontana (1969) e piazza della Loggia (1974).
Con questa legge, è evidente, si cerca di far raccontare la storia solo dalle sentenze, come è accaduto in maniera evidente nel recente processo Stato-mafia, definito “boiata pazzesca”.
Ma boiata non è. I fatti sono fatti e restano scolpiti nella storia.
Noi, da parte nostra, di fronte ad una legge che tenta di cancellare la memoria, di fronte al nuovo oscurantismo e al revisionismo che si sta manifestando, diciamo già che siamo pronti alla disobbedienza civile. Non la rispetteremo in nome dell'articolo 21 della Costituzione che va oltre la libertà di manifestazione del pensiero rilevando l'importanza del diritto di informare, cioè di trasmettere notizie agli altri, come diritto di informarsi, cioè di attingere informazioni da più fonti, e come diritto di essere informati.
Anni fa, di fronte all'imminenza delle prime leggi bavaglio sulle intercettazioni, un grande magistrato e libero pensatore come Bruno Tinti, sul blocco dell'informazione diceva: “Distruggerà l’assetto democratico del nostro Paese. I cittadini non sapranno più nulla, i delinquenti che hanno infiltrato la politica a ogni livello si presenteranno con le mentite spoglie di brave e oneste persone. La classe dirigente perpetuerà se stessa senza controlli e senza resistenze. La parte sana di essa si ridurrà progressivamente. E l’Italia diventerà un paese senza legge e senza etica, sempre più povera e indifesa. Fino al disastro finale, fino alla bancarotta istituzionale ed economica. Non possiamo permetterlo”. E poi ancora: “Non so quali e quante informazioni riuscirò a conoscere; non so in che misura farle conoscere ai cittadini potrà rallentare il degrado del nostro paese. Ma io non rispetterò questa legge; e sono certo che molti altri non la rispetteranno. Vedremo se davvero è arrivato il tempo della dittatura”.

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