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Scarpinato: “Boss in attesa spasmodica della nuova legge. Un centinaio di irriducibili potrebbero uscire senza collaborare




Ieri alle ore 10 di mattina la Commissione Giustizia, nell'ambito dell'esame delle proposte di legge recanti accesso ai benefici penitenziari per i condannati ai reati cosiddetti ostativi, di cui all’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, ha svolto in videoconferenza le seguenti audizioni: Sebastiano Ardita, componente del Consiglio Superiore della Magistratura; Alfonso Sabella, giudice presso il Tribunale di Napoli; Gian Carlo Caselli già Procuratore di Palermo e di Torino; Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo; Luca Tescaroli, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze.
Nell’aprile scorso la Corte costituzionale ha decretato l’incostituzionalità della legge che vieta la libertà vigilata a boss mafiosi e terroristi che non collaborano, passando la patata bollente al Parlamento il quale ha un anno di tempo per riscriverla. Se il legislatore non interverrà, modificando l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, pure i mafiosi stragisti che non hanno mai collaborato con la giustizia, come Giuseppe Graviano, potranno chiedere di accedere alla libertà vigilata dopo aver scontato 26 anni di carcere.
Tutti i relatori presenti ieri hanno concordato sul fatto che occorre mantenere la collaborazione come unico strumento idoneo a constatare la reale intenzione del condannato a volersi distaccare dall'organizzazione mafiosa e che il Parlamento dovrà applicare tutta una serie di accorgimenti tali da rispettare i paletti imposti dalla Consulta senza che si incorra nell'eventualità che boss stagisti, o i cosiddetti 'irriducibili' lascino il carcere e che tornino a reiterare il reato e/o a riagganciare i rapporti con l'organizzazione mafiosa di provenienza.
Un compito arduo che vede sulla scena numerosi attori visibili e invisibili. Una cosa è certa: tra coloro che tifano per l'abolizione dell'ergastolo ostativo ci sono soprattutto i boss dell'ala stragista di Cosa Nostra i quali, secondo Scarpinato sono: "In spasmodica attesa".

Boss di mafia, poteri occulti e i segreti del biennio stragista
L'ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, prendendo in esame l'oggetto di discussione della Commissione, ha ricordato che “il primo a prendere l'iniziativa, nella fase iniziale della strategia stragista, fu proprio Salvatore Riina il quale poco dopo l’introduzione della normativa sull’ergastolo ostativo pose tra le condizioni per interrompere la strategia stragista" la sua abrogazione.
Infatti fra le richieste scritte nel famoso 'papello' vi era anche quella di riconoscere il beneficio della dissociazione ai condannati di mafia come già accadeva per le brigate rosse. "Dopo l’arresto di Riina - ha continuato Scarpinato - ebbe inizio una lunga trattativa, condotta per conto di tutti i vertici di Cosa Nostra da alcuni capi detenuti, Salvatore Biondino - braccio destro di Salvatore Riina - Giuseppe MadoniaBenedetto Santapaola, (all'ora componente della commissione regionale di Cosa Nostra) e Pietro Aglieri". Questa trattativa aveva coinvolto anche i vertici istituzionali tra cui il "procuratore nazionale antimafia e ben due ministri della giustizia, nel 2000 l’on. Piero Fassino e nel 2005 l’on. Roberto Castelli". I capi mafiosi - sia detenuti sia a piede libero - seguivano l'evoluzione dei 'lavori' e, "come dimostrato da un’intercettazione del 2006 partecipava anche Bernardo Provenzano", ha detto Scarpinato, "il quale per un verso rassicurava tutti sul fatto che bisognava avere pazienza e che certamente sarebbe stata mantenuta la promessa sull’abolizione dell’ergastolo ostativo” inoltre “raccomandava a tutti di non commettere omicidi e atti eclatanti perché avrebbero potuto compromettere il buon esito dei lavori in corso”.
Secondo Scarpinato alla base di un tale impegno, "ininterrotto e straordinario" da parte dei vertici della mafia stragista - Salvatore Biondino, Giuseppe Madonia, Benedetto Santapaola e assieme a loro Raffaele GanciGiuseppe e Filippo Graviano e Antonio Madonia e altri capi di Cosa Nostra e di ‘Ndrangheta - vi sarebbe una strategia a lungo periodo.
Sul terreno dell’abrogazione dell’ergastolo ostativo è in corso da lungo tempo una partita - ha detto il magistrato - Un ‘gioco grande’ lo avrebbe definito Giovanni Falcone" e "nel quale gli interessi in campo non sono soltanto gli interessi visibili nel dibattito pubblico ma anche interessi restrostanti ed occulti. Abbiamo significativi segnali di cui non posso rivelare per ragioni di segreto investigativo dell’attesa, attuale e spasmodica, da parte dei capi mafia detenuti dell’emanazione da parte del Parlamento della normativa che abrogherà la norma sull’ergastolo ostativo”.
Capi mafia che "sono depositari di segreti di importanza destabilizzante per l’intero sistema del potere nazionale", ha detto, sottolineando il fatto che “sappiamo da una pluralità convergente in risultanze processuali che costoro conoscono l’identità dei mandanti e dei complici delle stragi del 1992 e del 1993. Conoscono le motivazioni politiche sottostanti alla strategia stragista posta in essere nel biennio 92 - 93, conoscono le motivazioni dei clamorosi depistaggi posti in essere nei processi sulle stragi per impedire l’emersione di verità che vanno oltre il livello degli esecutori e dei componenti della commissione. Per questo motivo i segreti di cui costoro sono depositari, sono per un verso una condanna al silenzio che impedisce loro di collaborare e per l’altro verso sono anche una preziosa merce di scambio”. “Alla luce di questa consapevolezza mentre leggevo la proposta di legge in esame ho cominciato a fare un censimento mentale di tutti i capi mafia condannati all’ergastolo, detenuti da qualche decina di anni, i quali si troveranno tutti sui nastri di partenza quando entrerà in vigore la nuova normativa nel maggio dell’anno prossimo che consentirà loro di uscire dal carcere senza avere collaborato. A braccio ne ho contati circa un centinaio. Tenuto conto delle forze in campo, quindi da una parte il ghota storico e intellettuale della mafia e dall’altro la nuova normativa contenuta nelle proposte in esame, mi sono chiesto se questa normativa sarà una barriera sufficiente a sostenere l’onda d’urto da parte del variegato fronte degli irriducibili”.
Gli irriducibili sono, in base alla definizione tecnico giuridica, coloro che “sono in possesso di informazioni utili per evitare che l’attività delittuosa sia portata ad ulteriore esecuzione e sono in possesso di informazioni utili che potrebbero portare alla cattura dei responsabili di reati efferati e ciò nonostante non vogliono collaborare con la giustizia”.
Scarpinato, nel ripetere la definizione sopraddetta, ha specificato che sono loro il vero fulcro della discussione posta in Commissione poiché “la normativa vigente già consente infatti all’ammissione di misure alternative, o al beneficio della liberazione condizionale, tutti i condannati all’ergastolo per delitto di mafia che per ragioni oggettive e verificate non sono in grado di fornire una collaborazione utile o non rilevante. Già questi possono essere ammessi ai benefici penitenziari quindi stiamo parlando soltanto degli irriducibili”.
Questi ultimi, se vogliamo essere realisti, sono decisamente in netto vantaggio perché in tempi recenti sono state emanate numerose sentenze a loro favore tra cui: "le sentenze sull’ergastolo ostativo della corte europea dei diritti dell’uomo nella causa intentata contro l’Italia nel 2018, la sentenza della corte costituzionale numero 253 del 2013 sui permessi premio e l’ordinanza numero 97 del 2021 della Corte Costituzionale sul ergastolo ostativo".
Queste sentenze, secondo Scarpinato, non hanno aperto solo una voragine normativa dalla quale poi potrebbero uscire altri provvedimenti a favore dei boss, ma hanno anche "sdoganato da un punto di vista etico una serie di motivazioni che a parere di tale Corte legittimano pienamente la decisone degli irriducibili di non collaborare”. "In sintesi si tratta di tre tipologie di non collaborazione: la prima è l’impossibilità a collaborare per il rischio di subire delle ritorsioni, la seconda è il rifiuto di non collaborare per motivo culturale, cioè perché il collaboratore non vuole sentirsi un infame, la terza tipologia di rifiuto giustificato a non collaborare consiste nella rivendicazione e nel riconoscimento del diritto di ciascuno di ravvedersi a modo proprio e non soltanto nei modi imposti dall’ordinamento”.
Tutte le tipologie di non collaborazione presentano, secondo l'analisi del magistrato, punti estremamente vulnerabili oltre che a generare effetti culturalmente deleteri.
Sul punto uno, Scarpinato ha domandato quale "credibilità possa avere uno Stato che per un verso giustifica per questo motivo l’uscita dal carcere di pluri assassini ammettendo così la propria incapacità di fornire adeguata protezione e dall’altro quasi schizzofrenicamente sollecita i privati cittadini, vittime di estorsioni o i collaboratori di giustizia, ad accusare i mafiosi garantendo protezione".
Il secondo punto invece sdogana moralmente "la cultura dell’omertà" o quanto meno stabilisce "un’equivalenza valoriale tra la cultura della legalità, secondo cui un collaboratore non è un infame e la sub cultura mafiosa, secondo cui un collaboratore è un infame. L’irriducibile si crede un infame se rivela i crimini dei suoi complici in libertà" al contrario "non si sente un infame se con il suo silenzio consente ai suoi collaboratori di continuare ad uccidere o a praticare violenza nei confronti delle vittime".
Infine approvare la terza tipologia di non collaborazione equivarrebbe "a stabilire la prevalenza dell’etica dell’intenzione rispetto all’etica delle responsabilità. Prevalenza pienamente condivisa dal mondo mafioso che ha sempre sostenuto che ciò che conta è pentirsi di fronte a Dio e non dinanzi agli uomini”. “Personalmente ritengo - ha spiegato l'ex procuratore - che nessuna di tali motivazioni sia culturalmente ed eticamente condivisibile e ritengo la loro legittimazione da parte delle corti un sintomo di significativo regresso culturale o, se si preferisce, di omologazione al principio unico neo liberista oggi dominante, la cui bandiera ideologica è sintetizzata nel motto di Margaret Thatcher: ‘la società non esiste, esistono gli individui’. In sostanza significa che gli interessi collettivi non esistono, esistono soltanto gli interessi dei singoli che devono essere quindi considerati prevalenti rispetto agli interessi collettivi”.
In conclusione Scarpinato ha detto che il legislatore dovrà fornire dei paletti anche per non lasciare da soli i magistrati di sorveglianza, i quali, in mancanza di una bussola decisionale, dovranno assumere sulle loro spalle tutto l'onere della scarcerazione o della permanenza del detenuto. Tutto questo ovviamente comporterebbe per loro un’altissima esposizione.

La mafia è nemica dello Stato di Diritto
Il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli intervenuto tramite collegamento video ha detto che "mi è parso condivisibile la scelta della Corte Costituzionale di rimettere al Legislatore l’intervento. Perché un intervento della Corte demolitorio avrebbe avuto effetti devastanti".
La Consulta ritiene che il regime dell'ergastolo ostativo non sia costituzionalmente in linea con l'art. 27 della costituzione ma come ha ricordato Tescaroli, “le condotte dei mafiosi vanno ad incidere" su altri diritti di rilevanza costituzionale come "il diritto di libertà, di uguaglianza, il diritto alla vita e alla sicurezza, il principio per cui le prestazioni personali patrimoniali possono essere imposte solo sulla base della legge, violato dalla condotta dei mafiosi i quali chiedono un pagamento sistematico del pizzo".
Cosa Nostra non ha mai fatto tanta politica quanto nel 1992 e nel 1993. Infatti, oltre che a infliggere danni all'assetto democratico, la mafia ha cercato di portare avanti (con successo) un "progetto politico - eversivo che ha colpito il cuore dello Stato” nel “periodo 92 - 94. Con stragi in Sicilia e nel continente. Sia i mafiosi, sia i vertici di Cosa Nostra hanno agito con la prospettiva di ricattare esponenti delle istituzioni al fine di condizionare la politica legislativa del nostro Paese”. Va tenuto presente che la mafia si è spinta "fino a condizionare l’elezione del presidente della repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, con l’esecuzione della strage di Capaci”.
Tescaroli ha poi riferito che "la verità sulle stragi non è stata raggiunta nella sua completezza" e che "abbiamo ancora dei responsabili condannati con sentenza passata in giudicato come Matteo Messina Denaro che è ancora latitante. E’ una realtà, quella che viviamo che non è conosciuta in Europa. E vorrei anche sottolineare il dato che la normativa sull’ergastolo ostativo rientra nelle iniziative che sono state promosse da Giovanni Falcone e che si è accertato che tra le ragioni dell’uccisione di Giovanni Falcone vi è stata quella di volerlo punire per le iniziative che aveva promosso come direttore generale degli affari penali all’allora ministero di grazia e giustizia”. “La corte costituzionale ha stabilito - ha continuato - che soltanto una dichiarata dissociazione non può essere idonea a fondare un giudizio di ravvedimento. Bene sul punto io credo che sia necessario un intervento normativo specifico perché occorrerebbe espressamente dire che la dissociazione concreta manifestata dal detenuto con l’assunzione delle proprie responsabilità è incompatibile con la concessione della liberazione condizionale. Vi dico questo dato, perché lo traggo dalla mia esperienza concreta: la scelta della dissociazione sul finire degli anni 2000 e inizio 2001 è stata portata avanti da una serie di capi mafia appartenenti a Cosa Nostra, era stata mandata al mittente quell’iniziativa, ma le iniziative sono ancora in atto attualmente. Abbiamo Filippo Graviano, uno dei boss stragisti che sta portando avanti una simile iniziativa. Abbiamo elementi di vertice della Camorra che si stanno muovendo in questa direzione. Ora è assolutamente fondamentale valorizzare la collaborazione, perché la dissociazione nella forma che vi ho dato in precedenza, consente di far si che venga consolidato il sodalizio di appartenenza. Solo la collaborazione ha la funzione di sgretolare il consesso mafioso. E questa è una scelta di politica legislativa che spetta indubbiamente al legislatore”.
Il procuratore fiorentino ha poi aggiunto che "io credo che sia razionale limitare l’accesso ai benefici penitenziari al condannato mafioso rispetto agli altri condannati. In particolare riferimento al terrorista perché difformi sono le strutture associative di appartenenza. La mafia, pur avendo con il terrorismo elementi comuni fra tutti quello dell’uso sistematico e indiscriminato della violenza, i due fenomeni criminali si differenziano e si differenzia anche la loro pericolosità. La mafia non è un potere occulto e c’è bisogno sempre che si sappia chi comanda pur negando la propria identità e non è legata a ideologie come invece il terrorismo. E nei confronti del terrorismo c’è stata una presa di posizione netta da parte di tutte le forze politiche ma questo non si è registrato con le associazioni mafiose che sono un nemico non sempre esterno allo Stato".
Infine Tescaroli ha espresso alcune proposte normative alla Commissione di giustizia: "Altro dato che vorrei sottolineare è quello della possibilità di differenziare le condotte del mafioso rispetto a quelle del terrorista, dello stupratore o del maltrattante assassino e pensare ad una soluzione differenziata di queste posizioni. Ritengo poi che sia utile la visione dell’introduzione dell'obbligo di dimostrare l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti da reato o dell’assoluta impossibilità di tale adempimento e di pensare di prevedere un periodo più consistente di sottoesposizione alla libertà vigilata prima di estinguere la pena e che implichi un obbligo di dimora in aree diverse rispetto a quelle di radicamento o di operatività del sodalizio di appartenenza”.

Ardita: "Non permettere a chi ha funzioni gestorie di uscire dal carcere"
Questa normativa è nata nel 1991 nell’ufficio della Direzione degli Affari penali diretto e seguito da Giovanni Falcone. Quindi è una normativa che è piena” per quanto riguarda “il suo contenuto e la sua funzionalità, rispetto alle esigenze che dovevano essere perseguite. Lo spirito di questa normativa: l’introduzione di un doppio binario" che non ha semplicemente lo scopo di punire qualcuno perché ha commesso un reato ma anche quello di arrivare "a conoscere e decidere meglio su fenomeni molto complessi che sono quelli sulla criminalità organizzata di tipo mafioso". Sono state queste le parole del consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita in merito al regime penitenziario del 41 - bis. "La normativa - ha continuato il magistrato - “è nata da una necessità di scambio di tipo informativo tra soggetti che conoscono le dinamiche criminali delle organizzazioni mafiose" ossia tra "soggetti che stanno nel sistema informativo DDA - DNA”.
Per il consigliere il modo con cui Cosa Nostra si infiltra nei settori legali della società non è visibile, ecco il motivo per cui viene applicato il 4 bis, che risulta essere, oltretutto, anche “uno strumento di prevenzione che consente di utilizzare una diversa forma” o “un diverso atteggiamento dello Stato nei confronti dei benefici” destinati a determinati soggetti che “potrebbero fingere di fare un percorso di rieducazione”. “Ora - ha continuato - la sentenza della Corte è scritta molto bene” ma è chiaro “che la soluzione che deve essere adottata deve essere il più possibile stringente” per far sì che “tutti i capi di Cosa Nostra, ossia tutti quelli che hanno una funzione gestoria, possano essere esclusi come lo sono già stati in passato" dai benefici della liberazione condizionale. "Siamo realisti - ha detto - io ho diretto per tanti anni l’ufficio detenuti al ministero della giustizia, ci possono essere anche dei casi nei quali un soggetto che è appartenuto ad una associazione in modo molto marginale, magari viene scaricato o entra in conflitto per qualche ragione, ma sono casi abbastanza rari. Non bisogna commettere invece l’errore di prendere questo modello come sistema, permettendo anche a chi ha le mani in pasta nella realtà mafiosa che possa poi uscire dal carcere e continuare a commettere reati. Vi dico questo perché purtroppo anche nel passato ci sono stati casi specifici” ha spiegato il magistrato, dove si è “arrivati a questo risultato. Vi faccio un esempio: quello che è accaduto a Catania nel 2014. Ad un certo punto ha ritrovato la libertà un detenuto, che aveva commesso sei omicidi di mafia, e nel 2015 ha riorganizzato un gruppo e ha sottoposto a estorsione un imprenditore, Renato Caponnetto, lo ha poi sequestrato, torturato, ucciso e poi bruciato sui copertoni dei camion”. Solo “dopo che è stato arrestato ha deciso di collaborare con la giustizia”. “Quindi il passaggio che doveva normativamente essere obbligatorio per accesso ai benefici non lo ha seguito, ma lo ha seguito dopo”.
Il consigliere ha invitato poi il Parlamento “ad osservare e controllare lo stato di salute e di vita degli operatori penitenziari, perché è giusto sapere in che condizioni stanno operando”; se “sono in condizioni di difficoltà e di stress, di mancanza di comunicazione o di regole. Insomma è importante avere questa misura. Perché le norme vengono applicate dagli uomini” e non dobbiamo permettere "che si verifichino di nuovo quelle situazioni tipo carcere sud americano come quelle che abbiamo visto a Santa Maria Capua Vetere, che sono da condannare ma occorre fare un’analisi per capire che cosa c’è dietro realmente. Quindi attenzione a calibrare meglio i presupposti di questa nuova normativa”.

Un tribunale unico di sorveglianza
Alfonso Sabella nell'esporre il suo parere dinnanzi alla commissione si è detto favorevole a centralizzare la competenza “dei soggetti al 4 bis ad un unico tribunale di sorveglianza” al fine di “evitare disparità di trattamento e soprattutto per evitare una sovraesposizione da parte dei magistrati”.
Oggi è tutto molto casuale - ha detto - e il detenuto viene giudicato da un tribunale rispetto ad un altro sulla base dell’istituto penitenziario a cui è assegnato e non sempre noi abbiamo nei magistrati di sorveglianza di quel determinato territorio la capacità“ di cogliere bene “alcuni aspetti”.
Inoltre, secondo Sabella, "il vincolo associativo è tendenzialmente eterno. E questo lo dico non sulla base della mia esperienza come pm a Palermo negli anni del dopo stragi quando mi sono confrontato con i mafiosi più pericolosi dell’ala stragista di Cosa Nostra, ma lo dico anche sulla base della mia esperienza napoletana degli ultimi anni. Io ho visto come ancora oggi noi ci confrontiamo con ordinanze di custodia cautelare e provvedimenti giudiziari che hanno a oggetto personaggi che erano inseriti in famiglie di Camorra già da tempi immemorabili ed erano stati condannati per questo, avevano scontato la loro pena e che usciti dal carcere hanno ripreso regolarmente a commettere gli stessi reati”. Per questo, secondo il magistrato, occorre trovare un "punto di intesa tra le varie proposte di legge" e tentare di preservare il più possibile la normativa del 41 - bis.

Caselli: "L'emergenza mafia non è finita"
C’è chi dice che l’emergenza mafia è finita,  ma senza voler offendere nessuno chi dice queste cose mi sembra Alice nel Paese delle Meraviglie” ha detto l'ex magistrato Gian Carlo Caselli ricordando che “siamo in tempo di pandemia, dove tutti sono concordi nel dire che le mafie sono in agguato” per approfittarne, come anche ricordato dall’ultima relazione della DIA.
Secondo Caselli occorre concentrare la normativa solo nell’ambito dei reati in merito alle organizzazioni di stampo mafioso poiché il pacchetto normativo di riferimento al 4 - bis e del 41 - bis "ha funzionato e funziona" facendo "crollare il mito dell’impunibilità della mafia”. Ha poi aggiunto che il principio della rieducazione del condannato, “è un sacrosanto diritto di civiltà giuridica” ma “quando si tratta di mafiosi irriducibili non pentiti è legittimo porsi alcuni interrogativi". Primo: il mafioso giura eterna fedeltà all’organizzazione e il suo status non decade nel tempo, quindi “si può trarre la ragionevole conseguenza che i mafiosi per usufruire dei benefici penitenziari devono fornire prove certe di rinuncia allo status di uomo d’onore?” Secondo: “Si può dire che la condotta univoca affidabile che concretamente dimostra di voler disertare dall’organizzazione criminale cessando di esserne strutturalmente parte è il pentimento?
Senza pentimento - ha continuato - la decisione sulla sorte dell’ergastolano diventa un azzardo” in linea con le strategie del mafioso che tenta in tutti i modi di farsi riconoscere tali benefici. “In altre parole la mia opinione è che il doppio binario per i mafiosi non pentiti, ergastolo ostativo compreso, risponde a criteri di ragionevolezza basati sul concreto e specifico problema della mafia” ha detto Caselli, aggiungendo che "deve essere esclusa la rilevanza di qualsiasi dichiarazione di mera e semplice dissociazione. E qui ci aiuta la consulta che nella sentenza numero 253 del 2019, proprio in tema di ergastolo ostativo ha detto che: la dissociazione è un atteggiamento ambiguo, facilmente strumentalizzabile per dissimulare e far persistere l’adesione al clan” e che non basta la semplice condotta esemplare registrata in ambito carcerario.
Il magistrato infine ha detto che si potrebbe auspicare l'inserimento nel disegno di legge in esame di una verifica della residenza dove il detenuto sta usufruendo dei permessi premio, con annessa una verifica del luogo, delle sue frequentazioni, e se ci sono segnali di un possibile riallacciamento all'organizzazione mafiosa.

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