“Le istituzioni se non sollecitate tendenzialmente pensano ad altro. L’antimafia ce la mettiamo dentro noi”
Milano, seconda città più importante in Italia e prima per reputazione al mondo, è una metropoli dove, come in tutte le altre, da anni fanno affari le mafie con investimenti, traffici di droga, appalti ecc. Eppure, leggendo quelli che sono i programmi elettorali dei candidati a sindaco del capoluogo lombardo sembrerebbe che tutto questo sia solo fantasia. Questo lo si evince dal fatto che quasi nessuno di questi ha citato la lotta alla mafia come una delle priorità per la città. Come se la mafia a Milano non ci fosse. Della questione ne aveva parlato Wikimafia che qualche giorno fa ha pubblicato sul proprio sito un articolo provocatorio dal titolo “La mafia a Milano non esiste*”. Sul tema abbiamo quindi chiesto un parere a Nando dalla Chiesa, docente universitario all’università di Milano e figlio del generale dei carabinieri ucciso dalla mafia il 3 settembre 1982.
Come è possibile che quasi nessuno dei candidati sindaco abbia parlato di criminalità organizzata nei propri programmi come una delle problematiche fondamentali da affrontare?
E’ possibile perché fa parte del costume milanese, anche di quello più avanzato. Ci sono quelli invitati a parlare di mafia che si ricordano che è un problema importante e lo trattano come tale. Poi ci sono quelli che decidono, anche se sollecitati esternamente a parlarne, che non devono parlarne.
Generalmente non c’è un’attenzione particolare sul tema. E questo nonostante le sollecitazioni della società civile, la posizione attenta ai movimenti antimafia da parte del comune e la ricezione da parte della Regione di istanze molto avanzate nella sua legge per l’educazione alla legalità. Le istituzioni, però, se non sollecitate, se lasciate a sé, tendenzialmente pensano ad altro. Come se ci fosse una memoria naturale che non si è ancora modificata per effetto della consapevolezza del mafiosismo. Mi sembra come il corpo umano quando si abitua a funzionare in ragione dei contesti e delle condizioni che li hanno generati. Continuano ad essere quelli quando potendoli correggere andrebbero in un altra direzione. Questa metafora è in riferimento ai casi migliori, cioè di coloro che richiamati si correggono. Poi ci sono altri che invece non lo fanno perché si sono abituati a fare certe campagne elettorali e a trattare certi temi perché non vogliono parlare di mafia. Quindi direi che c’è un effetto abitudine che ancora non è stato interrotto e c’è una incompatibilità con un progetto impegnato sull’antimafia.
Che segnale è?
E’ il segnale che c’è nella classe dirigente milanese e lombarda. L’antimafia ce la mettiamo dentro noi, dalle università, dalle scuole, dalle associazioni e dai libri. Se non ce la mettiamo dentro noi è molto difficile che abbia una vitalità autonoma.
Rimanendo sulla politica, di recente è stata approvata in Camera dei Deputati la riforma della giustizia Cartabia. Il Csm, la stragrande maggioranza dei magistrati e procuratori antimafia, i giuristi, i giornalisti antimafia e i parenti delle vittime come lei hanno osservato numerose crepe in merito. Nicola Gratteri l’ha addirittura definita la peggiore riforma che ha letto da quando veste la toga. Qual è la sua idea?
La mia idea è che c’è contemporaneamente una caduta di sensibilità che è stata segnalata da tutte le magistrature. Ma a questa caduta va abbinata anche una caduta della capacità politica di comprensione del problema. Io credo, ad esempio che Martinazzoli, ex ministro e membro della DC riformista cattolica, non ne sapesse nulla di mafia, però quando è stato Guardasigilli ha capito cos’era il maxiprocesso. La stessa Rosy Bindi quando è stata eletta alla Commissione Antimafia non ne sapeva nulla di mafia, ma poi ha capito. Quindi il problema è la statura politica delle persone. Perché noi facciamo i conti non soltanto con caduta di sensibilità nei confronti della mafia ma anche con la discesa della statura della classe politica. Ad ogni modo non credo che questa sia la riforma della giustizia più brutta, sono state fatte altre di peggio anche agli inizi degli anni duemila. Mi sembra esagerato. Il fatto certo è che quando si parla di giustizia si pensa sempre alle stesse cose, come riflesso condizionato. I mafiosi sono il gruppo più forte di quelli che stanno dentro, anche perché i politici in carcere non ci vanno, e quindi sono quelli che pesano di più sugli avvocati, quelli che riescono a fare blocco. Ma questa è una questione politicissima che sta nella storia politica d’Italia per la quale per affrontarla occorrerebbe una classe politica di grande livello dal punto di vista politico e morale.
Tra non molto dovrebbero arrivare i famosi soldi dall’Europa (circa 248 miliardi di euro del PNRR) per rilanciare l’economia e il Paese, quanto è elevato il rischio che una parte di questi investimenti finiranno in qualche modo alle organizzazioni mafiose?
Il rischio è evidente, questi sono piatti sui quali normalmente la mafia cerca sempre di buttarsi. Dopodiché il problema è quanto spazio viene lasciato loro. Io credo che il problema non stia tanto nelle norme ma nelle catene di controllo cioè avere grandi professionisti che esercitano un controllo sugli appalti, sull’identità di coloro che si presentano agli appalti per essere pronti a indagarli. Troppe norme rischiano di far apparire l’antimafia come quella che blocca lo sviluppo mentre grandi controllori diventano uno svantaggio per chi si aspetta di avere vita facile. D’altra parte una delle ragioni per cui siamo riusciti a proiettare un film diverso da quello che si aspettava la ‘Ndrangheta con l’EXPO 2015 è stato che insieme ci sono state norme che consentivano interdittive e un insieme di poteri e società si ritrovano facendo gioco di squadra, da scudo. A un certo punto si sente il boss di Bollate che dice “dobbiamo prenderci tutti i tombini”, e non i grandi lavori.
In questi giorni si sta parlando molto del referendum sulla legalizzazione delle droghe leggere. Qual è la sua opinione?
Non ho opinioni precise in merito anche perché sento dati contrastanti. Quindi non faccio guerre di religione né su un versante, né sull’altro. Ho più l’atteggiamento di chi cerca di capire cosa è successo, dove sono state adottate certe misure e dove certe altre.
Foto © Imagoeconomica
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